IL RISCATTO/III – romanzo di Piero Nicola

 

IL RISCATTO

di Piero Nicola

romanzo

 

 

Capitolo terzo

 

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La porta aveva ceduto, ma il saliscendi, piegato, s’impuntava ancora sul pavimento. Non c’era tempo da perdere. Invece Fabio indugiò: nessun’arma lo prendeva di mira. La sua mano si era irrigidita sul calcio, rigido il dito sul grilletto. Altre parole incomprensibili, altra faccia simile dietro il nero che, scatenato, prendeva a spallate l’ostacolo. Fabio sbirciò la madre tremebonda. Gemeva andando giù allo svenimento. L’invasore irruppe, gli fu addosso. La perduta l’occasione di difendersi sparando si mescolò, bruciante, alla mazzata che schivò indietreggiando, ai pugni che volle sferrare. Il braccio assassino si moltiplicò. Due, tre legnate tremende gli piovvero sulle spalle, sulla testa, stroncando i conati di resistenza. Cadde sulle ginocchia. Un calcio nel costato.

«Alza, cane!» il capobanda inveì. «Apri casafote.»

Grazie al cielo aveva murato una cassaforte, ma faticava a connettere. Il sangue colato sulla fronte gli velava un occhio. Un dolore lancinante alla clavicola lo accasciava.

«Un momento,» chiese.

Che ne era di sua madre? Di proposito una dei tre si scostò. Lei mugolava, stordita da un ceffone.

«Alza! In piedi!»

Il figlio si resse sulle gambe sane. Riuscì a drizzare la schiena. Mosse un passo.

«Casafote!» il più giovane, un ragazzo pure di colore, gli affibbiò un gratuito pugno nelle reni.

“M’ha preso per un sacco da palestra di pugilato,” si disse; all’istante pentito d’un’immagine peregrina. Mamma, risorta:

«Vigliacco» gridò rauca al terzo bandito, che tornò a picchiarla.

“Maledetti!” Nella spalla fracassata un calore diffuso, insano, scaturiva dalle fitte. L’alto capobanda, che chiamavano Amir, lo afferrò rudemente sotto l’ascella buona, e il ferito gli indicò l’arazzo appeso sulla parete. Una strappata lo rimosse dal muro. Prevedere laboriosa l’apertura della cassaforte fu esasperante. Fabio diede i numeri e le istruzioni per i giri da compiere in senso orario e antiorario, infilando il dito nella rotella. Bisognò ripetere le manovre e calmare gli scalpiti.

Qualcuno buttava all’aria cassetti e armadi, di sotto e di sopra. Il bottino uscì magro dallo sportello.

Alcuni biglietti da cinquanta e qualche gioia di scarso valore.

«Potafoglio !» sbraitò Amir.

Il corpacciuto terzo bandito, che non aveva ancora parlato, era sceso dal piano superiore e stava frugandovi dentro. Cinquanta euro e pochi spiccioli.

Si radunarono a confabulare nel loro idioma africano. Decisero di saccheggiare il frigorifero e la dispensa. Il ragazzo aprì l’uscio della scala che scendeva in cantina, tornò con le bottiglie e due salami. Il capo esplorò l’aia attraverso i vetri. Le chiavi della macchina spenzolarono dalle sue dita.

Esaminò il telefonino del padrone di casa. Riflettendo, cavò dalla tasca interna del giubbotto delle bustine bianche. Le rimise a posto.

Barcollando sotto il risentimento dei colpi, specie della frattura, Fabio si era accostato alla carrozzella. La fece ruotare. Spaventoso! Il naso maciullato, una bozza sanguinolenta sulla fronte, gli occhi spenti.

«Mamma,» la chiamò, asciugandole il sangue sceso sulla bocca.

«Li o-dio.» ebbe la forza di sillabare.

«Via!» il ragazzo lo strattonò.

In due lo trascinarono e lo legarono su una sedia adoperando un rotolo di nastro adesivo da imballaggio. Procedendo nell’avvolgimento, il ragazzo incontrò la rivoltella, l’estrasse, esultò porgendola ad Amir. Poi lo avrebbe imbavagliato; Amir li dissuase.

Ebbe inizio la gozzoviglia. Dalla cucina provenivano risate, sghignazzate, baccano e rumoracci.

Mamma Celeste, esausta, distrutta, giaceva riversa sul fianco, la testa reclinata. Era vicina a cadere dalla carrozzella o a rovesciarsi insieme ad essa.. Che fosse in stato comatoso? Colui che avrebbe dovuto proteggerla, curarsi di lei che l’aveva messo al mondo, non poteva tornare indietro. Si raffigurò perdutamente i momenti dell’irruzione: se stesso che sparava, addirittura attraverso i pantaloni, i fuorilegge uccisi, feriti, messi in fuga.

