IL RISCATTO/IX – romanzo di Piero Nicola

IL RISCATTO

di Piero Nicola

romanzo

Capitolo nono

 

per leggere il primo capitolo, clicca qui

per leggere il secondo capitolo, clicca qui

per leggere il terzo capitolo, clicca qui

per leggere il quarto capitolo, clicca qui

per leggere il quinto capitolo, clicca qui

per leggere il sesto capitolo, clicca qui

per leggere il settimo capitolo, clicca qui

per leggere l’ottavo capitolo, clicca qui

 .

 Michela è dalla pettinatrice,» Elisa rispose concisa.

«Ieri non sono riuscito a sentirla e il mio messaggio è andato a vuoto.»

«Ha rotto il cellulare… Noi eravamo fuori, dai nostri cugini.»

«Ma oggi?»

«Non saprei… Vedrai che ti telefona.»

Invece il suo silenzio varcò la notte.

Alle dieci, la squadra dei vendemmiatori capeggiata da Santina attaccò il quinto filare. Fabio faceva la spola tra lo scarico delle ceste nella bigoncia sollevabile e lo scarico della stessa da lui effettuato nel rimorchio. Le nuvole passavano sul sole. L’ Inno al sole  impose l’arresto.

Dall’apparecchio Armando lo avvertì che Michela era in preda a un attacco isterico. Il medico aveva sedato le convulsioni, ma lei era un riccio. Bisognava usare pazienza.

«Sto vendemmiando. Se riuscissi, potrei fare un salto lì dopocena.»

«No. A sentirti nominare dà in escandescenze. Si rifiuta di vedere chiunque… Fatichiamo a moderarla.»

«Tenetemi al corrente.»

«Sì, sì,» disse impacciato, opaco, «sicuro.»

Il vignaiolo compì l’andata. Al ritorno, la squadra pensierosa si chinava sulle ceste posate e strapiene; qualcuno lasciandovi cadere il grappolo che aveva spiluccato.

Dopocena, in cantina, si attivò per avere notizie. La madre, tranquillizzandolo, recitava alla stregua d’un’attrice di filodrammatica. Al fondo delle frasi strascicava l’asprezza.

D’un tratto l’apparecchio gracchiò, mandò tonfi, suoni di contesa, clamore di alterco.

«Lasciatemi!» Michela strillava. «Infame, non voglio più vederti!» lo investì, «esci dalla mia vita!»

«Ma che cosa ho fatto?» disse a vanvera. Pur aspettandosi d’essere stato scoperto, la sua colpa l’aveva fulminato.

«Che coraggio! Cadi dalle nuvole! Che delusione! il puro, l’onesto… »

«Ascolta… » la colpevolezza lo schiacciava.

«Basta! È finita,» gridò con voce rotta. Chiuse la comunicazione come fosse scappata.

 

Lentamente si fece strada la fiducia di riparare, di persuadere. La preoccupazione della ricaduta di Michela nel suo inferno era attenuata dalla risorsa insita nella collera. Provò a rappresentarsi le circostanze che avevano portato alla luce il suo fallo. L’esame sarebbe tornato proficuo nel momento dei chiarimenti, per valutare l’importanza del trauma subito da colei che si era sentita tradita senza remissione, irreparabilmente.

Fin da principio, per tacita intesa, gli amanti si imbucavano. In quel di Alessandria facevano le viste d’essere a vicenda estranei, evadevano in zone limitrofe alla Provincia. Scaricando le casse di vino nella bottiglieria della cliente, la consegna di Fabio era più spiccia e formale di quella di prima.

Aveva finto di assecondare la riservatezza della donna con le eccessive precauzioni. Lei vi si era adeguata. Le era giunto all’orecchio che il suo imperdibile, magnetico complemento proteggeva il serio impegno sentimentale da lui assunto. Per il momento, da tale preservazione dipendeva la sua conquista. Una successiva spifferata aveva forato il loro occultamento. Se fosse derivata dalla perfida rivincita di Carlotta, nelle orecchie di Michela sarebbe entrata la calunnia, un velenoso getto di fosche tinte sull’offesa subita. Siffatta Fabio la presentiva paurosamente ineliminabile per il più umile benvolere femminile; aveva sentore di ciò che all’uomo suona male e che la perspicacia muliebre considera con terrore: l’insopprimibile ritorno dell’affronto commesso, la sua rovinosa, immonda intromissione, non scongiurata da rappacificazioni e generosi intenti. Pertanto aveva fretta di comparire davanti all’amata per disingannarla.

Due giorni dopo gli fu acceso il disco verde. Il piano, predisposto all’insaputa di Michela, prevedeva l’assenza dei genitori e la presenza di Silvia, invitatasi per ascoltare musica e stare all’erta, così da essere lei ad aprire al trillo del campanello. Era convenuto che Fabio suonasse intorno alle nove e, dopo il suo ingresso, che l’amica uscisse di scena tempestivamente. Mentre perfezionavano il congegno, lui aveva percepito nei genitori un miscuglio di attesa e di disgusto.

Immaginò Elisa immusonita, determinata a non fargliela passare liscia. Le sue sanzioni, casomai, gli facevano un baffo. Gli avrebbero alleggerito la coscienza.

Salendo le scale recò nelle gambe e in tutto il corpo la sfacchinata delle incalzanti operazioni effettuate in cantina. Lasciare dormire l’ascensore eliminava un preavviso dovuto al suo arresto pieno di scatti. Premette il pulsante. In un attimo la porta si schiuse sull’amica. Dietro di lei Michela abbozzò un’osservazione. Fabio si spinse avanti scontrando Silvia col fianco. Vedendolo Michela sbigottì a bocca aperta, giallognola:

«Tu!» eruppe dall’afonia. «Vattene!»

Il suo adontarsi fu esasperato dalla rabbia d’essere stata circuita.

Silvia le cinse le spalle, soccorrevole. Fuori di sé, Michela la scostò con veemenza:

«Giuda!» la vilipese. «Come avete potuto montare questa trappola?» stava arrivando ai suoi, alla parte da loro avuta nel complotto.

«Cara, era indispensabile una spiegazione,» il respinto tentò di ammansirla. «Non potevi vietarmi la difesa, dare un verdetto soltanto in base all’accusa.»

«Che bisogno c’è di difensore? che poi saresti tu: la parte in causa… Ho le prove.»

«Ci sono molte attenuanti… »

«Ammesso e non concesso, che me ne faccio?» stava concedendo un barlume di discussione, e sul punto d’infilarsi in una seconda trappola, essendone la principale artefice.

«Beh, togli il disturbo? Sei uno sgradito ospite,» troncò usando lo sprezzo.

Silvia era sgattaiolata oltre la porta della cucina. Loro si tenevano testa in piedi.

«Michela, tutto questo non è degno di noi,» Fabio deplorò, con uno sguardo che li rialzava ai loro bei giorni, dalla presente condizione di contendenti. «Non ci abbassiamo. Avremo solo da perdere. Sta in noi volerci purificare del disgusto e di ciò che l’ha suscitato.»

«Sarebbe comodo per te… » attaccò svigorita, «sarebbe… magnifico cancellare, perdonare, ricominciare… Invece l’hai detto tu: siamo deboli. Non c’è sentire che ci dia la forza per vincerci… Mi dispiace, Fabio, non me la sento; non ce la faccio.»

«Cara stai assassinando la speranza. Ci condanni all’avvilimento. Ti rifugi di nuovo nella disperazione. Al contrario, quello che si è stati non è avvenuto per caso. Siamo sempre noi. Abbiamo una risorsa che ci rimette in condizione di ripeterci; magari in modo diverso, ma valevole. D’altronde ci manca, ci mancherà, sempre qualcosa, e chi non cerca di accontentarsi, di coltivare quello che ha, è un dannato.»

Lei aveva retroceduto e si era lasciata andare sul divanetto dell’anticamera:

«Ti prego,» disse con quell’abbandono che sembra promettente, «ti prego, non insistere. Ora sono a pezzi, terribilmente frastornata…. Stai lì dove sei.»

«Va bene, vado… Pensa a quello che ti ho detto, e che ti amo.»

Le mandò un bacio, e fu da solo sul pianerottolo indifferente, giù per le scale che avevano assorbito vissuti d’ogni colore. Consumando i chilometri, si avvide d’aver omesso di esporre la condizione morale e spirituale del suo abbassamento, la quale lo rendeva assai meno abietto di quanto un’oggettiva descrizione lo avrebbe dipinto.

 

Il ventidue ottobre Michela compiva gli anni. Fabio le fece recapitare un mazzo di rose e vi unì un biglietto di auguri firmato Il tuo… Imperatore che viene a Canossa. Lei inviò una e-mail che diceva:

“Matilde ringrazia, ma chiede che Enrico IV aspetti, purificandosi nella neve”. Il penitente accettò senz’altro. Passati gli storici tre giorni, rispose che stava congelando, perciò lo ammettesse a un incontro che lo scaldasse. Ricorse al telefonino per strapparle il consenso, dopo averle anticipato per iscritto che non c’era stato tradimento: un’enorme distanza la separava dalla tresca e la collocava al disopra d’una signora che mai avrebbe potuto essere sua rivale.

Venne lei a Roccaspina, luogo incontaminato, borgo della loro conoscenza e delle brevi passeggiate suggestive. Era certa che l’intemperante, innato cacciatore, non vi avesse condotto la preda scostumata. A lui non era parso vero. Il luogo prediletto, ispiratore, non poteva che sprigionare il benefico influsso. La previsione si adempì.

«Sei perdonato,» le sue lacrime lavarono le tracce dell’onta. Affiorò la struggente bontà. Si liberò il balsamo amoroso.

Il largo e acciottolato camminamento sopra le mura prospicienti la valle e a ridosso della canonica vuota, del campanile di mattoni, propiziava l’abbandono nel tempo e all’intima loro sorte accomunata. Il lampione diffondeva invano la sua luce aliena, repulsiva: il freddo notturno li stimolò a soffiare sulla fiamma della propria comunione.

