A 50 anni da Piazza Fontana: la Caporetto della magistratura

 

In accordo con l’Autore, nostro collaboratore fin dalla fondazione de “Il Nuovo Arengario”, riproponiamo questo suo articolo-memoriale-testimonianza sulla strage di piazza Fontana, la protostrage degli “anni di piombo”, che Luciano Garibaldi ha scritto e pubblicato sul settimanale “Il Sussidiario”.

 

A 50 anni da Piazza Fontana: la Caporetto della magistratura

di Luciano Garibaldi

 

Cinquant’anni fa, il 12 dicembre 1969, scoppiava la bomba di piazza Fontana, a Milano. Da più di un mese, sui quotidiani, sui settimanali, sui siti on-line, sulle TV, sul web, non si parla d’altro. E’ l’argomento più trattato. Una ragione valida esiste: quella giornata fu la data d’inizio  della strategia della tensione e del terrorismo che insanguinarono il nostro Paese per oltre un decennio. Le rievocazioni, però, sono a senso unico: “strage nera”, “strage fascista”, “strage voluta dalla CIA”. Poiché una univoca e incontestabile verità giudiziaria, sulla strage in questione, non vi è mai stata, forse vale la pena riscoprire un evento collaterale alla strage, da tutti dimenticato. Il riferimento è ad una sentenza della magistratura di Monza emessa l’8 novembre 1996  in una causa per diffamazione che vedeva sul banco degli imputati, assieme ad altri giornalisti, anche lo scrivente. Tutti querelati da Pietro Valpreda, l’ex ballerino anarchico in un primo tempo arrestato, e poi, dopo un lungo processo, assolto dall’imputazione di aver collocato nella Banca dell’Agricoltura la tragica bomba che fece diciassette morti e 90 feriti.

Il Tribunale di Monza, dopo aver dedicato tempo e attenzione al processo, ascoltando numerosissimi testimoni nel corso di udienze che andarono avanti per oltre tre anni, pronunciò una sentenza, che, in fatto e in diritto, rimane un esempio di serietà e di civiltà giuridica. Specialmente laddove riaffermava il pieno diritto della stampa e della ricerca storica, in uno Stato moderno e democratico, di rimettere in discussione – nei dovuti modi – sentenze anche definitive della magistratura.

I fatti, prima di tutto. Nel pomeriggio del 12 dicembre 1969, quattro bombe ad alto potenziale vengono collocate in tre banche (due di MIlano e una di Roma) e all’Altare della Patria. Gli ordigni, ad orologeria e nascosti in quattro borse, sono regolati in modo da esplodere attorno alle 16,30, cioè quando nelle banche (che chiudono alle 16) non dovrebbe esserci più nessuno.

Le due bombe di Roma esplodono senza fare danni alle persone. Una delle due bombe di Milano, quella collocata alla Banca Commerciale di piazza della Scala, fa cilecca. La quarta bomba, sistemata all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano, esplode proprio mentre il grande salone dell’istituto di credito è gremito di agrari che, in via eccezionale, si sono trattenuti oltre l’orario di chiusura per portare a termine, col consenso della direzione, le loro operazioni. E’ la strage: 17 morti e diecine di feriti, tra cui molti mutilati e sfigurati.

 

 

Gli attentatori sapevano o non sapevano che gli sportelli sarebbero rimasti aperti oltre il normale orario? E’ la prima domanda destinata a restare priva di risposta. Se infatti lo sapevano, è chiaro il loro intento di fare una carneficina. Se invece non lo sapevano, vuol dire che si è trattato, in un certo senso, di una «disgrazia». Volevano il botto, ma non il sangue.

L’emozione pervade il Paese. Da sinistra si leva un solo grido: «Sono i fascisti! Vogliono un golpe militare!». Da destra si risponde: «Sono gli anarchici! Vogliono trascinare il Paese nel caos!». Gli animi si dividono, lo scontro politico si radicalizza, polizia e magistratura lavorano in un clima esasperato, qualunque passo rischia di sollevare reazioni imprevedibili. Per una Procura (quella di Roma) che indirizza le sue indagini sulla «pista anarchica» e ordina l’arresto del ballerino Pietro Valpreda, altre due Procure (quelle di Treviso e di Milano) aprono invece la «pista nera», arrestano l’avvocato Franco Freda, l’editore Giovanni Ventura e mettono sotto inchiesta il giornalista Guido Giannettini, agente dei servizi segreti.