In quella, il nero corpulento entrò nel soggiorno. Attraversatolo scolandosi la bottiglia, la scaraventò contro la soglia del camino. Volarono schegge. L’energumeno adocchiò l’inerte assopita, la prese per le caviglie, la trascinò a terra. Ondeggiando sulle anche, si aprì la cerniera dei calzoni, esplose in una risata rauca, sguaiata nella bianca dentatura, bensì diretta a dileggiare il figlio.

Comparvero i complici ebbri, allucinati. Si avanzarono danzando, ululando. Imitarono l’osceno denudarsi del loro socio. S’intuì che lo aizzassero, che lo sfidassero. Quello si buttò bestialmente sull’anziana distesa sull’impiantito. Si compì l’obbrobrio, su cui s’abbassarono le palpebre del ferito nelle carni e straziato nell’anima.

“Folle orrore!” Quale diverso termine per esprimere l’inconcepibile che stava avvenendo? Eppure era un orrore senza nome, non c’era vocabolo che tenesse.

 

Tutto finisce. La peggiore atrocità può avvenire. La vita lo esige. Una volta che è successa, la disgrazia non ha rimedio, un decreto irrevocabile l’ha determinata. E dovrà smorzarsi. La sintesi di tali ponderazioni spirò nella stanza vuotata, fumosa, tiepida degli umori più impuri e malvagi. La macchina del cittadino-contadino, messa in marcia, aveva fatto scricchiolare i pneumatici sul brecciame disseminato sull’aia; il rumore era svanito.

La disgrazia perdurava. Quando l’immobilizzato si sarebbe sciolto dal nastro, più tenace della corda? Avrebbe fatto in tempo a soccorrere sua madre e a procurare l’autoambulanza? La frattura e la costola offesa, che gli impedivano di usare il braccio destro, la contusione del cranio, lacerato nel cuoio capelluto, gli permettevano di liberarsi? Ragionare e agire. Provò a gonfiare il torace per tentare la resistenza della legatura. Dolori lancinanti e un capogiro. Avesse potuto trascinarsi fino al bagno e ingoiare un paio di aspirine! Ma prima di tutto: l’invalida martoriata! Prima segare i vincoli, costretto dai quali non avrebbe combinato nulla.

«Mamma! Mamma cara!» chiamò.

Né lamento, né segno di vita.

Gli avevano lasciato le gambe libere. Gli doleva un ginocchio ammaccato. Sporgendosi in avanti, riusciva a portare il proprio peso sui piedi. Spinse e, in bilico, fece due o tre passetti. Ricadde indietro sulle gambe della sedia. Doveva andare avanti così, di un metro, e ripiegarsi all’indietro seduto. Fece sforzi sovrumani sopportando i dolori. Ci volle un bel po’, prima che s’accostasse alla macchina da cucire a pedale. L’avevano legato come un salame, ma in fretta, alla carlona. L’uso dell’avambraccio sinistro e della mano era abbordabile. Inclinandosi, stringendo i denti, afferrò il pomello del cassettino, pescò le forbici. Dopo mezz’ora di lavoro eseguito a furia di tagliuzzamenti, sorse a nuova vita, madido di sudore, febbrile.

La sua genitrice emetteva un flebile rantolo. Le bagnò la fronte con un canovaccio inzuppato, le deterse i grumi dal viso terreo. Il piccolo naso rotto e tumefatto aveva smesso di sanguinare. Stesa al suolo com’era, chissà quanto freddo e umidità l’avevano penetrata. La ricompose alla meno peggio. Era impellente la richiesta di soccorso, della Guardia Medica. Avevano svelto la presa del telefono fisso. “Lo sapevo”; rubato il telefonino, preso la rivoltella. La casa colonica più vicina distava intorno ai quattrocento metri in linea d’aria. Camminando avrebbe rischiato di non farcela. E col trattore? Per richiamo, ipotizzò di incendiare la rimessa, sottostante al vuoto fienile. Un espediente drastico, eccessivo. Le aspirine… Andò a prenderle bevendo un bicchier d’acqua. Nello stipetto individuò un analgesico e ingoiò anche quello. Il trattore cingolato era l’unico mezzo di salvezza. Già si trascinava. Montandovi sopra, ogni ferita incrudelì. Portandosi appresso, attaccato, l’ingombrante dispositivo per la vendemmia, appena partito sbandò, senza avere ancora imboccato la carraia. Non poteva manovrare la leva con la mano destra: fu tutto un beccheggio e un serpeggiare fino alla frenata sull’asfalto della strada comunale. L’orologio da polso, scoperto col mento, segnava le tre e venti. Non sarebbe passata un’anima. Schiacciò il bottone dell’avvisatore acustico, scordandosi che non funzionava. Doveva andare avanti adagio, con paziente sopportazione. In guerra, quanti avevano affrontato peggiori pericoli e calvari!