«Fabio, sposiamoci,» gli disse, «non per metterci al riparo dalle insicurezze. Sposiamoci in chiesa.»

«Sì, sarebbe grande consacrare il nostro congiungimento,» fantasticò, obliterando il Tribunale diocesano; «sì, convinti… Il sacro esiste, è una realtà, non un’invenzione.»

Lo sguardo estatico di lei gli scese nell’animo.

«Farò di tutto perché l’augurio si concretizzi,» promise con calore.

Una fossetta le si disegnò fra le sopracciglia:

«Ma la religione è ancora una cosa seria?»

«Troveremo un sacerdote che la prende sul serio.»

Era tempo di scendere alla Stazione a condividere il gusto della tavola soddisfacendo alla puntuale richiesta della prodigiosa macchina corporea, sulle cui esigenze s’innestava ogni sorta di godimenti.

Sostarono alla cascina. Fabio verificò che la valvola di sfogo del tino funzionasse a dovere. La fermentazione aveva cessato di espandere il gas acre e fruttato. Spillare il vino al più presto, pomparlo nell’alto cilindro d’acciaio. Pagare il gravoso premio dell’assicurazione contro i furti e i danni. Il mondo disordinato faceva valere le sue più grame, evitabili pretese.

 

Rosa mantenne il suo assillo. Non conosceva la desistenza che si dà pace. La passione le aveva prosciugato il senso del limite cui era incline .Il dispetto per il proprio snaturamento destò la vipera latente in lei.

Capitò sull’aia una macchina nuova fiammante, sconosciuta; dette un colpo di tromba, a fari accesi. Quei benedetti muratore e fabbro erano in ritardo con la messa in opera del cancello! Sotto la pioggia, incessante dall’alba al tramonto, dalla portiera semiaperta sbucò un ombrello. Era lei.

Erano state insufficienti le giustificazioni, i rifiuti garbati e i perentori, la morale porta sbattuta in faccia.

«Non mi fai entrare? hai paura?» disse schernevole.

«Hai fatto un errore a venire fin qui,» ma le dette il passo, determinato a che fosse la chiusura ribadita, finale.

Lei si scrollò di dosso le gocce, tolse la giacca impermeabile, batté i piedi e ondulò sorridente.

Nella scollatura generosa il seno palpitava. Sedette sotto di lui, accigliato.

«Ti è parso un atteggiamento da gentiluomo, avermi piantata con scuse meschine?» lo rimproverò.

«La tua bella, sventurata creatura, non aveva niente da perdere. Come la tradivi prima senza conseguenze, come prima ti nascondevi, potresti continuare. La tradita sono io.»

«Continuare… Che ne sai tu di certi sentimenti?»

«E tu calpesti i miei sentimenti.»

«Sedotta e abbandonata… »

«Proprio. Bisogna essere le minorenni dell’Ottocento, le santerelline, per essere ferite a morte? E poi lei che cosa ha da darti, che diritto ha una rovinata di rovinarti la vita? Comunque sia, arriverà a capire… la delusione le passerà.»

Fabio le disse che si arrampicava sugli specchi, che era sciocco discutere, che non c’era più niente da fare. Rosa, sul divano a gambe accavallate, non demordeva.

«Hai il cuore di pietra. Lo capisci che, senza di te, io che ci sto a fare al mondo?»

Fabio decise di cucirsi le labbra. Gli comparve Carlotta, artista del martellamento e delle scene toccanti. Il suo astio malefico (era stata proprio lei a compiere la vendetta) aveva esaurito le frecce, eclissandola. Ora, il tartassato ricevette una guardata foriera di ricatto non meno insidioso e velenoso. L’intuizione aveva colpito nel segno:

«Fabio, bada che mi esasperi… Non sono più la Rosa che hai conosciuto. Potrei fare qualunque cosa. Potrei raccontare tutto e di più… potrei mentire al tuo tesoro.»

«Accomodati. Sarà il colmo e question finita con te. Se non accetti che la finiamo adesso e t’incaponisci per scornarti ancora.»

Rosa s’infiammò d’ira. La furia omicida che l’invasava le fece paura: si trattenne, sconvolta; ricadde muta. Aveva perso terreno, si ributtò al patetico, rinnovò l’allusione a un gesto insano. Le si parava d’innanzi uno sbarramento di gomma, inamovibile. Il suo tiro più abile sarebbe stato rintuzzato. Fabio aprì il portoncino. Lei, raccattato l’ombrello, brusca, oltrepassò il limitare.

 

Quella sera, nel ristorante alla Stazione, Fabio le aveva accarezzato la mano per introdurre una proponimento in cui idea e cuore avevano avuto agio di sposarsi:

«Domenica andiamo dall’antiquario a vedere la statua di legno che ti faceva gola e ci tenevi a mostrarmi.»

«Ti sei ricordato?» l’aveva ripresa la grata e trabocchevole commozione.

«Su, su, sta allegra!»

«È stata un’idea originale… Non sei obbligato a seguirmi nelle mie fantasie… E non so quanto costerà… »

«Interessa anche a me guardare i buoni quadri, le opere d’arte godibili e… acquistabili. Dopo, se avanzerà un’ora, ci ripassiamo il nostro appartamento. L’abbiamo davvero trascurato.»

 

La bottega era provveduta e doviziosa, un lustro della città di provincia. La dama in capigliatura e abito del Secolo XIX, disposta in evidenza, aveva un ovale nobile, né serafico né vittorioso a prezzo di durezze, esente da leziosità e tanto meno da sfumature sensuali o civettuole. L’intera figura, di auree proporzioni; spazzava via il cattivo gusto artistico, il cattivo uso dei volti e dei corpi che sul piccolo e grande schermo stridevano con i costumi indossati. In luogo delle rinnovate, invariabili rappresentazioni di attitudini, di espressioni, di fisionomie ottocentesche, il felice opposto della falsità e della volgarità informava acconciatura, veste e sembianze.

Fabio chiese il prezzo al signore gioviale e grassottello, che si levò da dietro un tavolino di pregio.

La cifra era abbordabile.

«Ci scusi un momento,» Fabio volle parlare con lei separatamente; le disse: «Devo vedermela prima con le mie finanze… Casomai ci dovesse scappare, una sostituzione equivalente la buscheremo. Sarà una ricerca appassionante.»

«Caro, io contribuisco. Ho qualcosa da parte. Almeno nell’arredamento permettimi di partecipare alle spese. Posso prenotarla dando un anticipo? Non ti offendi, vero?»

L’accontentò. Contrattarono. A domani, la consegna. Fecero le fotografie, «non per diffidenza.»

Michela fu rapita da una particolare felicità, e la donava al cavaliere ammiratore della dama..

L’alloggio di Acqui, che lei non aveva rivisto dopo il ricovero, le destò fin dalla strada un moto d’entusiasmo:

«È davvero bello.»

Nell’altezza delle stanze e delle visuali da finestre e portafinestra sul quartiere, sui colli ridenti al calar del sole per una clemenza dell’autunno, ogni cosa tornava. Si dedicarono a un inventario di ciò che doveva completare gli ambienti, dotarli e rifornirli prima dei loro personali traslochi. Il fine desiderio esclusivo, quell’afflato tra loro, fece ritorno al pari di preziosità rifiorita, suggellata dal bacio. L’oscurità li congedò. Del resto, mancava la luce elettrica.

In strada Fabio, allungando il passo, sputò di lato rapidamente, di nascosto.

«Caro, non te l’avere a male si ti dico una cosa,» cominciò.

«Ti prego.»

Fu sufficiente un accenno della bocca sporta, gli occhi ridenti, accompagnati da un lieve tentennamento del capo.

«Hai ragione, è un viziaccio che ho,» e per alleggerirlo: «È un’igiene interna adoprata dai giapponesi, irrinunciabile per loro. Quanto a me, immagino che ti spoetizzi anche il ricorrente intercalare dei liguri… »

«Noi abbiamo cribbio, ed è anche peggio; sa di bestemmia storpiata.»

«Che vuoi, non sono un signore nato, né educato. Per giunta ho dei tic. Mettendomi a tavola raddrizzo le posate, una perdita risibile mi disturba, faccio il conto dei piani dei palazzi. Non sono un grand’uomo. Mi scappano queste ammissioni per la strada… Il guaio è che ci riteniamo quasi tutti in gamba.»

«Eh, noi donne impariamo ad amarvi lo stesso, da piccole, facendo esperienza col papà.»

«Aspetta,» concluso l’argomento, aveva avuto un’ispirazione, «ti andrebbe un po’ di compagnia?

Telefono a Guido. T’ho detto che fila con una ragazza. Sono affiatati; almeno finora, se non vado errato. Mary è spiritosa. Sarà un mese che non li vedo. Potei combinare una rimpatriata.»

«Se lo desideri… »

«Non ti preoccupare. Lui lo conosci, e siamo veri amici.»

Guido e Mary cenavano a Canelli, ma per le dieci erano lieti di venire ad Acqui per trascorrere in quattro la serata. Nel ritrovo delle Terme si radunava una clientela, salvo eccezioni, piuttosto in là con gli anni, ma era un posto accogliente, il servizio filava distinto e professionale.

Nella vicendevole affabilità, le ragazze si valutarono discretamente. Di primo acchito, Fabio soppesò la loro differenza e la propria dabbenaggine. Mary poteva trasmodare, punzecchiarlo con lazzi travisati da Michela. La quale, nella sua fragile condizione, avrebbe sofferto il maggior disagio. Ormai era fatta. Ce l’avrebbe messa tutta per fugare gli imbarazzi.

Portate le ordinazioni:

«Volete sapere l’ultima?» Guido fece la pausa retorica, «Mary ha rifilato un calcione, dove non batte il sole, a un marocchino drogato.» Pronunciando “drogato” si era morso la lingua, quand’era inafferrabile il modo di porre rimedio.

«Lucida e sadica esattezza del sesso debole.» Fabio trovò.

