I “fattacci” del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Alcune riflessioni

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Come sempre c’è una parte politica – e mediatica – che ha lo sdegno pronto quando è funzionale alla sua visione del mondo e della società. Peccato che questo sdegno “settoriale” non sia capace di vedere l’insieme di ingiustizie e anomalie che caratterizzano la nostra bella Società. E così vengono fuori le belle posizioni che invocano, spesso con fiumi di retorica, la mitica “legalità” senza fare il minimo sforzo per capire perché la legalità stessa sia stata violata e magari per porre i rimedi giusti.

È ovvio che le violenze subite dai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono inaccettabili. Ed è altrettanto ovvio che i colpevoli debbano essere puniti, quando la loro colpevolezza sarà accertata al di là di ogni ragionevole dubbio.

Ricordiamoci che siamo – quando fa comodo – il Paese super-garantista, in cui nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva. E questo deve valere anche se gli indagati appartengono a un Corpo di Polizia.

Adesso è il momento dello “sdegno” ufficiale. Un ministro, mi pare sia una signora che si chiama Cartabia, ha parlato di “violazione della Costituzione”. Una frase ad effetto, senza dubbio, ma che c’entra come il cavolo a merenda. È intervenuta anche la mitica ANPI (e qualcuno dovrebbe spiegare cosa mai c’entri l’ANPI con questi fatti) che ha parlato di pestaggi “squadristici”. Boh. Se i pestaggi fossero avvenuti al canto di “Bella ciao”, sarebbero invece andati bene?

Se usciamo dal fiume della retorica del “Come siamo buoni noi”, magari potremo capire un po’ di più cosa sta succedendo.

Perché decine e decine di agenti di Polizia Penitenziaria diventano a un certo punto picchiatori? Tutti malvagi, o magari, orrore orrore, tutti fascisti?

Ma qualcuno ha una minima idea, o vuole fare almeno uno sforzo per averla, sulla vita che fa un Tutore dell’ordine nel nostro spensierato Paese? E in particolare un tutore dell’ordine che appartiene a quel Corpo di Polizia Penitenziaria, che ha un compito particolarissimo, in un “universo”, quello delle carceri, che è diverso dal mondo esterno?

Lasciamo anche perdere – sebbene abbia, eccome, la sua importanza – il discorso economico, il dramma di personale sottopagato in rapporto alla delicatezza dei compiti che deve assolvere. Guardiamo alla considerazione in cui gli Uomini in divisa vengono generalmente tenuti dalla cosiddetta “classe dirigente”.

Mi limito a due personaggi tragicomici: il sig. Letta Enrico e la sig.ra Boldrini Laura. La signora, che comunque è una parlamentare, è sempre disperatamente a caccia di visibilità, mentre il Letta, eletto da nessuno, è segretario del PD e come tale ha vox in capitulo nella politica di governo.

Entrambi questi personaggi si sono recentemente agitati perché i calciatori della nostra Nazionale di calcio si inginocchiassero,  ovvero facessero quella cerimonia cretina, che fa tanto “in”, e che comporta fraterna solidarietà con il cosiddetto “Black live matter”, ossia con quell’accozzaglia di malviventi che ha messo a ferro e fuoco diverse città americane, con la scusa della lotta contro il “razzismo”.

Naturalmente non solo il Letta e la Boldrini hanno sostenuto questa iniziativa che non si capisce se sia più cretina o più criminale. Altri politici e giornalisti e vari “maître a penser” li hanno seguiti a ruota, perché il conformismo è una malattia inguaribile, che affligge molti.

Provate a immaginarvi di essere un poliziotto, un carabiniere, un finanziere, comunque un appartenente alle Forze dell’ordine. Come vi sentireste di fronte a tali manifestazioni di inaccettabile apologia del delitto?

E poi, che dire della magistratura?  L’ultimo esempio viene da Roma. Un agente di Polizia spara a un energumeno che se andava in giro armato di coltello, minacciando i passanti. Non lo uccide, lo ferisce e così lo mette in condizione di non nuocere. Dovrebbe essere ringraziato, perché ha fatto il suo dovere, in difesa della sicurezza pubblica.

Eh, no! L’agente viene “iscritto nel registro degli indagati”, con la scusa – perché di SCUSA si tratta – dell’atto “dovuto”. Non è dovuto, perché la Procura della repubblica può comunque liberamente fare una valutazione dei fatti e poi decidere chi sia da “indagare” e chi no.

