Amare i nostri nemici e pregare per loro

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Riflessioni su un precetto difficile da attuare

“Audistis quia dictum est:Diliges proximum tuum et odio habebis inimicum tuum. Ego autem dico vobis: Diligite inimicos vestros et orate pro persequentibus vos, ut sitis filii Patris vestri , qui in caelis est, quia solem suum oriri  facit super malos et bonos, et pluit  super iustos e iniustos … Estote ergo vos perfecti, sicut Pater vester celesti perfectus est” (Mt 5, 43 ss).

 

Tutti abbiamo la profonda consapevolezza che mai, come in questo momento storico, il Male domini in tutte le sue forme più ipocrite, ambigue e devastanti. L’odio etnico, razziale, sociale imperversa in tutti i continenti, segno che nei recessi più profondi dell’animo umano il peccato originale ha fatto sedimentare qualcosa che, pur ammettendo l’esistenza del Bene ed aspirando ad esso, tuttavia impedisce all’uomo di praticarlo. Io – che sono una cattolica “bambina”, forse un po’ troppo ingenua data la mia età non più verde – ultimamente sono stata molto colpita dalla notizia che perfino il Presidente degli Stati Uniti – che dovrebbe incarnare, in campo politico, il più alto e nobile esempio di attuazione dell’etica mondiale sancita nel Decalogo – non ha desistito dall’assassinio politico nella convinzione che i superiori interessi del suo paese consentissero una deroga al V Comandamento. E ho visto in questo atto il predominio del Male. Niccolò Machiavelli, qualunque sia stato il suo destino eterno, si sarà compiaciuto di aver trovato nel Nuovo Mondo, dopo cinque secoli, un allievo che ha imparato così bene la sua lezione.

Non ho intenzione di entrare in un ragionamento politico, ma leggere sui giornali che il Presidente Trump avrebbe detto che quell’operazione “avrebbe dovuto essere fatta prima”, mi ha raggelato. Istintivamente sono corsa ad aprire a caso i Vangeli come in cerca di lume e rassicurazione e, guarda caso, mi son imbattuta in uno dei passi a mio giudizio più difficili, quello in cui Gesù esorta ad amare i nemici (Mt 5, 43 ss).

Questo precetto evangelico è uno dei più sconvolgenti di tutto il Nuovo Testamento. Come è possibile amare i propri nemici? E fare del bene a coloro che ci perseguitano? Il significato letterale della frase pronunciata da Gesù è chiarissimo, eppure nessun altro fondatore di religioni al mondo ha mai spinto il suo insegnamento fino a tanto e, ancor meno, a raccomandare di “pregare per i propri persecutori”. Tutto al più il Budda, l’“Illuminato”, è riuscito a spingersi fino ad esortare gli uomini alla “compassione” per i propri simili, ma la compassione è cosa ben diversa dall’Amore in senso cristiano. Per non parlare poi del Corano – libro “dettato direttamente da Allah al suo Profeta” –   che, pur prescrivendo  l’elemosina  rituale per i poveri, tuttavia è pieno di odio per gli “infedeli”. Ma se ci riflettiamo con animo sgombro da pregiudizi, ci accorgiamo che dovremmo amare i nostri nemici per il motivo più semplice e naturale che si possa immaginare, anche se ci voleva la venuta del Cristo per renderlo esplicito, altrimenti gli uomini non ci sarebbero mai arrivati da soli, come ha sempre dimostrato la storia dell’umanità.

Gesù lo spiega con parole semplicissime che vanno diritte al cuore di qualunque “uomo di buona volontà”. Noi esseri umani siamo tutti uguali, pur con le inevitabili differenze di etnia, di civiltà, di lingua, di costumi e siamo tutti esposti al sole e alla pioggia, vale dire alla fortuna e alla disgrazia, alla gioia e al dolore, alla salute e alla malattia, e infine alla morte, destino comune che ci accompagna in ogni momento della nostra vita, pronto a impadronirsi di noi e di fronte al quale siamo completamente impotenti. Allora non vale la pena di collaborare nelle difficoltà della vita, di nutrire sentimenti benevoli e rispettosi nei confronti di chi è diverso da noi, di cercare di dirimere i contrasti invece di radicalizzarli? Sembra facile! Anche la Rivoluzione Francese tentò di rovesciare le ingiustizie dell’ “ancien régime” predicando “liberté, egalité, fraternité”.  Ma quella “fratellanza” era cosa completamente diversa dalla fratellanza cristiana, tanto è vero che proprio dalla Rivoluzione Francese nacque la parola d’ordine di “annientare il nemico” sia interno che esterno, come avvenne con le “colonne infernali” che tra il 1793  e il 1794 fecero strage degli insorti realisti della Vandea, dando luogo solo all’eterogenesi dei fini e perpetuando ciò che invece millenni di storia umana avevano sempre dimostrato.