«Aggiungi un’atavica volontà di rivalsa… Dunque…»

«Dunque, all’ora di colazione uscivo soletta dal retrobottega sul vicolo,» Mary continuò, «e qui mi vedo venire incontro uno stralunato che mi punta contro la siringa e dice: “Dammi la borsa o ti pungo”. Io gliel’avrei data volentieri. Si andasse a comprare una dose più massiccia. Ma che ne sapevo cos’altro aveva in mente di combinare? Allora mi è scattata la gamba. È partito un calcio che era una via di mezzo fra quello dei lottatori di savate e quello dei soldati che vanno al passo dell’oca. Il disgraziato si è piegato giù. Sembrava che stesse per fare i suoi bisogni. Ero pronta a ripetere, ma se l’è data a gambe levate… Quando mi gira, sono una leonessa… Entrano nel vicolo due carabinieri. “Ma che combina?” uno mi chiede vedendomi rossa e senza una scarpa volata col calcione. Ah! Ah!»

«Eh! Eh! Ih!» fece eco Michela.

«Gli dico della minaccia,» riprese, «e che, se si sbrigano, forse sono in tempo per acciuffare il delinquente. I pacifici tutori dell’ordine rispondono che semmai lo prendessero, sarebbe peggio per me. “Lui, domani se ne va libero. Lei si è beccata una denuncia perché l’ha picchiato.” “Ma è un rapinatore!” “E riesce a dimostrarlo?” “Non avete visto in che stato sono?” gli ho fatto notare, “mi sarei scalmanata per un fantasma?” Mi spiegano che il suo reato è incerto, comunque non estingue il mio, se ho esagerato a difendermi. Consigliano di lasciar perdere. Normale. In fondo lo sapevo. Però m’è presa un’ira funesta contro le leggi indiscutibili, scritte dagli angeli… Poco ci è mancato che m’arrestassero per oltraggio.»

«La direste così focosa, poverina?»

«Tu mi compatisci?… Smettila!» redarguì il suo compagno con un sorriso ambiguo.

Fabio rimase un attimo crucciato. Guido gli lesse nel pensiero. Gli si presentò per l’amico l’eventualità che gli toccasse una ripetizione di danni, di offese, e la sua reazione estrema, disastrosa.

«Ragazzi, ve ne racconto un’altra,» riprese vivace. «Un africano, di quelli nerissimi, porge il bicchierino dell’elemosina. Lo mette sotto il naso di un vecchietto, di quelli tutti rugosi, che hanno dentro un’anima di fil di ferro per aver zappato tutta la vita. Gli fa: “Che ci avete in quel bicchiere, del vino? Io bevo del mio, che è buonissimo.” Il nero allarga gli occhi: “Sei tondo?” dice. “Se mi prendi in giro, sta attendo.” “Tondo… attendo.. ” il villico gli fa il verso. “Senti Bongo, tondo sarai tu. E come ti permetti di darmi del tu?”

«Intorno, due o tre si gustano la scena, ma stanno anche in pensiero. “Io devo chiedere lemosina,” il moro ha cambiato registro e guarda gli altri umilmente. “Tu sei un farabutto,» il vecchio si secca, «a te ci pensa già il prete e lo Stato. Conti balle: ‘devo chiedere lemosina.'” A quel punto l’africano grande e grosso grugnisce, prende fuoco, tira una sventola. Il segaligno scatta di fianco e la botta va all’aria; aggira il peso mediomassimo, gli afferra il polso nella morsa delle mani e lo prende a calci secchi le sedere… A proposito di pedate… Poi sgattaiola e prende il largo sghignazzando.»

Michela si spassava in silenzio.

«Il povero migrante, già reduce dal disperato viaggio della speranza, promette denunce, invoca una riparazione per il suo didietro oltraggiato. Chiama i presenti a testimoni, vuole che gli lascino i nomi. I presenti, meditabondi, si scuotono e lo piantano in asso.»

I maschi ordinarono una ripetizione dei liquori.

«Uh,» fece Mary, «Attenzione! Qui accanto ci sono mutrie agitate e scandalizzate. C’è persino un pachiderma che manovra col cellulare. Scommetto che diventiamo protagonisti d’un suo spezzone da pubblicare sui social.»

«Più sono vicini a mettere il piede nella fossa, più sono attaccati al progressismo prossimo al fallimento,» Fabio giudicò.

«Questi non sono vecchi benestanti sconvolti dall’idea di ammettere l’attuale decadenza,» replicò lei, «sono settari attaccati alla mamma setta.»

«È vero,» Guido le diede ragione, «i conformisti, perenni fiduciosi, stanno più in basso sulla scala sociale.»

Michela ascoltava attenta e divertita: «Quale setta?»

«Ce ne sono… Abbiamo l’imbarazzo della scelta.»

«A proposito di storielle,» Fabio prese la parola, «c’è un tale che è stufo di vedere tutti i giorni alla televisione, a pranzo, a cena, a tutte le ore, i politici dell’opposizione che si sono lambiccati il cervello per variare le stesse accuse e le imposture (a parte qualche mosca bianca). Fanno il doppio turno recitando e disputando. “Però, mio Dio,” ci ripensa e s’impietosisce, “che fatica, che condanna pesa su questi poveracci! Non hanno scelta, devono peccare mortalmente, per la legge della concorrenza democratica. Speriamo che il Signore gliene renda merito.”   La moglie lo corregge: “La scelta ce l’hanno, possono accordarsi per formare un unico partito e mettere al bando tutti gli altri. Intanto il loro contraddittorio è così falso e smaccato che non serve a niente, tanto meno a chiarire le idee degli elettori”. »

«Che barzelletta è questa? Qualunquista, fascista, come osi?» Mary protestò. «Guarda che chiamo il pachiderma e glielo dico.»

«Che spavento!» lui mostrò di allarmarsi. Esaurito l’effetto esilarante: «Chiuso,» disse, « voltiamo pagina. Chi sa dirmi dove si trova la fiera permanente della vanità e della mitomania?»

I visi concentrati, perplessi, si arresero.

«È facile: in facebuc.»

«Facebook,» ripeté meccanicamente Mary, apprezzando l’ironia, ma poco la farsesca pronuncia di finto ignorante.

«Si diverte a pronunciare così le parole inglesi,» spiegò Michela; «dice che l’inglese che infarcisce l’italiano gli provoca l’orticaria.»

«Non darle retta: è una fache nevs. »

Alcune lampade di stile floreale si spensero e si riaccesero dando il segnale della chiusura.

Nell’atrio furono abbracci, baci e promesse di replicare.

 

Ai primi di dicembre una comunicazione della Curia genovese diede ai fidanzati il diritto di chiamarsi tali. L’annullamento del matrimonio di Fabio Gentili sorprese la sfiducia nella puntualità di ogni Ente giudicante. Non restava che l’organizzazione delle nozze, benedette dal sacerdote prescelto e nel tempio designato. Il nome di monsignor Lefebvre aveva risonato trattandosi della Chiesa di sempre, non ammodernata e non modificata. A motivo della sua continuità di dottrina e di riti, essa dava una garanzia sull’integrità delle Sacre Funzioni e dei Sacramenti. A Genova, in una bottega di rigattiere, l’attenzione di Fabio era stata attirata da un libro del defunto Vescovo dissidente, intitolato Accuso il Concilio.  La lettura lo aveva avvinto e convinto. I dubbi, i disgusti suscitati dagli scostanti e artificiosi rappresentanti del culto, si risolvevano coi trucchi delle innovazioni apportate dalla teologia conciliare, che causavano una frattura irreparabile con quella precedente. Il tradimento del clero saltava all’occhio. Su Internet il neofita rinvenne il sito dell’Istituto dei lefebvriani. Avevano un Priorato in un villaggio del Canavese. Fabio e Michela vi chiesero udienza. Convenne rinviare la visita a dopo le Feste di fine anno.

 

Il paese, in zona valliva, restò nascosto e sonnolento. Varcato il portone, un sacerdote in veste talare, magro, sui cinquant’anni, li condusse attraverso un ampio cortile deserto. Fabio credé di discernere, nella sobria cortesia di settentrionale, la contentezza dovuta all’acquisto di fedeli. Nel fabbricato irregolare, d’epoca indeterminata ma anteriore agli anni Trenta, entrarono in un andito che immetteva a una scala ripida in ascesa e ai vani di pianterreno. Una delle stanze basse era predisposta con poltroncine per il colloquio. Sopra il camino acceso figurava il ritratto del fondatore della Fraternità Sacerdotale. Conosciuto il fine del matrimonio, don Remigio li informò che avrebbe conferito loro la preparazione al Sacramento. Il luogo della sua celebrazione lo avrebbero stabilito in un secondo tempo. Prese nota dei dati personali. Le sedute erano previste di mattina il martedì e il giovedì. Michela riprendeva servizio a scuola il 3 febbraio. Don Remigio almanaccò, disse che avrebbe intensificato l’istruzione, se possibile, con qualche giorno supplementare nelle settimane a venire. «Devo accertarmi delle vostre cognizioni di catechismo.»

«Su quelle non ci faccia assegnamento,» lo avvertì Fabio.

«Lo presumevo… Ora, se volete, cominciamo.»

Sì udì il crac della porta alle loro spalle. Fecero la conoscenza col Priore, anch’egli sulla cinquantina, quadrato, anch’egli di poche parole. Con accento francese si rallegrò, approvò, li invitò a pranzare con loro, a lezione terminata. I discenti ne uscirono consci dell’ignoranza che li aveva afflitti e con la lista dei documenti ecclesiastici da portare, con le coroncine del rosario, con i libretti necessari per seguire le pratiche del culto.

Alla tavola lunga e spartana, c’erano un altro confratello, una suora anziana e una giovane, ognuno vestito alla vecchia maniera. Tutti in piedi, il Priore introdusse la preghiera. «Ogni atto della giornata va compiuto in Dio, come insegna San Paolo,» aveva detto don Remigio. «Ah, quei calciatori che entrano in campo facendosi il segno della Croce… » Michela aveva cominciato a dire.