Lo raccolsero in deliquio davanti a una porta di via Roma. Rianimato con l’acquavite e un massaggio alle estremità, sussurrò l’essenziale: la mamma allo stremo, subito per lei l’ambulanza.

Al risveglio, in una ristretta camerata dell’Ospedale, rivide mentalmente gli sfocati volti dei paesani che l’avevano sollevato e disteso sul divano d’una saletta che odorava di vecchio, di muffa.

Rammentò l’endovenosa praticatagli dal dottor Beltrame. E l’incubo sofferto per sua madre? Si vergognò del ritardo psicologico, di quella specie di rimozione.

«È sveglio,» avvertì una giovane, «si è svegliato.»

«Vengo.»

La caposala riferì che la povera signora era ricoverata in Rianimazione. Non potevano considerarla fuori pericolo.

«Lei come si sente?»

«Vorrei vederla… Io? Mi sento un fiore.»

«Me ne rendo conto… » disse lei severa. «Ascolti, adesso passa il primario… Le hanno fatto i raggi. Dovranno ridurle la frattura alla clavicola. Intanto c’è qui un suo amico, il geometra Balbo, che vuol farle un saluto. Ma di corsa.»

«Grazie.»

 

Nel camerone di sei letti occupati da altrettanti degenti, gli vennero incontro tre uomini. Guido, dondolando gagliardo, fu svelto a prendere la testa del terzetto.

«Mi dispiace,» disse afflitto, «sono allibito e costernato… Adesso non mi fanno rimanere. Ritorno questa sera. Vedo quello che posso fare per te alla cascina.»

Finirono d’intendersi con la mimica, soprattutto facciale.

L’uomo in camice bianco diede un ultimo ragguaglio a un individuo che sprizzava volitività e che si presentò:

«Sono Argeri, ispettore di Polizia. Mi scusi, devo disturbarla. Poche domande e la lascio ai bravi sanitari che si prendono cura di lei.» Era un meridionale di mezza età, atticciato e cortese.

«Ci vediamo dopo,» il primario fece dietrofront. Di tergo, la sua sagoma insignificante combaciò con la modesta sembianza professionale scorta di fronte.

«Dunque, mi racconti in breve quanto è successo.» Seduto sulla seggiola agguanta e tirata sotto di sé con destrezza, mise fuori un apparecchietto registratore. «Non si preoccupi, mi dica la sostanza: che tipi sono, le azioni, i tempi.»

Lo stato d’animo di Fabio era alieno da simile relazione, come lo sarebbe stato un innocente nel bagno penale, cui vengano richieste informazioni sulla magistratura che lo ha condannato. Superò l’istintivo moto di repulsa mista a ribellione. Per quanto gli premesse che i delinquenti bestiali venissero catturati, il suo desiderio di giustizia, tutt’altro fiducioso, mirava al di là del fatto personale. Ripercorse l’accaduto, dall’assalto subìto all’epilogo della violenza inflitta a una settantenne sfigurata e seviziata dai carnefici: tre probabili centroafricani, partiti dopo l’orgia, dopo aver rapinato pochi soldi, gioiellini, cellulare e automobile.

«Le sottoporremo delle foto per il riconoscimento, anche se prevedo che le sarà difficile distinguerli. Firmerà il verbale… Non c’è premura… Stiamo facendo i sopralluoghi.»

Gli pose qualche ulteriore domanda, augurò buona guarigione a lui e lo scampo a sua madre.

Accidenti, quanto il loro dramma appariva ordinario!

«Ah, dottore! approfitto di lei: mi faccia telefonare, che blocco il bancomat. Non so che fine abbia fatto il portafoglio.»

«Chiamo io… si figuri. Mi dica Banca e filiale. Poi gli estremi che vorranno sapere.»

La sua autorità fu portentosa. In un baleno ebbe l’esito. I criminali non avevano fatto prelievi. E si bloccava il conto.

In ambulatorio, la trazione della spalla e lo stretto bendaggio furono un supplizio, aggravato dal mal di testa nella fasciatura del cranio semirasato; senza contare la costola incrinata. Ma la cefalea profonda dipendeva dai medicamenti. Cedendo alle insistenze, gli concessero di vedere sua madre di là dalla tenda trasparente. La mascherina vietava di riconoscerla. L’intravisto volto macilento e comune gli strinse il cuore. Il telo steso sul corpo inanimato aveva il candore del corredo che restava illibato. Sugli schermi, screziati di colori nel barlume dell’ambiente, deboli onde monotone rivelavano la sopravvivenza. A che pro soffermarsi, poiché la persona era isolata, quasi esanime in un limbo o purgatorio?