L’ultima esortazione che ho citato in epigrafe, poi, si direbbe addirittura utopistica e irrealizzabile. Come può l’essere umano, creato e “finito”, raggiungere la perfezione di Colui che lo ha creato? Eppure Gesù non ha fatto che ripetere l’invito della Legge mosaica di somigliare a Dio: “Sarete santi per me, perché io, il Signore, sono santo e vi ho separato dagli altri popoli, perché siate miei” (Lv 20, 16). Nel Discorso della Montagna Gesù invita a somigliare a Dio nella perfezione per essere sale e luce di tutta la terra (Mt 5, 13 – 16). “Essere perfetti” significa sforzarsi di raggiungere lo scopo, giungere alla piena maturazione, meta che S. Paolo esprime con un esempio tratto dalla vita sportiva: “Non però che io abbia già conquistato il premio, o sia ormai arrivato alla perfezione, solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3, 12).

La paternità di Dio è proclamata in tutta la Bibbia: Dio è Padre perché è Creatore ed essendo creatore, si prende cura delle Sue creature: “Così ripaghi il Signore, popolo stolto e insipiente? Non è Lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?” (Dt 32, 6). Essendo Padre, Egli è anche educatore del Suo popolo durante il cammino nel deserto: “Essi erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li condurrò a fiumi d’acqua per una strada diritta in cui non inciamperanno; perché io sono un padre per Israele” (Ger 31, 9). Anche la liturgia ebraica conosce  tra le sue preghiere quella con cui a Capodanno e durante lo Yom Kippur ci si riferisce a Dio chiamandolo “Avinu Malkenu”, ossia “Padre nostro e nostro Re”. Israele risponde alla paternità di Dio con la fedeltà all’Alleanza e osservando la Legge. Nell’Antico Testamento, come nel Vangelo secondo Giovanni, l’osservanza della Legge conduce a una sempre maggiore somiglianza con Dio. La “perfezione” di cui parla Gesù nel Discorso della Montagna è lo sforzo costante, ottimista e gioioso di fare sempre la volontà di Dio. “… proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù”, ribadisce con forza S. Paolo (Fil 3, 13 – 14).

La perfezione di Dio si manifesta nel fatto che Egli fa solo il Bene e allora chi vuole essere discepolo di Gesù deve fare solo il bene in tutti gli ambiti e nei confronti di tutti gli altri uomini e, facendo il Bene, pregare per i propri persecutori perché si convertano anch’essi. Questo è il vertice della perfezione cristiana, quale fu attuato dal protomartire del Cristianesimo: il diacono Stefano che, mentre era colpito dalle pietre della lapidazione, “gridò forte: Signore, non imputar loro questo peccato. Detto questo, morì” (At 7, 59 – 60).

A questo punto, dato che mi sforzo di essere sempre completamente onesta, devo domandarmi: io, l’ultima tra le pecorelle di Cristo, io che amo infinitamente la Chiesa che mi ha accolta nel S. Battesimo, io che mi sento indissolubilmente legata alla bimillenaria civiltà cristiana, io che ogni domenica (durante la S. Messa) recito con profonda convinzione il Simbolo Niceno e, soprattutto, io che sono capace di predicare così bene, sono capace di razzolare altrettanto bene? Purtroppo devo rispondere di no.

Guardandomi intorno devo riconoscere che il mondo occidentale, imbevuto della deleteria filosofia relativista, nichilista, individualista che si è sviluppata negli ultimi due secoli, fa di tutto per cancellare il Cristianesimo e l’esperienza cristiana dalla storia dei popoli, provocando la desacralizzazione della vita umana, con tutte le conseguenze che ben conosciamo. In questi ultimi tempi, poi, stiamo correndo verso un neopaganesimo, verso un nuovo panteismo, modernizzati nella cosiddetta “ecoteologia” che attribuisce un valore  completamente pagano alle credenze delle popolazioni indie e amazzoniche, provocando quel rovesciamento del paradigma cristiano puntualmente descritto da José Antonio Ureta[1].