«Beh, sì, però l’intenzione dev’essere proprio religiosa… »

Un’inserviente faceva avanti e indietro dalla cucina adiacente. L’edificio, badiale, era stato un collegio salesiano. Il vitto fu appetitoso. Ai proseliti fecero visitare la chiesa situata all’angolo del cortile, circondato dalle rimesse disusate e da un muro di contenimento cui sovrastava il margine d’un terreno alberato.

La pace di quel posto risentiva d’un recondito isolamento. I sacerdoti si ritirarono e gli ospiti, ritornati nella saletta col camino rifornito di ceppi scoppiettanti, vi attesero l’ora della Messa.

Accedettero preliminarmente alla Confessione, chini su un inginocchiatoio nello studio del prete. Il rito, recitato in latino, si svolse in un cappella interna riscaldata. I tornati all’ovile si applicarono sul libretto per seguirvi i successivi momenti della cerimonia. Alla Comunione, riceverono in bocca l’Ostia consacrata e imitarono il raccoglimento a capo chino delle religiose e di un paio di devote.

La Messa fu molto diversa da quella nota. L’ufficiante stava rivolto all’altare e al crocifisso, tranne che in brevi passaggi, in cui diceva ai fedeli Dominus vobiscum, Orate fratres o, alla fine, pronunciava l’ Ite Missa est, per poi impartire la benedizione. La cerimonia, solenne nell’umana umiltà, era segnatamente dedicata all’Offerta, alla Consacrazione, al Ringraziamento, al Sacrificio consumato col Corpo e col Sangue. Da cima a fondo l’evento sacro esprimeva il senso di Dio e del Redentore.

Fabio, segnandosi un’ultima volta, provò una soggezione indefinibile. Nella cappella esisteva, aleggiava un’aura per anime elette. Anche di sotto, anche fuori, una scia, un’emanazione di essa gli stava sopra. Michela gli manifestò la letizia venutale dai particolari del rito, degli ambienti, da una suora. Asserì d’aver assaggiato la purezza. Se non gioiva incondizionatamente, dipendeva dal suo essere compresa della gravità del lato umano, delle inscindibili miserie umane.

Loro viatico era stata la raccomandazione di don Remigio: «Ricordatevi il Rosario.»

«Non avrai dimenticato di lasciare un’offerta?» lei chiese, investiti dalla violenta illuminazione sulla gelida strada.

«Tu mi sottovaluti,» disse lui, scrutando l’incrocio tra i fantasmi delle case moderne, adombrate dietro le luci da terzo grado.

Frequentarono tre Messe domenicali nella chiesa del Priorato e fecero decisivi progressi nell’apprendimento. Si suggerì loro di contrarre il matrimonio in una chiesa diocesana. Fabio e Michela avevano contato sul Sacramento impartito e ratificato dai ministri del culto autorevoli, ma sembrò che l’iscrizione dell’atto nei registi della giurisdizione ecclesiastica avesse un valore non trascurabile. Il Priore aveva avuto un abboccamento con don Gaudenzi, cappellano d’una Congregazione di religiose, il quale era in contatto con la Fraternità Sacerdotale, e si adoperò per ottenere dal parroco d’una cittadina astigiana che la Messa dello sposalizio fosse quella della liturgia tradizionale, celebrata da un ufficiante della Fraternità.

La chiesa apparve inferiore alle attese. Occorreva adeguarsi. La disdetta provenne dai genitori: Armando dispiaciuto, Elisa adirata:

«Dove siete andati a scovarle tante difficoltà? Invischiarvi con i preti scomunicati! Siete dei begli egoisti. Pazienza esporre voi alle critiche: ve ne siete infischiati della nostra posizione. Alessandria non è una metropoli, dobbiamo fare degli inviti e siamo nel commercio.»

Michela obiettò che alla coscienza spettava il primo posto. Forse una morale elastica, quella degli atei, presupponeva differenti priorità. Ma transigere con la fede…

«E chi te lo dice che hai la fede giusta? che l’hai ritrovata dai lefebvriani? Eh già, tutto il mondo sbaglia… Che presunzione! Ve ne accorgerete… »

Se non bastava, festeggiare le nozze in un sito praticamente sconosciuto, che non aveva pregi particolari…

La diatriba venne ripresa, si esaurì per stanchezza. La madre intraprese la via delle buone, senza aver realizzato che è arduo spuntarla con chi ama la nettezza e le vette innevate.

 

I parroci dei fidanzati diedero il consenso a che le nozze avvenissero nella parrocchia retta da don Giorgio, il sacerdote in buoni rapporti col cappellano conosciuto dal Priore. Don Giorgio non se la sentì di aggirare le regole. L’autorizzazione per il rito era facoltà del Vescovado. Lì, indugiarono, si chiesero chi fosse ancora in grado di praticare la cerimonia del tempo che fu. L’aspirante marito nominò un sacerdote amico, francese, il Priore.

«Come mai ci tenete tanto al latino?»

«La mia futura moglie ci tiene.»

«Vi faremo sapere,» al prelato lo sguardo sorrise. Sorrideva avendolo obbligato a mentire?

 

Il giorno designato era il 15 febbraio. Cinque giorni prima, la Curia informò Fabio che la Messa degli Sposi non godeva della dispensa per essere detta in latino.

«Vi hanno teso una trappola,» osservò don Remigio.

Il parroco dovette rimangiarsi la parola data di permettere a un tonsurato lefebvriano di salire all’altare. Governarono di concerto la marmorea mensa lui e don Gaudenzi, il cappellano delle suore.

Nel primo banco si erano affiancati i genitori, Nora, la loro figlia separata, e i suoi figlioletti. Alle loro spalle c’erano due zii, un cugino con la moglie e due conoscenti di riguardo. Più indietro, erano sparsi alcuni di incerta relazione e provenienza. Soli, nella parallela fila di banchi, nel secondo banco il Priore e don Remigio seguivano i gesti della concelebrazione, per onor di firma. Fabio diede loro una sbirciata: “Ma guarda che combinano quei due… ” sembravano pensare i preti della Fraternità.

Mancarono Guido e Mary, che era a letto indisposta e incinta. I suoi pensavano a lei in volo, dal cielo portoghese a quello padano. Un ragazzino di Nora aveva la febbre. La famigliola dimezzata, scombussolata rientrò subito a Torino. Il parroco declinò l’invito al banchetto. Vi sedette un unico ragazzo, spaesato. Il ben pasciuto don Gaudenzi disse: «Ma quanta roba!» Tuttavia fece onore al menù, mettendo a dura prova gli acciacchi dei suoi organi. Mangiava, sotto sotto impacciato, dirimpetto al Priore. La loro conversazione frammentaria languiva assai. Per qualche ragione, i commensali erano restii alla letizia e alla scioltezza.

Il fratello di Armando, uomo di complessione sanguigna, stufo della recita e delle timidezze, sentendosi scoppiare, a mezzo il pranzo, propose un brindisi con il barolo. Alzò il bicchiere, preceduto da qualcuno mosso dall’impulso da lui stesso eccitato. Sorse in piedi non del tutto fermo.

Agli evviva, prese la parola:

«Auguro agli sposi di volersi sempre bene… di sapere rivestirvi della medesima corazza, di condividerla…» trascinato dalla sua idea, li guardò come una sola creatura delicata, «perché, sapete, la famiglia è una società particolare, di uomo e donna, due soci così… distanti… E voi, una così bella coppia… bisogna che ce l’abbiano in testa che è un’impresa tanto… difficile… Scusino,» si volse ai preti, «l’omelia c’è stata, non voglio rubarvi il ministero,» rise, «scusatemi tutti… Allegria! come diceva Mike Buongiorno.»

Un movimento sommesso era sorto dai precordi dei convitati. Ingrandì il brusio. Gli sposi rientrarono nella loro distanza, nel viaggio, nella stretta delle loro braccia che li avrebbe congiunti interamente.

 

Il viaggio invernale li portò in Sicilia. A Palermo scesero in un albergo sontuoso. Affidandosi ai tassì, si immersero nei sacri splendori bizantini, conobbero il palazzo normanno, il litorale e la sua montagna piombata nelle onde. Noleggiarono un’auto. Si inoltrarono nel territorio che ricordava i paesaggi iberici, ma offrì i templi isolati, le epoche classiche trapassate, altre sponde marine, villaggi caratteristici conservati per il forestiero, per adesso ceduti alle intemperie di febbraio. Era tutta una lontananza: della gente, dei cibi, delle abitazioni; adatta al loro stato di freschi sposi partiti.

Il sogno fu lungo e breve. Dopo una settimana calavano nell’ambiente usato, molto caro, ma ricettacolo di noie puntate sul loro sodalizio, che era simile all’armatura auspicata dallo zio esuberante e riflessivo.

 

L’unione accaparratrice di Fabio e Michela si riverberò sulle disparate attività della cascina e dell’insegnamento. Lei si industriava per cucinare e pranzava a casa. Lui non sempre rincasava per tempo, ma era atteso, con gli accorgimenti che curavano la fragranza del pasto. Altrimenti pascevano fuori l’appetito. La sera, la cena comportava qualche faccenda domestica per lui.

Spicciatala, il riposo era culla di un divertimento talvolta dispensato dalla tivù, più spesso da uno dei film, delle opere liriche o dei concerti di musica da camera, registrati da Fabio.

La fortuna di condividere molto non li sorprese, li sorprese la facilità con cui Michela s’interessò a spettacoli per l’addietro non considerati. Scoprì che le storie di soggetto guerresco, che piacevano al marito, suscitavano anche la sua curiosità e l’emozione di assistere a imprese eroiche, a vicende drammatiche di infermiere, di madri, mogli e innamorate di militari. La commoveva il cinema degli anni Quaranta e Cinquanta, sulle prime apparsole datato. I volti, le situazioni, le vicende di buoni e di cattivi, dotate di risvolti, esulavano dalla turpitudine, dall’oscenità, dalla morbosità, dal sangue gratuito, dal cattivo gusto, appartenevano a un mondo diverso, a un clima rasserenante. Aveva letto e sentito che le industrie cinematografiche erano state una fabbrica dei sogni; le posteriori ricostruzioni cinematografiche di quei costumi li descrivevano mediocri, iniqui, corrotti, ma i vecchi film visti con Fabio non lo attestavano e, quand’anche vi fossero state edulcorazioni della realtà, il loro gradimento era stata una prova d’un prevalente sano gradimento. Rammentò che sua madre rifuggiva da quelle pellicole. Michela non aveva timore a emigrare nel passato, d’essere ingabbiata dal passato, dove rivedeva il rispetto della decenza, della Chiesa, e brani delle funzioni, delle devozioni, i consoni paramenti, che i ministri di Dio tradizionalisti resuscitavano.