Verso sera l’emicrania ancora lo deprimeva. Il faccione dorato di Guido lo rincuorò. Era stato al Greppo. Si era dato d’attorno, battendo in velocità gli agenti, giunti sul posto a cose fatte. Per prova e con successo, aveva chiuso il portoncino adoprando le chiavi della serratura piccola, trovate nel loro cassetto. Gliele porse, gli porse il borsone contenente vestiario e biancheria. Il trattore era in cascina per merito di Pinin, dimostratosi pari alla nomea di buon diavolo. Santina e la gente pronta per vendemmiare, amari nell’apprensione generale, non sapendo che pesce prendere in mancanza del padrone, avevano per tempo ricuperato altrimenti buona parte della giornata.

Inutile arrovellarsi. Quand’anche avesse procrastinato la vendemmia, a prezzo di molte azioni che non era certo di compiere, non avrebbe vinificato servendosi di manodopera costosa e raccogliticcia.

«Posso aiutarti… » Guido almanaccava. «Forse… »

«No. È una quadratura difficile. E ho da badare a mia mamma.» Nelle lente ore pomeridiane aveva maturato un cambio di prospettiva, duro e liberatorio. «Se ci stai, ti sottoscrivo una procura per vendere l’uva sul tralcio al miglior offerente.»

«Mah… Dovrei vedere…»

«Ci manca il tempo per ponzarci sopra. Ti do il venti per cento sul venduto.»

«In questo caso, non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello di fare un guadagno con te. Non c’entra la volontà. Sono subissato di impegni.»

«Il venti per cento e ti accolli le pratiche burocratiche. Ti istruisco io.»

«Va bene,» si arrese. «Ma non voglio niente. Mi offrirai una cena.»

«Sapevo che sei un amico,» gli tese la mano sinistra. Strinsero il patto.

Di nuovo le loro mute espressioni suggerirono quello che il riserbo piemontese non sa dire.

Il mercoledì, all’alba, spirò Celeste Piana vedova Gentili. Avvertirono il figlio quando la spoglia era stata traslata nella camera mortuaria. Fabio, sfebbrato, qualora non lo avessero dimesso avrebbe sottoscritto il documento per uscire. Scese nel sotterraneo, amareggiato dell’insensibile precipitazione ospedaliera. Avevano omesso il preavviso dell’agonia. E la sosta intermedia fra le apparecchiature della Rianimazione e il gelido obitorio? Gli venne in mente che, sebbene non fosse una puntuale osservante, la mamma recitava le preghiere; magari a suo modo, credeva in Dio. Ma il cappellano? Era comunque tardi per l’Estrema Unzione. Lo scrupolo di non essersene preso cura, fu sovrastato da un risorgente pentimento. Sì, aveva addosso la responsabilità della sua morte, una morte orribile. Fatale, l’indugio a servirsi della rivoltella! Scacciò il meschino scarico di coscienza rappresentato dal fatto che lei si fosse opposta all’uso dell’arma.

L’infermiera che lo conduceva nel seminterrato: «Numero sei,» lo indirizzò gentilmente, apprestandosi a lasciarlo nel locale diviso in scompartimenti. «Credo che, prima del funerale, debbano fare l’autopsia.» Neanche di questo l’avevano messo al corrente.

Stava su una sorta di catafalco spartano, verde scuro, vestita d’una cappa bruna. La testa pettinata, sopra un capezzale in fodera chiara. Nella nuda parete di fondo: un posticcio crocifisso di legno.

Neppure un fiore. Il volto di gesso, non più suo, era disertato anche da un vestigio di sofferenza. Le mani dello stesso colore ultraterreno: intrecciate nude, senza coroncina di grani, senza crocifisso.

Si fece il segno della croce, le baciò la fronte tagliata. Erano rapprese, estinte le ferite. Al crudo ingresso nel regno della morte, appena toccato da timidi, intermittenti echi del culto, sottentrò e crebbe il suggerimento della preghiera. Mormorò un’Avemaria, un Padrenostro, un Requiem; alleviavano l’oppressione provocata dal tarlo del rimorso, sgretolarono il macigno interiore delle colpe antiche e prossime, della principale per essere stato la concausa del miserrimo trapasso della donna da cui aveva avuto l’esistenza, il primo allevamento, le cure di prole inetta e le cure.. anche da compatire.

“Fiori, crocifisso, lumini,” riepilogò. In aggiunta: rispetto delle devozioni, dei suffragi, una speranza… Ma, ricordandosi dell’autopsia incombente, di quell’oltraggio che gli ripugnava immaginare, vide le onoranze cristiane rinviate a dopo quella profanazione. Di essa non avrebbe mai voluto leggere i risultati redatti dal Perito settore.

Mentre si segnava per ritirarsi udì un fruscio, un bisbiglio. Si girò. Il vano della porta inquadrò Michela..

 

(continua)

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