Completiamo la riflessione sulla superbia

 

Alcuni mesi fa feci una lunga riflessione sul peccato di superbia (vedi su https://www.ilnuovoarengario.it/la-superbia-regina-dei-vizi/), che la Chiesa Cattolica considera “la madre di tutti i peccati” e annovera nel suo Catechismo tra i peccati cosiddetti “capitali”, perché da essa possono scaturire tutti gli altri peccati. Ma come scrissi allora, l’argomento è talmente vasto e coinvolgente, non solo dal punto di vista spirituale e morale, ma anche nella sua dimensione antropologica e psicologica, che vale la pena di non lasciarlo cadere e tornare a rifletterci sopra ancora un po’, beninteso sempre con l’aiuto di colui che, su questo argomento, considero il mio maestro: P. Giovanni Cucci S.I.[1]

In psicologia la superbia è chiamata narcisismo ed è considerata la conseguenza patologica di uno sviluppo umano privo di limiti o divieti. E’ interessante notare come il Manuale diagnostico dei disturbi mentali, descrivendo le caratteristiche del narcisismo, mostri molte analogie con quanto osserva il Catechismo in ordine al comportamento dei superbi. Per esempio: il superbo si aspetta sempre, senza motivo, di essere considerato superiore agli altri; crede sempre di essere “speciale” e “unico”, perciò pensa che tutto gli sia dovuto; pretende sempre ammirazione pur essendo invidioso degli altri; è assolutamente incapace di empatia. Insomma, si potrebbe dire che così abbiamo descritto il comportamento di un “bambino viziato”.

Infatti c’è davvero da temere che in futuro i “bambini viziati” siano destinati ad aumentare a causa del decadimento che la pedagogia ha conosciuto a decorrere da quel  periodo storico di cui le anime belle politicamente corrette hanno festeggiato l’anno scorso il cinquantenario, trascurando di riflettere (o forse approvando il fatto) che da esso sono scaturiti il disfacimento della famiglia, l’aborto,  le unioni contro natura, la procreazione con metodi artificiali, con tutte le loro “sotto – conseguenze”, tra le quali l’abolizione di tutti i divieti in uno spirito di totale libertarismo[2]. Lo psicologo Claudio Risé ha messo in risalto come, negli anni successivi al ’68 – definiti stupidamente “formidabili” da un ingenuo, ma esaltato e (secondo me) in mala fede protagonista – la creazione degli asili infantili cosiddetti “antiautoritari” abbia generato nelle  disgraziate creature che li frequentarono, da un lato depressione e incapacità di giocare – e quindi inibizione di quanto c’è di più bello, spontaneo, naturale e istruttivo nei bambini – dall’altro, regressione verso una sorta di “marasma psicotico” che ha poi indotto gli operatori più responsabili ad abbandonare quel deleterio metodo educativo, convinti finalmente, ma a spese dei poveri bambini che ci sono incappati, che “il principio di autorità è costitutivo della personalità e condizione per il suo sviluppo”[3]. Quanti genitori, che hanno raggiunto la ricchezza con il loro duro lavoro dopo un’infanzia e un’adolescenza di povertà, vorrebbero che i loro figlioli avessero “tutto ciò che essi non hanno avuto”! Essi dimenticano – nel loro squilibrato amore per i figli che, invece di farli crescere umanamente, finisce per  indirizzarli  sulla strada della superbia – che nella vita non ci viene regalato nulla e che tutto si ottiene (e neppure sempre) con il duro lavoro, lo studio e il sacrificio.