Tenendo una lezione di storia, per esempio su un eroe del Risorgimento, da ogni testo esaltato senza riserve, le faceva orrore l’omissione del male fatto alla Madre Chiesa, ai suoi leali difensori, ai benefici Istituti monastici; l’indignavano le menzogne e le soperchierie consumate a danno di Sovrani cattolici, che non avevano colpe peggiori di quelle dei Re costituzionali. La sua passata astensione (“contro la forza ragion non vale, attacco l’asino dove vuole il padrone”) immiseriva.

Don Remigio sconsigliava di cercare il martirio; chi non vi fosse vocato era giusto che se ne dispensasse, ma si era tenuti a testimoniare la verità per la causa di Gesù Cristo, nei limiti della prudenza.

Perciò, anche insegnando italiano, metteva un accento sulle irreligiosità dei poeti e dei prosatori, sulle conseguenze pessimistiche dell’ateismo, dell’agnosticismo, dell’eresia. Bastava una nota di sfuggita, bastava rilevare un accompagnamento di disonestà, lo strascico di malessere, individuale o sociale, non indispensabile, non giustificabile. Nella storia del Rinascimento, metteva in parallelo il neopaganesimo delle arti e delle scienze con la corruzione del clero. In merito a questa, denunciata da Lutero, la sua Riforma, nata pretendendo d’essere purificatrice, aveva preso la mano al fustigatore facendogli stabilire che il peccato non dannava chi credesse di avere la fede, mentre chi non l’aveva era senza speranza di paradiso. Al contrario, la Chiesa stabiliva che Dio condannava il peccatore consapevole, e che non negava mai la speranza di salvarsi. Donde, la lampante incompatibilità della Chiesa e dei protestanti.

 

Nelle società vige un sistema: coloro i quali, a torto o a ragione, escono dai ranghi ne pagano il fio.

Alcuni consorzi civili sarebbero ordinati per il rispetto delle diverse correnti di pensiero e della facoltà di propugnarle, ma non tollerano l’opposizione alla loro ideologia più o meno legalizzata, per erronea che possa essere. Il risultato non cambia qualunque sia il compositore e l’orchestra che suona: guai a chi esegue una musica fuori del repertorio!

Fabio toccò con mano che non occorreva propugnare una Crociata, né predicare la verità rivelata e i suoi inequivocabili comandamenti, per diventare reprobo. Il giorno in cui il pluriparroco don Roberto, che abitava in città, a Roccaspina gli tolse il saluto, comprese le freddezze e le reticenze dei maggiorenti, alcuni inspiegabili ostacoli burocratici negli uffici comunali, la diffidenza dei paesani nei suoi riguardi. Si era sparsa la voce che era un lefebvriano, uno capace di criticare il buon pontefice, di disdegnare il clero e di chissà quali impreviste malefatte. I più avveduti non ardivano compromettersi difendendolo. Era persona affidabile e retta, ma la sua novella fama obbligava a conformarsi alla comune opinione, almeno in pubblico.

Santina non cessò di servirlo, era affezionata, sebbene avesse il suo tornaconto a restare fedele.

Rinforzato con un sovrappiù di paga, l’attaccamento di parente e di servitora avrebbe garantito l’aiuto indispensabile nella prossima vendemmia.

«Non te la prendere,» Guido gli era solidale, «Fai finta di niente. Io sono un incredulo, ma sarei integralista come te. Tanto hanno manipolato che la cosa integra è diventata una schifezza. Hanno trovato la parola spregiativa per denigrare quelli che si tengono alla coerenza. E niente come la religione cattolica richiede coerenza con la dottrina, che senza dogmi non è più cattolica, è un’altra cosa. Non per nulla la Chiesa ha combattuto le eresie, che al papa adesso vanno bene. Sono un miscredente, però mi risulta che Cristo disse: “se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”. Sta sicuro, per quello che mi riguarda e che posso, ti do man forte.»

Guido e Mary convivevano a Nizza a casa di lei. La madre di lui, alla Stazione, se la cavava col sostegno di una donna peruviana. Mary, vicina al parto, aveva assunto una giovane commessa di primo pelo. La gravidanza aveva concorso a ostacolare il ritrovarsi delle coppie amiche.

 

A Michela andò peggio nell’ambito scolastico. Aveva infilato qualche bastone nelle ruote autorizzate, da governo nostrale e supernazionale, a trasmettere impulsi alla macchina didattica.

Operavano un controllo che presupponeva l’acquisizione di concezioni educative indigeribili. Era dato sottrarvisi soltanto a prezzo d’una taccia sul buon nome e d’una esclusione da comuni vantaggi.

In classe, un capobanda di origine slava, intrigante e astuto, cascava dalle nuvole e sputava sentenze (luoghi comuni) contrarie alle considerazioni che scoprivano l’altra faccia della medaglia, ossia la parzialità e la falsità di fatti presentati in maniera, per così dire, ufficiale. Quindi cominciò a screditare la prof, ventilando sul suo conto accuse infamanti. Le rivolgeva domande impertinenti circa le sue opinioni sulla discriminazione delle religioni, sulla parità dei comportamenti sessuali, sulla guerra giusta; domande alle quali Michela rispondeva con visibile difficoltà. Si erano messi in moto genitori e associazioni che tutelavano i più raffinati e inviolabili diritti civili. Il Dirigente scolastico, messo sotto pressione nondimeno da genitori amanti del quieto vivere e zelanti nel salvaguardare il profitto dei loro pargoli, chiamò la perturbatrice e le fece una sonora ramanzina.

Quella sera Fabio vide la moglie in lacrime. La prese contro di sé e la trasse a sedere sul divano:

«Si tratta della scuola,» indovinò. «Ovvio,» drizzò la schiena, eretto, emblema del braccio che abbatte la spada sul nodo gordiano. «Da parte mia, ti do un consiglio definitivo: dimettiti. Non c’è denaro che comperi la serenità. Ce la faremo lo stesso, se resti a casa.»

«Voi uomini siete drastici.»

«E voi vorreste salvare capra e cavoli… Non voler essere anche tu una salvatrice di capra e cavoli,» scherzò, «di velleità son piene le fosse, piene dei programmi politici e delle speranze dei governati. Così si arriva soltanto a compromessi miserabili, inaccettabili.»

«Potresti avere ragione.»

«Su, vediamo: hai le ripetizioni in casa, aumenteranno, e riempiono i vuoti della giornata. Avrai modo di uscire svagandoti, di fare qualche economia, attualmente impossibile.»

«Uhm… »

«Pensaci bene.»

«Andiamo a tavola,» lei si riscosse, «è subito pronto. Sarai affamato.»

«Sì… ho finito di imbottigliare.»

«Sono contenta. Per quanto dipende da me, ci dormirò sopra.»

 

L’annata di vendita del vino procedeva fiacca. I consumatori, volubili, attirati dai cambiamenti seguivano nuove mode enologiche. Il corrispondente dalla Germania inviava ordini esigui. Fabio aveva rimandato di confidarle le sue ristrettezze economiche, che l’avrebbero angustiata e, in quel mentre, condizionata. Il fisico di Michela, la sua condizione culturale la rendevano inadatta ad affiancarlo nel mestiere di agricoltore. Avrebbe potuto sollevarlo dal lavoro amministrativo dell’azienda. Ciò doveva venire da sé, quasi spontaneamente, senza la forzatura del dovere assolto controgenio.

Sbarazzata la tavola, caricata la lavastoviglie, lei desiderò rivedere L’amore è una cosa meravigliosa.  Sua nonna ne canticchiava il motivo un po’ facile dell’accompagnamento musicale.

La semplicità della trama e la mediocrità del tema conduttore facevano onore, dato l’esito del film, al delicato stile dei suoi artefici, alla mirabile naturalezza degli attori, che interpretavano la naturale compostezza dei personaggi innamorati. Michela si edificava rivivendo un amore spezzato dalla fatale scomparsa, in guerra, dell’amato. Aveva il dono di non rattristarsi di fronte al peggio avvenuto nell’incolpevolezza, aveva il dono della malinconia che disacerba la tristezza. Il dramma della finzione leniva il cruccio del presente senza che la disgrazia maggiore, rappresentata, dovesse servire di consolazione.

Si coricarono e il cervello riprese i suoi diritti, trascese attuando il sopruso di prevaricare coi pensieri. Lui s’addormentò dopo un paio d’ore. Al pallido annuncio del mattino di fine aprile, a lei parve di non aver chiuso occhio. Era stata un’ossessione escogitare espedienti per sottrarsi onorevolmente alle sanzioni cui la sua condotta era soggetta. Scivolò anzitempo fuori della coperta e della camera.

«Dormiglione, il breacfast è pronto,» lo chiamò, ordinata, in vestaglia, avendo sbrigato alacremente le faccende. Trasse da parte la tenda sulla portafinestra.

Fabio emise il brontolio tipico dei risvegliati controvoglia.

«Finisci di mugugnare,» disse allegra; «ho una sorpresa per te… per noi.»

«Brava, e mi tieni sulla corda?» si stropicciò le palpebre.

«Che stai dicendo?… Abbi fede, la saprai a colazione,» non resistette a tenere gli occhi negli occhi; s’involò.

Giunti alla fumata, presso le tazze vuote e i barattoli, tra frasi sulla vita pratica :

«Mi sono decisa,» di botto diede la novella, «do le dimissioni. La scuola non la reggo più.»