Questo fenomeno, che io chiamerei piuttosto “rottura”, è aperto fra l’altro alla più indiscriminata immigrazione, sostenuta dalla Chiesa, delle popolazioni islamiche nei nostri paesi e in particolare in Italia per motivi geografici, mentre la Chiesa stessa si rivela reticente sui cristiani perseguitati in Medio Oriente. In questo clima l’islamismo – fede guerriera per eccellenza che non ha mai fatto mistero della sua intenzione di conquistare il mondo  e soprattutto Roma, “caput mundi christiani” – ha buon gioco, mentre il Cristianesimo perde terreno ovunque.

La Chiesa cattolica, nel suo buonismo di matrice conciliare, sembra non comprendere  quello che sta accadendo sotto i suoi occhi, forse perché (vivendo anch’essa un innegabile indebolimento di Fede) teme la sua storica sconfitta e si aggrappa tremebonda al laicizzato mondo occidentale strizzandogli l’occhio e cercando di accontentarlo in tutto, anche dottrinalmente, generando la confusione  dottrinale e pastorale che tutti conosciamo. L’Occidente, poi, dimenticando che “il principio di reciprocità” è uno dei cardini del diritto internazionale, teme piuttosto la chiusura dei rubinetti del petrolio e gli attentati terroristici da parte del mondo arabo. Allora concede la più ampia libertà di culto, nei propri paesi, agli immigrati di religione islamica, tollera che in molte città europee si formino delle enclaves musulmane in cui domina la legge islamica e in cui (a quanto pare) neppure la polizia riesce a entrare, dimenticando che nei paesi islamici i cristiani sono spesso perseguitati e ostacolati in ogni modo nel professare la Fede. Ma il vero motivo per cui i governi occidentali si guardano bene dal pretendere dai governi musulmani un pari trattamento per i loro cittadini cristiani è che ad essi non importa più nulla di quel Cristianesimo che ha dato origine alla loro civiltà e la possibile scomparsa di esso è l’ultima delle loro preoccupazioni, dato che perfino l’Unione Europea è riuscita a impedire che nella propria Costituzione fosse riconosciuto l’immenso contributo offerto dal Cristianesimo allo sviluppo della sua civiltà. Quindi non c’è da meravigliarsi di questa sciocca cecità storica, filosofica e intellettuale, culturale degli Europei, dato che i tutti i governi moderni sono tesi soltanto a consolidare il potere del dio Mercato, come lo chiama Antonio Socci, e delle grandi multinazionali.

In questo scenario è possibile amare quelli che, nei secoli, si sono sempre dimostrati nostri nemici? Che ci accusano di politeismo e di blasfemia perché crediamo nella SS. Trinità e adoriamo Gesù Cristo come il Messia e il Figlio di Dio? Confesso che per me è molto difficile. Ma Dio ama anche i musulmani perché anche essi sono sue creature, anche se la loro dottrina rifiuta energicamente il concetto di filiazione perché Allah, il totalmente Trascendente, il Misericordioso, “non può avere figli come gli uomini”. Egli infatti non vuole amore da parte degli uomini che Lui stesso ha creato, perché non li ha creati per amore, ma solo per avere da loro “sottomissione”. Pensare che per amore Dio si è incarnato al fine di salvare le Sue creature dalla perdizione eterna è per loro mera blasfemia.

Eppure chi vuole somigliare al Padre celeste rivelatoci da Gesù deve amare tutti, anche chi ci odia, e deve andare incontro a tutti, sempre e senza condizioni come fecero S. Stefano e gli altri innumerevoli martiri cristiani. Perché è così che il Padre ci ama ed pronto ad aiutarci nel nostro sforzo di “correre verso la mèta” mandandoci quello Spirito Santo che io, peccatrice, invoco tutti i giorni chiedendoGli di aiutarmi a purificare me stessa per prima cosa. Poi, forse, riuscirò ad amare anche i nemici di quell’universo cristiano che io amo infinitamente e di cui mi sento parte integrante, e a pregare per la loro conversione.

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[1] Cfr J. A. Ureta, Il “cambio di paradigma” di Papa Francesco” a cura dell’Istituto Plinio Correa de Oliveira..

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