Come ha ben messo in risalto Claudio Risé, a questa grave degenerazione del sistema educativo si è aggiunta la decadenza della figura paterna. Il padre ha sempre avuto il compito di incarnare il principio di autorità insegnando ai propri figli il valore vitale del limite. Se inizialmente è la madre la principale figura di riferimento, successivamente deve essere il padre a introdurre il bambino nell’agone della vita, della società e del mondo, a insegnargli come si affrontano i limiti, gli ostacoli e le difficoltà di cui  la vita stessa è intessuta, a ispirargli la fiducia in se stesso e nelle proprie capacità. Questo consentirà al bambino di instaurare relazioni “sane” con gli altri, senza cercare costantemente conferma del proprio valore. Tuttavia oggi, nella decadente società occidentale moderna, tutto questo avviene sempre più raramente, a causa della latitanza della figura paterna[4]. Allora il bambino, che cresce con l’insicurezza di fondo, cerca nell’altro chi lo confermi nel suo valore, colmi il suo bisogno di affetto e chiuda gli occhi sui suoi difetti. Invece la giusta punizione per le disobbedienze e le marachelle commesse ha per lui una funzione purificatrice, come hanno sempre riconosciuto tutte le tradizioni religiose che ricollegano la penitenza e l’espiazione al ritorno alla vita, al risollevarsi dalla caduta nel male e nella colpa.

E’ facile capire, a questo punto, che se il bambino percepisce che qualunque cosa egli faccia non ci saranno mai conseguenze per lui spiacevoli e tutto gli andrà sempre bene, si convincerà allora di avere diritto a essere sempre accontentato e svilupperà facilmente la superbia o, meglio ancora, il narcisismo. Senza limiti riconosciuti e accettati c’è il rischio di sviluppare un delirio di onnipotenza in cui tutto è fattibile, perché non si riconoscono le situazioni reali e diventa impossibile imparare dall’esperienza dei propri errori. Infatti come può un superbo ammettere di dover imparare qualcosa da qualcuno o, peggio ancora, ammettere di aver sbagliato?

Il superbo nutre sempre un senso di malevola acidità che lo rende perennemente scontento della vita. E non gli giova neppure trovare qualcuno che, per così dire, “lo metta a posto” tenendogli testa e rispondendo alle sue prepotenze. Se viene smentito o contraddetto, il superbo può anche diventare vendicativo per riaffermare il proprio orgoglio ferito, rivelando così anche un altro aspetto della perversione della superbia, perché i possibili rimedi possono renderlo ancora più ostinato e incattivito fino a fargli negare l’evidenza[5].

Conseguenza della superbia è anche la solitudine perché chi ama solo se stesso non riesce ad accorgersi degli altri. Secondo la bella osservazione di uno psicologo di cui al momento non ricordo il nome, “Narciso non si innamorò del suo riflesso perché era bello, ma perché era lui. Se fosse stata la sua bellezza ad affascinarlo, questa sarebbe sfiorita con il passare degli anni e la sua infatuazione sarebbe cessata”.

Gli psicologi riconoscono che curare un superbo è molto difficile perché difficilmente un superbo entra in terapia, e tanto meno in accompagnamento spirituale, perché  riconosce il suo difetto e vorrebbe diventare umile. Stimolare la curiosità di conoscere ciò che ancora non si conosce e di entrare nel mondo altrui può essere un buon metodo per affinare la capacità di ascolto e comprendere la complessità della realtà. Allora conoscenza e umiltà procederanno insieme se si avrà il coraggio di valutare i motivi per i quali ci si sente “persone importanti”. Che significa essere “importante”? Che cosa è davvero “importante” e perché? Riuscire a percepire la complessità e le innumerevoli sfaccettature del carattere e dello spirito dei nostri simili può aiutare a ridimensionare il valore che il superbo attribuisce al proprio fascino o intelligenza,ai titoli accademici conseguiti o alla classe sociale cui appartiene per nascita o per censo.  Accettare di riconoscere i propri limiti umani permette di accettare la propria imperfezione ed ha funzione di catarsi.

Ma non è facile arrivare a tanto. E’ necessario accettare di incamminarsi su un sentiero spirituale irto di asperità. Per l’umile non è importante riscuotere la stima e l’approvazione di chi gli è superiore socialmente o economicamente, perché sa già di essere gratuitamente stimato e amato da Dio, che lo ha creato per amore, e questo gli basta per vivere in pace senza invidiare nessuno. Perciò l’umile, a differenza del superbo, sa essere grato perché riconosce ogni giorno la bontà misericordiosa di Dio cui deve ogni cosa, gioie, dolori, successi e fallimenti.