«Ecco, chi è precipitoso.»

«Sei scontento?»

«Nemmeno per idea. Anzi, facciamo festa. Stasera ti porto a cena al Moncalvo.»

Corse a baciarlo e a prendere il bacio appassionato.

«Vero, che hai paura che ci ripensi? Intanto ne approfitti per darti alle voluttà enogastronomiche.»

«Cattiva: sai bene che altre volte ci andiamo per l’atmosfera e per variare.»

«Abbiamo bisogno di variare?»

«Su, finiamola col botta e risposta, col dualismo… »

«Che strano questo essere uniti e nello stesso tempo due individui… »

« Si può non essere individui?»

«Forse non hai capito… »

«Cara, ho capito… Su, che ci viene tardi.»

 

L’anticonformista attese il momento propizio e bussò alla porta del Dirigente. Aveva ricusato l’offerta di suo marito d’assisterla con la sua presenza.

«Avanti,» disse la voce aspra dell’uomo maturo e navigato.

La Giusti, l’Elvira, belloccia e spregiudicata, le mandò un pigro «Ciao», aggiustando la cartellina sulla scrivania.

«Signora Rebuffo, che… »

«Gentili,» Michela corresse.

«Gentili? Ah sì, sposata Gentili» – sulla faccia scarna, lei scorse uno sprezzo su cui sorvolò –

«Bene, che c’è di nuovo?»

«Devo parlarle in privato.»

«È urgente?»

«È importante.»

«Non mi dica!» il sorriso sarcastico gli riusciva male.

Elvira restava immobile, appoggiata sull’anca.

«Ochei. Noi prof, continuiamo dopo,» il Dirigente le disse.

«A sua disposizione, dottor Adami. Arrivederci,» distribuì i saluti.

Chiusosi l’uscio, lui squadrò con sufficienza la seccatrice, nella cui mano era comparso un foglio.

Glielo mise davanti dichiarando:

«Queste sono le mie dimissioni.»

La faccia segnata restò a bocca cascante.

«E che significa questo colpo di testa?»

«Il fatto che non lo comprenda le dà una patente di uomo da poco. Uno che vive in una fogna senza sentirne la puzza.»

«Come?» ebbe un sobbalzo, «Come osa?» sbraitò, «io… io le do… »

Michela si stupì della propria calma, che le suggeriva: “Ne hai viste ben altre di minacce!”

«Io oso, oso fin che mi aggrada.»

«Le do querela!»

«Senza testimoni… »

Adami si lasciò andare stendendo le braccia sui braccioli:

«Ora se ne vada,» s’investì del proprio grado; «stia certa che assumo provvedimenti.»

«Prima riceva le mie dimissioni. Sono due copie; me ne renda una firmata.»

«Non ci penso neppure.»

«Benissimo; gliele invio con posta raccomandata e ricevuta di ritorno, a lei e al Provveditorato per conoscenza.»

«Non si azzardi ad assentarsi.»

«Non sono stupida.»

 

Alle dieci aveva lezione di italiano. Trovò la classe turbolenta, come se il vento di tempesta che tirava l’avesse raggiunta. Oscar, il capobanda, tatuato sul collo nerboruto e opaco sotto la barbetta rada, sedeva nel primo banco a sinistra con l’atteggiamento insolente del provocatore. Michela, noncurante, prese posto alla cattedra, da tempo immemorabile ribassata a livello dell’impiantito.

«Signora, possiamo parlare di Pasolini?» il bonaccione Fabrizio aveva alzato il braccio nel tramestio, che pullulò di risatine. «Ieri io e… Miriam abbiamo visto… (suggerimento biascicato) a casa sua, il film Uccellacci…  sì, Uccellacci uccellini

L’insegnante lasciò fare: «Ebbene?»

«Sì, avremmo delle domande.»

«Di Pasolini tratteremo più in là. Oggi vediamo alcuni aspetti della Commedia di Dante Alighieri.»

Nell’aula risonarono le rimostranze. «D’accordo, l’avete fatta due anni or sono, non è nel programma, ma qualcosa di nuovo ve lo devo dire. Sono certa che vi interesserà.»

«Ragazzi,» intervenne Oscar, «sentiamo che ci racconta d’interessante la signora.»

Qualcuno aveva cominciato a trafficare col telefonino. Qualcuno si faceva i fatti suoi in altro modo. Due piccioncini tubavano.

«Avete mai letto o sentito il vocabolo sodomiti?»

«Sono gli abitanti di Sodoma,» disse Fabrizio compiaciuto di saper rispondere al quiz.

Oscar aveva drizzato le orecchie.

«Infatti. Chi mi sa dire che genere di gente erano, quale caratteristica li distingueva, per cui sono passati alla storia?»

«Erano omosessuali,» disse il caporione.

«Bravo, anche se in generale fossero quelli che peccavano sessualmente contro natura, viziosi impenitenti che Dio bruciò incendiando la loro città.»

«Questo non lo abbiamo studiato,» osservò Gianni dal primo banco della seconda fila.

«Avete letto soltanto alcuni brani dell’ Inferno, se li avete letti, e di tutt’altro tenore.»

«Avremmo dovuto saperlo tutto?» il caporione stava affilando le armi.

«No, nessuno vuol fare di voi dei dantisti, tuttavia…»

«Dantisti,» Miriam, il gomito sul banco e la palma sotto il mento, si illuminò, «anche in Uccellacci uccellini  il frate Totò e suo figlio incontrano i dentisti dantisti, che vanno a un congresso.» Il film lei, l’aveva visto davvero.

Si accese la miccia dell’ilarità e fu un ripetere «dentisti dantisti», «dantisti dentisti», tra risa e schiamazzo.

«Ragazzi! Ragazzi!» Michela li riprese battendo sul piano della cattedra. «Su, andiamo avanti.»

«Io vado dietro a studiare fisica,» Gianni brontolò, «per stare a sentire queste scemenze… » Fece l’atto di alzarsi col libro e di dare le spalle, mentre tornava una calma precaria.

«Gia’, non ti muovere,» Oscar gli ordinò, «non sta bene,» soggiunse, spiegandosi meglio con la faccia vagamente beffarda.

Si erano passata la voce di non trascendere, affinché la “fascista” non avesse ragioni da contrapporre alle imputazioni che dovevano inchiodarla.

«Attenzione: nei canti quindicesimo e sedicesimo dell’ Inferno, Dante, il Sommo Poeta, incontra i sodomiti, gli omosessuali, che stanno ben giù, nel terzo girone.» Nell’aula si propagò un silenzio attento. «E sentite in che modo li descrive,» stese un foglio che s’era preparato, «il maestro di Dante, Brunetto Latini, parlando dei suoi compagni dannati: “la mia masnada che va piangendo i suoi eterni danni”. Più avanti dice che sono “d’un medesmo peccato al mondo lerci” e li chiama “turba grama”, “tigna”, cioè malattia schifosa. Ebbene, di questi tempi, questi passi dell’ Inferno sono cancellati anche nei licei. D’altronde, si insegna che Dante ripete i pregiudizi di una volta, che anche la religione si sta aggiornando. Ma si preferisce l’omissione, cioè tacere una verità, una verità scomoda. Per esempio quell’attore famoso che declama i Canti con arguzia – crede lui – … »

«Benvenuto,» disse Miriam.

«Proprio lui. Declama quasi tutte le terzine sui peggiori depravati, fuorché dei sodomiti e degli eretici.»

«E con questo?» Oscar mise lingua, una lingua ostile: «l’ha detto lei che Dante si sbagliava ripetendo i pregiudizi.»

«No. Ho detto che lo insinuano quelli che praticano l’omissione, i falsificatori della morale.»

«La morale è cambiata. Col progresso, con la scienza, si è capito che gli omosessuali sono uguali agli altri, e non hanno colpa.»

«La morale è una, non cambia, come non cambia l’uomo, come non può cambiare la religione. Nel sesto Cerchio dell’Inferno gli eretici sono suppliziati in sepolcri ardenti. Il Vaticano oggi ha voltato gabbana: amico degli eretici,» sostenne nettamente. «Sono i poteri, che hanno interesse alle rivoluzioni, a falsificare a suon di sofismi l’essere umano di sempre. Gli torna utile pervertire l’uomo di oggi.»

«Allora le leggi, secondo lei, sarebbero sbagliate.»

«Perché no? Chi le fa le leggi? gli angeli, gli infallibili?»

«E sarebbero stati infallibili quelli dei tempi andati?»

«Il buon senso è infallibile, e la ragione che deve dettare le leggi è stata la stessa per duemila anni. Vuoi credere a un’autorità millenaria o a quella che non ha nemmeno cent’anni di predominio?»

«Non è così,» il ragazzo riattaccò, «l’uomo è progredito. Prima le donne avevano pochi diritti, ora sono stati riconosciuti tanti diritti che erano negati,» concluse la giovane e livida Rivendicazione personificata.

Nella breve interruzione, le sedie e i banchi scricchiolarono. Gli studenti, maschi e femmine, assistevano alla disputa quasi fosse una partita di pallavolo.

«Sentimi, tagliamo corto,» Michela conservò il ruolo eminente, «tu sostieni, secondo il conformismo progressista che oggi comanda… » Oscar respinse l’osservazione, ma lei lo fermò:

«Disapprovi, s’intende… Adesso lasciami finire, dopo ribatti… Dunque, facciamola breve: prendiamo il periodo precedente alle grandi novità dei costumi, poi rivoluzionati negli anni Sessanta. Allora, per esempio in Italia, in pratica non c’era la droga, non c’era la pornografia, la mafia si trovava soltanto in Regioni del Sud e non faceva gli enormi affari e disastri che fa adesso.

Le famiglie sfasciate erano poche. La denatalità? Sconosciuta. La sicurezza da rapine e furti era almeno il triplo dell’attuale. Lo Stato godeva dell’indipendenza nel gestire le sue finanze e non faceva il biscazziere come quello di oggi. La prostituzione non stava sulle strade,» rifiatò. «Pertanto giudica tu: con questi risultati – l’albero si giudica dai frutti che dà – dov’è l’evoluzione umana, il benessere e la giustizia? Siamo stati ingannati.»