Ma quello che è accaduto al poliziotto di Roma, a quanto suoi colleghi è già successo?

E lavorare per la sicurezza pubblica con questa Spada di Damocle sulla testa, è secondo voi normale?

Non parliamo poi della moda che c’è da sempre tra i radical-chic: l’uomo in divisa, il militare o il tutore dell’ordine, è da guardare con sovrano disprezzo. Avete sentito le farneticazioni televisive dell’abbondante signora Michela Murgia?

L’uomo in divisa è da guardare con altero disprezzo, salvo poi frignare se interviene in ritardo quando lo si invoca, magari per ritrovare l’amato micio che è fuggito di casa.

L’uomo in divisa è da guardare con altero disprezzo, però fa tanto comodo quando ci sono calamità, disastri, emergenza. Allora lo si pretende in loco giorno e notte.

E infine, in questi ultimi quindici mesi, è sempre l’uomo in divisa che deve andare allo sbaraglio per applicare le norme cretine e criminali emanate, il più delle volte illegittimamente, con la scusa della cosiddetta “pandemia”.

E se vogliamo tornare all’inizio del nostro discorso, l’uomo in divisa che fa servizio nelle carceri è sottoposto quotidianamente a sforzi di pazienza, di sopportazione, di fronte agli insulti e alle violenze di cui spesso è vittima e sa che tra i politici non avrà, salvo lodevoli eccezioni, gli strenui difensori che invece sono pronti a difendere i detenuti ancor prima di sapere l’esatto svolgimento dei fatti.

Con tutto ciò, non si può certo dire che i poliziotti penitenziari che hanno fatto le “spedizioni punitive” abbiano “fatto bene”. Ma se non ci si sforza di capire come possa esplodere la violenza, si pongono solo le basi perché esploda di nuovo.

O i “responsabili” (si fa per dire) della politica si decideranno a rivedere tutto il trattamento, normativo ed economico, degli appartenenti ai Corpi di Polizia, a dare agli stessi le adeguate garanzie (giuridiche e di equipaggiamento) per svolgere in serenità il loro duro compito, o il fuoco che cova sotto la cenere tornerà presto a fiammeggiare.

 

E per chiudere: è vero che la Storia non insegna mai nulla, ma chissà, forse un pro-memoria può giovare ai nostri spensierati politici.

19 novembre 1969, via Larga, Milano. La Guardia di Pubblica sicurezza (così si chiamavano all’epoca i poliziotti) Antonio Annarumma viene ucciso nel corso di una delle solite manifestazioni che imperversavano nel centro di Milano (e non solo di Milano). Era il periodo del cosiddetto “sessantotto”, il periodo della follia dei giovani borghesi annoiati milanesi, che giocavano alla rivoluzione con abbondanti finanziamenti del PCI. Il giovane poliziotto (Annarumma aveva 22 anni) morì con il cranio sfondato da un tubolare di ferro per edilizia, usato a mo’ di lancia.

La notte tra il 19 e il 20 novembre e il mattino del 20 novembre i poliziotti delle Caserme Bicocca e Sant’Ambrogio si ammutinarono, ben decisi a fare giustizia sommaria dei delinquenti. Da oltre un anno e mezzo erano sottoposti a turni massacranti, dovevano sopportare in silenzio insulti e violenze dai delinquenti rossi.

La prontezza di alcuni ufficiali e sottufficiali impedì agli esasperati poliziotti di uscire dalle caserme. Ma quei giorni il governo a Roma tremò. Si “scoprì” allora che il poliziotto (che all’epoca aveva status militare) era sottopagato, non aveva diritto agli straordinari, non era adeguatamente equipaggiato. In fretta e furia furono presi provvedimenti per migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei poliziotti e tornò un po’ di calma.

Ma si era stati davvero a due passi dalla tragedia…

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1 commento su “I “fattacci” del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Alcune riflessioni”

  1. Paolo di Genova

    E I ROSSI SCANDIVANO AGITANDO IL PUGNO CHIUSO: “ANNARUMMA VENTURINI, SIETE STATI SOLO I PRIMI”….ED INFATTI FU COSì!

I commenti sono chiusi.

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