Tommaso d’Aquino, sulla scia di S. Gerolamo, ammette che ci può essere anche una “superbia buona”. “Così accade quando qualcuno vuole compiere le opere dei consigli, che superano le opere comuni dei precetti[6]”. Mi torna in mente, in proposito, l’episodio evangelico dell’uomo ricco che corre incontro a Gesù e, prostratosi ai suoi piedi, Gli chiede: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?” (Mc 10, 17 ss). Gesù lo invita ad osservare i Comandamenti – ossia la Torah, come è prescritto a tutti i fedeli ebrei – e quando quello risponde che lo ha sempre fatto, lo fissa e lo ama, poi aggiunge : ”Una sola cosa ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. Ma quell’uomo non ha il coraggio di rinunciare alle sue ricchezze e se ne va afflitto.

Perché ricollego questo episodio alla “superbia buona”? Perché mi sembra che Gesù, fissando negli occhi e amando quell’uomo, che già osservava tutti i “precetti”, gli abbia proprio consigliato di fare quel “di più” che “supera le “opere comuni” (i Comandamenti) e fare qualcosa di buono e di bello per i poveri spogliandosi in loro favore delle sue ricchezze, cioè diventando “santamente superbo”, come dicono S. Girolamo e S. Tommaso[7].

E’ quello che hanno fatto tanti grandi Santi che non si sono limitati ad obbedire ai “precetti”, cosa che siamo capaci di fare anche noi comuni peccatori. I Santi hanno voluto fare qualcosa “di più”, ma non per superbia o per primeggiare su gli altri; lo hanno fatto per aiutare i fratelli facendo qualcosa di buono e di bello per loro.

Ecco quindi i fondatori dei grandi ospedali cattolici; ecco i grandi missionari  che hanno lasciato il loro paese per portare Cristo ai popoli più lontani che ancora non lo conoscono; ecco i grandi educatori dei giovani come S. Filippo Neri e S. Giovanni Bosco, ecco S. Francesca Cabrini, che nell’America della fine dell’800 fu chiamata “la santa mamma degli emigranti italiani”; ecco S. Teresa di Calcutta e infiniti altri che sarebbe troppo lungo elencare. Al termine della vita l’orgoglio, l’onore, il successo mondano saranno spazzati via, solo l’Amore rimarrà come tutto in tutti.

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[1] Giovanni Cucci S. I. “Aspetti psicologici della superbia”. LA CIVILTA’ CATTOLICA, N, 3865 del 2.7.2011

[2] Per saperne di più su quel nefasto periodo consiglio a tutti di leggere “Sessantotto. Diario politicamente scorretto” di Paolo Deotto, Fede & Cultura 2008 e “Il sessantotto. Macerie e speranza” di Giovanni Formicola, Cantagalli 2018.

[3] Claudio Risé, Il padre, l’assente inaccettabile, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo 2003, pag. 25 ss.

[4] Questo infatti è uno dei tanti frutti dei divorzi conflittuali: la madre, quasi sempre affidataria dei figli, riesce ad allontanarli dal padre il quale, per farsi perdonare della sua latitanza, vizia il figlio in ogni modo, con conseguenze spesso disastrose.

[5] Parlo per esperienza diretta. Nel corso della mia lunga attività lavorativa conobbi un dirigente che incarnava perfettamente il carattere che ho descritto. Ma quando “fu mandato a quel paese” pubblicamente da un giovane subalterno che non sopportava più le sue angherie e il suo pessimo carattere, trovò immediatamente la maniera di far trasferire il povero ragazzo a una disagiata sede di lavoro nella quale, lui che era romano, dovette rimanere diversi anni .

[6] S. Tommaso d’Aquino, “De Malo”, q.8,a. 2, ad. 17.

[7] Non posso fare a meno di domandarmi: si sarà salvato quell’uomo anche se non è stato capace di spogliarsi delle sue ricchezze? Io credo di sì, perché Gesù, fissandolo ed amandolo, aveva già letto nel suo cuore e aveva capito che lui era sinceramente intenzionato a fare la volontà di Dio, anche se, nella sua debolezza umana, non era capace di fare quel “di più”. Ma chi di noi poveri peccatori lo è? Nessuno si salva senza la misericordia infinita di Dio,.

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