Oscar, concentrato: «La libertà non ha prezzo,» sentenziò con aria di sfida, preparandosi a esultare, «per di più, vuol mettere la miseria dei nonni in confronto con tutto quello che abbiamo attualmente?»

«La libertà nell’uso comune del termine è una parola sporca, losca, serve a giustificare un sacco di nefandezze. La libertà è una bella figliola fatta prostituire. Quanto alla miseria, oggi ce n’è tanta, insieme all’ingiustizia, al disordine e alla sporcizia, anzitutto morali… Ho finito.»

«In definitiva lei è contro le leggi, se ne frega dei diritti, non riconosce i diritti di genere,» disse il ringalluzzito trionfando. «Ragazzi avete sentito tutti che insegnante abbiamo!»

Il mormorio si spense nel vociare di questo e di quel gruppo. Gli obiettori e gli incerti vennero tacitati, ma poteva darsi che qualche mente avesse ripreso una certa autonomia, mettendo in dubbio stereotipi di notevole portata, o che avesse immagazzinato nozioni, utilizzabili in avvenire o predisposte per suonare la sveglia a un dato momento cruciale.

Michela guardò l’orologio. Mancavano dieci minuti al suono del campanello. Finse di leggere il foglio delle dimissioni, facendo scorrere il tempo. Non ne attese lo scadere per andarsene. La mano sulla maniglia dell’uscio, un aforisma udito da Fabio la trattenne:

«Ascoltate,» alzò la voce, «i veleni.. i veleni,» si fece ascolto nell’aula, «esistono soltanto in rapporto alla loro quantità. Per il corpo sociale è lo stesso; le piccole dosi di tossico non fanno molto male… le dosi più grandi sono deleterie.»

 

Aveva una lezione alla Quarta C un’ora più tardi. La bomba innescata poteva scoppiare da un momento all’altro. Tra Oscar e il direttore facilmente sarebbe corsa la notizia dello scandalo che ledeva la maestà del popolo italiano, origine delle leggi. Il patatrac l’avrebbe sorpresa nell’aula.

Perciò uscì del tutto da quella che per lei e per il suo consorte era una fucina di ignoranza, di pecoraggine e di menzogna. Fuori respirò a pieni polmoni. Impaziente di annunciare a Fabio l’avvenimento, gli telefonò seduta stante.

«Sono fiero della mia eroina,» egli si felicitò.

«Sei tu, la mia forza.»

Dopo frasi che, alla lettera, erano trite e melense:

«Vai a casa?» il marito proferì l’ultima calda banalità.

«Prima telefono al professor Parodi, il primario di Villa Confidence. Se mi riceve, nel pomeriggio vado al suo studio e mi faccio scrivere un certificato medico per l’Istituto. Dovrò mettermi a disposizione, sottostare alle visite di controllo, ma non c’è paragone con il torchio scolastico che mi toccherebbe.»

 

Gli asociali disadattati trascorsero un maggio e un giugno tranquilli. La stagione agricola si dipanava piana, con piogge convenienti e settimane di siccità moderata. Le vociferazioni intorno all’estremismo religioso di Fabio e alla rinuncia di Michela dimissionaria, si erano sopite nella ripetitività. Andava da sé che lei, ex ricoverata a Villa Confidence, si fosse trovata male nella ripresa dell’insegnamento; forse l’avevano costretta ad andarsene. Ai genitori si tenne nascosto il draconiano provvedimento. A caldo, era ostico comporne la motivazione; il dispiacere, allontanato nel tempo, era destinato a giungere irrimediabile e meno crudo, per quanto fosse piombato tra capo e collo. I giustizieri dell’ambiente scolastico ritennero che giustizia fosse stata fatta con le dimissioni, persero la voglia di presentare denunce.

Le domeniche, il pellegrinaggio al Priorato per assistere alla Messa era diventato consuetudine, nel contempo occasione di gita. Al ritorno, visitavano città ignote, Casale, Vercelli, antiche pievi, castelli. Michela aveva chiesto di collaborare alle commissioni che riguardavano l’azienda agricola, s’impratichiva delle scartoffie e della contabilità. Avevano fatto il callo al blando ostracismo dato ai virtuali scomunicati. Soltanto la spada di Damocle di Armando ed Elisa, inconsapevoli che la figlia restasse priva di lavoro sicuro e di pensione, di tanto in tanto pendeva su di loro. Il presentimento per cui alla fine i genitori avrebbero dovuto sapere e farsene una ragione, rese il fastidio passeggero e lo attenuò.

Fu alla seconda domenica di luglio che piovve loro addosso la tegola. Dopo il Sacrificio divino, la sala in cui erano rimasti a pranzo in occasione della prima visita al Priorato ospitava la tavolata dei fedeli. Provenivano da varie località dell’Italia Settentrionale e s’intrattenevano piacevolmente. Si facevano conoscenze, si stringevano amicizie. Recitata la preghiera di ringraziamento, il Priore, che con i confratelli reverendi sedeva alla mensa, salì sopra un panchetto per tenere un discorso estemporaneo. Diede avvisi relativi alla sospensione della Messa di mezzodì durante le vacanze estive e agli esercizi spirituali predicati nella quarta settimana del mese, si diffuse sui benefici di tale pratica, e parlò del papa. Sebbene lo scopo dell’istituzione fondata da monsignor Lefebvre fosse di combattere gli errori che dall’ultimo Concilio in poi corrompevano il magistero ufficiale e di difendere la sana dottrina anche contraddicendo il pontefice in carica, la Fraternità poteva e doveva riconoscere il successore di Pietro.

Quell’affermazione colpì Fabio, sconcertandolo. Aveva sempre creduto che le severe critiche mosse alla Chiesa di Roma e al suo Capo implicassero un rifiuto totale, una negazione della loro validità. Non s’era avveduto di un segno contrario. Sì sentì incapace di ricredersi. Gli ripugnava conciliare l’inconciliabile: l’errore con la conservazione dell’autorità di Vicario di Cristo. Ricordò di aver attaccato il papa nelle conversazioni che, venuta la bella stagione, si tenevano in analoghe contingenze sotto il porticato del piazzale. L’aveva chiamato “sedicente pontefice”. Capì che il fervorino del Priore era diretto a lui, o a qualcun’altro insieme a lui.

Lasciata diminuire la maggior calura, mentre in tanti discorrevano all’ombra, domandò a Michela se gradiva che si mettessero in viaggio. Lei non aveva provato imbarazzo in seguito all’ammaestramento del Priore, ma intese che il congedo precoce avesse una base piuttosto seria.

Salutò la signora con la quale discorreva; presentarono gli ossequi ai reverendi.

In macchina il termometro segnava quaranta gradi. Fabio aprì porte e finestrini, accese motore e refrigeratore.

«C’era qualcosa che non andava?» gli chiese, una volta avviati oltre il portone.

«Tu non hai sentito niente che disturbasse?»

«Mah, riguarda il discorso alla mensa?»

«Brava, e in particolare?»

«Ha parlato del papa. Non avevamo mai sentito dire niente di lui nelle omelie.»

«Infatti, probabilmente evitano l’argomento. Oggi invece il Priore ha creduto opportuno precisare la posizione della Fraternità, probabilmente per mettere sull’avviso uno di noi che ha sostenuto che questo papa non è autentico.»

«Saresti stato tu?»

«Sì, io l’ho fatto.»

«E adesso?»

«In coscienza, devo scartare questa tesi del pontefice valevole. E tu?»

«Anch’io.»

«Questi sono veri sacerdoti, alcuni ordinati da un vescovo consacrato sotto Pio XII, i loro riti saranno validi. Ma il fatto che monsignor Lefebvre abbia consacrato vescovi disubbidendo al capo del Vaticano, rende incongruente il riconoscimento del papa cosiddetto, da loro stessi disautorato.»

«Caro, anche qui ci respingono,» rise, «a meno che non ci pieghiamo. Troveremo da qualche parte l’affinità spirituale e teologica?»

Da cinque minuti correvano sulla statale rettilinea. Nel paesaggio monotono, nell’abitacolo rinfrescato la mente ebbe più libertà di espandersi

«Ci sono i sedevacantisti, preti e seguaci che considerano vacante la Santa Sede. Hanno un Istituto in questa zona. Ci andremo.»

Si era alla vigilia delle ferie, e molte faccende erano procrastinate.

Avevano prenotato in Spagna gli alberghi su un itinerario automobilistico che, da Ventimiglia attraversando d’un fiato la Francia meridionale, percorsa la Catalogna e l’Aragona occidentale, attingeva il Golfo di Biscaglia, risaliva al Santuario di Compostella e ai fiordi della Galizia.

In capo a due giorni, erano in partenza. Entrambi conoscevano la Spagna mediterranea. Quella assai nordica affacciata all’Oceano, sarebbe stata una bella scoperta, preceduta dalla magnifica cattedrale di Saragozza, dove era fissata la seconda tappa.

Il fasto iberico, in cui spiccavano lo veristiche, coraggiose rappresentazioni degli strazi e della morte, la sensibile tendenza popolare alla grandiosità, li trasportò in una terra ardente dai tavolieri sterminati, in un continente estraneo all’avarizia e alle delicatezze europee. Il peccato delle corruzioni di moda risaltava, incuteva rammarico per l’innata nobiltà che soccombeva inspiegabilmente, non avesse costituito una triste conferma dell’umana inclinazione al male, verità-cardine predicata dai chierici tradizionalisti.

A San Sebastian la tonda baia richiamava ancora il pittoresco, al di qua d’un mare intenso, d’acciaio. A Santander, nel centro con la cattedrale gotica, sul Paseo del golfo con il porto, da sopra la vasta spiaggia del Sardinero, la Spagna sposava la severità atlantica. A Gijon, vecchia e nuova, il nuovo era compresso dalla celeste austerità, le acque marine imprimevano una scossa che invitava a familiarizzare con la durezza. Nell’escursione a Oviedo, capitale delle Asturie, avevano letto sulla guida dell’antichità di quel Regno cristiano.