Quando, a Roma, ha inizio il processo a Valpreda e compagni, la mobilitazione dell’intera sinistra (dal PSI per finire a Lotta Continua) contro i poliziotti e i magistrati che avevano imboccato la «pista anarchica» si rivela impressionante. Le principali città del Paese sono percorse da cortei studenteschi che gridano: «Polizia assassina! Valpreda innocente!». I deputati del PCI e del PSI (quest’ultimo con un piede nel governo e uno nell’opposizione) paralizzano il Parlamento: non c’è tempo per occuparsi d’altro che della strage e del processo di Roma. E quando, il 23 febbraio 1972, hanno inizio le udienze davanti alla Corte d’Assise di Roma, appare subito chiaro che non sarà possibile portarle avanti. La piazza è in mano alla sinistra, a Roma escono due quotidiani (quotidiani!) che hanno per testata: «La strage di Stato» e «Processo Valpreda», pieni di insulti contro le autorità dello Stato, a cominciare dal presidente della Repubblica. Pochi mesi dopo, il Parlamento approva la cosiddetta “legge Valpreda”, fatta apposta per rimettere in libertà il ballerino anarchico, nel frattempo candidatosi alla Camera (ma trombato) nelle liste del «Manifesto».

Il processo è sospeso e assegnato, dalla Cassazione, alla Corte d’Assise di Catanzaro, che due anni dopo, il 18 marzo 1974, dà inizio alle udienze. Ma contemporaneamente, con un tempismo perfetto, ha luogo, a Milano, il rinvio a  giudizio, per lo stesso reato, di Freda e Ventura («pista nera»). Nell’aula di Catanzaro l’avvocato Odoardo Ascari, patrono delle vittime di piazza Fontana, si leva a parlare: «Siamo all’assurdo! Siamo al processo di Kafka! Chiedo la riunificazione dei due procedimenti!».

Istanza accolta dalla Cassazione. E così, il 27 gennaio 1975, dinnanzi alla stessa Corte d’Assise di Catanzaro, ha inizio (per la terza volta) il processo. Sul banco degli imputati, fianco a fianco, i «fascisti» e gli anarchici. Ma ben presto le udienze si arrestano. E’ infatti giunta a conclusione l’istruttoria contro Guido Giannettini, l’uomo del Sid, rinviato a sua volta a giudizio per strage dal giudice istruttore di Catanzaro.

Il 18 gennaio 1977 il processo, con l’intero schieramento degli imputati alla sbarra, ha finalmente inizio (per la quarta volta). Esso dura due anni e si conclude con l’ergastolo per Freda, Ventura e Giannettini e l’assoluzione per insufficienza di prove per gli anarchici. In appello, il 20 marzo 1981, assoluzione per insufficienza di prove per tutti. Partono le impugnazioni verso la Cassazione e viene fissato un nuovo processo davanti alla Corte d’Assise di Bari. La sentenza è del 1985: assoluzione per tutti per insufficienza di prove. Ma non è ancora finita. Nel 1987 s’apre a Catanzaro una nuova istruttoria contro il «neofascista» Stefano Delle Chiaie, arrestato nel frattempo in Venezuela. Anch’egli viene rinviato a giudizio per la strage. Sarà assolto con formula piena nel febbraio 1989.

Dunque: chi e perché collocò la bomba nella banca di piazza Fontana? Una condanna definitiva e incontrovertibile non esiste. Puoi scrivere «bomba nera» sicuro che nessuno ti querelerà. Idem se scriverai «bomba anarchica». Questa è la storia che non trovo altro modo se non definire, come già a suo tempo scrissi, «la Caporetto della magistratura».

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