«Qui gli arabi non sono arrivati,» disse Fabio nella piazza della cattedrale. «Da questa Regione è partita la Riconquista. La civiltà romana, condensata al Nord, riscattò il Sud. La avverti anche tu nell’aria la traccia pura, l’alone smagliante dell’antico? quello che proviene dai ruderi dilavati e politi dal tempo… »

«Le reliquie?»

«Qualcosa di meno. Le reliquie appartengono alla santità. Le vestigia trasmettono la buona essenza per chi la percepisce… Modestia a parte.»

«Anche le reliquie parlano a chi può ascoltare… Entriamo. Dentro, nella Camera Santa è custodito il Sudario di Cristo. Dice che il volto assomiglia a quello della Sindone.»

Lasciarono fuori la statua marmorea di Alfonso III. In fondo alla grande e solenne navata gotica, l’abside era rivestita da un immenso polittico. Dietro l’angolo del sontuoso transetto, accedettero alla Camera Santa di costruzione preromanica. Si inginocchiarono dinanzi all’arca di bronzo istoriato contenete la reliquia. Recitarono il rosario, che sgranavano ogni sera prima di coricarsi.

Cenando nell’albergo di Gijon, Michela era incantata dall’escursione: «Immaginavi che questi paesi riservassero tanta storia, tante tradizioni?» disse. «Le guide turistiche e i libri etichettano i fatti soprannaturali col termine di leggende. Non fanno eccezione le pubblicazioni ecclesiastiche. Ho letto in Internet che il Sudario di Oviedo è stato datato al Settimo Secolo col metodo del carbonio-14… »

«Gli scienziati che si servirono di quel metodo hanno fatto un errore madornale datando la Sindone di Torino, a causa delle loro trascuratezze, piuttosto che per difetto dello strumento. Degli studiosi lo hanno dimostrato.»

«Volevo dirtelo. Ma saranno state mere negligenze, casualità?»

«Non credo… E sai la… leggenda di San Giacomo giunto a Compostella? Ha qualche analogia con la traslazione della casa della Madonna a Loreto, trasportata dagli angeli. Nella Legenda Aurea  il beato Iacopo da Varagine narra che gli apostoli imbarcarono il corpo del martire Giacomo su una nave, governata da un angelo fino allo sbarco in Galizia. Lì il Santo venne sepolto e ritrovato secoli più tardi. L’agiografo Iacopo intendeva riportare autentiche storie di santi, quantunque con la tradizione miracolosa di Loreto non ci sia confronto.»

«Se ricordi, don Remigio una volta ci ha detto che esistono versioni discordanti in questo campo, e alcune sono erronee, come succede per i vangeli apocrifi. Però, a pensarci bene, Dio fa quello che vuole, i miracoli più incredibili.»

«Certo, magari può farli a posteriori per i credenti, perché non restino confusi. Può far sì che si abbiano le prove di quello che non è accaduto.»

«Mah, mi sembra che corri troppo,» lei osservò sorridente.

Nella sala cenavano soprattutto spagnoli, provinciali e cittadini in vacanza; molti erano venuti a tavola dopo di loro. La loro parlata suonava sempre gradevole, divertente per le affinità che la legavano all’italiano. Anglosassoni, tedeschi e altri nordici preferivano la stagione priva di solleone.

Uscirono per una passeggiata rinfrescante. Sul lungomare, oltre gli scogli la distesa marina serbava i suoi segreti. Lontane, incerte, provvisorie luci di navi… rotte disuguali… solchi inghiottiti senza traccia dalle acque sovrane… A Nord, il cielo baluginava di stelle. La corrispondenza degli elementi coronò l’armonia delle loro facoltà e del loro amore. Fabio si fermò a fissare lo stellato:

«Guarda, discerni la via lattea? In Spagna, e per i pellegrini, è la via di San Giacomo.»

«E noi, domani, saremo pigri pellegrini motorizzati, che seguono il Camino de Santiago in automobile, senza bastone e senza conchiglia»

 

Nel centro storico, sbucando sulla piazza era da ogni lato una magnificenza di cattedrale e di palazzi. Lo strabiliante prospetto del tempio pullulava di statue, pinnacoli, colonne, finestre, loggette, motivi ornamentali: sulla fronte e sulla due torri campanarie che l’affiancavano. Bisognò soffermarsi più del consueto per possederne il disegno e i dettagli. La grigia patina del tempo smorzava il tripudio dei soggetti e dei simboli. Salirono una delle due rampe di scale, simmetriche sotto il centro della facciata sopraelevata. Nella grave semplicità della nave dagli archi a tutto sesto, perdurò difficile il raccoglimento. Il brulichio, cosparso di turisti e di pellegrini sciatti, scomposti nei loro equipaggiamenti profani, invadeva gli spazi più sacri: presso l’altar maggiore sfarzoso, sovrastato dal simulacro del santo, verso il quale si era protesi, e presso l’arca del sepolcro. Gli sposi si ritirarono a pregare in un canto.

Nel pomeriggio pervenne un messaggio di Guido. Mary aveva dato alla luce una femminuccia di nome Ester. Fabio e Michela parteciparono loro i rallegramenti, gli auguri, il compiacimento perché stavano bene e l’evento era stato lieto completamente.

Dalla parziale delusione di Santiago, fecero una puntata alle rias, i fiordi della estrema Galizia.

Sulla spiaggetta racchiusa da strapiombi rocciosi e chiomati, dopo un bagno nell’acqua fredda e un bagno di sole, l’alta marea li scacciò. Di lì, prese l’avviamento il ritorno in patria, che bruciò le tappe poiché la somma stanziata per il viaggio era agli sgoccioli.

 

In agosto la vigna richiese una sola cura importante. L’uva che prendeva colore andava diradata recidendo i grappoli brutti ed eccedenti. Quella potatura, dopo quella verde delle femminelle, rifiniva la qualità del raccolto. Michela si era rinvigorita, il pallore aveva assunto il tono originale, deciso, sulla carnagione rassodata. Si unì, di mattino presto, al marito e a Santina nell’opera ordinata alla produzione d’un vino eccellente. Lei e Fabio, in pantaloncini di fustagno, protetti da cappelli di paglia, lavoravano di qua e di là dal filare; la contadina se la vedeva da sola nel filare accanto, e spesso arrivava prima di loro alla capezzagna. Alle dieci sospendevano, sottraendosi al rigore canicolare, per riprendere alle cinque del pomeriggio.

Santina aveva il tempo per cucinare. Consumavano tutti e tre il pasto all’ombra dell’alta tettoia, coprente gli attrezzi che stavano all’aperto. Il frinire delle cicale, nella grande quercia che ombreggiava un angolo dell’aia, emergeva nei silenzi della conversazione che si aggirava sulle cose del paese e della campagna. Uno di loro vi coglieva lo spunto per una battuta, ne sortivano altre, seguivano serie considerazioni; ma il tutto avrebbe potuto venir meno nella placidità.

«Qui si sta bene,» diceva Santina, «c’è pace senza galline e conigli, senza puzze, senza mosconi. Mi viene un accidente, se penso che stasera avrò ancora l’orto da bagnare e le bestie da governare.

Da quando il mio uomo lavora al Cantinone, scappa da Toni e chi lo vede? I figli, in città, non mi conoscono più, vengono per riempirsi le borse di roba. I nipoti sono peggio degli uccelli. ‘Nonna possiamo raccogliere le ciliege, le pesche?’ E le hanno già mangiate.»

«In compenso, avete della carne bianca e le uova, le verdure fresche, la frutta.»

«Non ho nemmeno il tempo per raccoglierla la frutta… E la roba che vi porto non è fresca?»

«Lo sapete voi il guadagno che ci fate,» Fabio la stuzzicava.

«Però,» disse Michela, «Qui non abbiamo nemmeno un cane, un gatto. Anche quando ci stavi da solo… »

«In campagna, come in città, bisogna curarsi degli animali. Nel momento in cui ti assenti, sono dolori… Già i vasi dei gerani sono vita da abbeverare… »

«Saresti capace di privarci anche dei fiori.»

Verso le nove andavano in paese, a volte a piedi. Se c’era calma da Toni, prendevano un gelato nella terrazza. Oppure si dilungavano nel solito cammino, cui giungeva il canto dei grilli e il gracidare di qualche rospo. Michela si recava ad Acqui soltanto richiamata da commissioni e per tenere d’occhio la casa.

 

I suoi genitori si godevano l’aria di montagna, dove facevano escursioni con gli amici di tutti gli anni e ne intraprendevano di nuove. Li avrebbero raggiunti nell’appartamento di Courmayeur per trascorrervi il Ferragosto, quantunque i suoi la storia della dimissioni non l’avessero ancora digerita.

Perciò non c’era fretta d’abbandonare l’agreste stato di grazia.

«Quando ti sarai stancato di vedere questa faccia,» disse lei una sera, «quando il nostro amore dovesse finire, ce ne resterà sempre il ricordo, staremo sempre insieme in armonia.»

«Che vai a pensare… » egli volle contraddirla. Guardandola bene, se ne pentì: «Comunque, hai ragione. Staremo sempre insieme concordi.»

A settembre ripresero la vita di prima. La Provincia si ripopolava. Il Consorzio Agrario aveva riaperto il magazzini dei rifornimenti. Riaperti i rivenditori di macchine agricole, i meccanici, gli uffici. Fabio faceva la spola fra Acqui e il Greppo, talvolta accompagnato dalla moglie, che nella stanza libera teneva un abbozzo di ufficio. Ma era la cameretta per il nascituro, gioia sperata e larvata preoccupazione.

.

(continua)

Condividi questo articolo:

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Email
Print

Lascia un commento:

Iscriviti alla nostra newsletter

Ogni settimana riceverai i nostri aggiornamenti e nulla di più.

Torna in alto