IL RISCATTO/VI – romanzo di Piero Nicola

 

IL RISCATTO

di Piero Nicola

romanzo

 

Capitolo sesto

 

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Giovedì e venerdì la crisi di astinenza attanagliò la misera ragazza. Nelle requie dovute ai farmaci, la deprimevano e l’avvilivano le sensazioni di ineluttabile minorazione delle sue facoltà, di inettitudine, di vacuità infinita. Era esclusa da sostegno e sostentamento, essendo privata della linfa intossicante. Ripetevano che poteva farcela, le additavano gli esempi di quelli che lavoravano, si amavano, di nuovo inseriti in famiglia, nella società. Non ci credeva: portata a compiangere quegli esseri marchiati, reduci da un paradiso infernale destinato a perseguitarli indefinitamente. Se alcuni si erano strappati dall’abitudine inveterata involandosi nell’oblio, lei non era di quelli. Aveva l’immeritato, ottimo Fabio, ma il suo cuore estenuato e pauroso la faceva soffrire maggiormente. Il loro patto, soggetto scadere in qualsiasi momento, da un lato apportava il sollievo dai doveri, dall’altro le toglieva anche l’illusione d’un approdo protettivo. Il suo travaglio presente e il travaglio che l’aveva preceduto non ebbero modo d’essere resi nelle brevi telefonate, la prima delle quali pregiudicata da un malinteso e dall’osteria inospitale, la seconda troncata da frenesia e malore. Chi non ci fosse passato non era in grado di comprenderla. La condanna dell’incomprensione chiudeva il cerchio.

«Ti prego, non venire domani,» concluse piano, supplichevole, la sera del venerdì. «In questo momento sto meglio, ma ho paura… Non me la sento davvero, rimandiamo.»

«Paura di che?»

«Paura a giro d’orizzonte… irragionevole, caro, irragionevole.»

Fabio si astenne dall’insistere e dall’inquietarla, temendo di vanificare l’accordo dolce che gli era parso si fosse stabilito.

Il sabato nessuno dei due si fece vivo. Onde scongiurare un secondo insensato rinvio, deliberò di farle la sorpresa, preparato a usare le opportune precauzioni, inclusa quella di ritirarsi in buon ordine.

La giornata grigia e umida, sui monti delle Langhe rilasciò una fredda pioviggine. I pendii, ricoperti di stoppie e di vigneti dalle foglie rade e accartocciate, divennero boscosi. Sul fogliame degli alberi bruniti si cercava invano il bel colore rossiccio. Curva dopo curva, la strada svoltò in bruschi tornanti, prima che si affacciasse il borgo rurale, insignificante. Superate le case, dopo mezzo chilometro sorgeva la grande villa dell’Istituto. Fabio parcheggiò sullo spiazzo, che si espandeva tra il cancello del recinto e l’edificio di stile floreale, ampliato con ali moderne di semplice funzionalità. Era giunto in orario. Il contorno appariva mediocre, macchiato da segni d’incuria. Un movimento di visitatori andava dalle macchine alla corta scalea. Nel vestibolo, arredato con qualche pretesa di decoro, al banco del ricevimento un uomo di carnagione olivastra, il naso adunco, e una ragazza vispa esaminavano i sopraggiunti. La solerte impiegata, sentendo che non era parente, scorse una lista, consultò il collega; lo fecero aspettare. L’affollamento si diradò, una telefonata interna gli permise l’accesso, previo deposito della carta d’identità. «Di lì,» la ragazza belloccia gli sorrise simpatica mostrandogli la centrale porta a vetri, «corridoio a destra, stanza cinque… Arrivederci.»

Si avviò soprapensiero, senza aver fiatato. Il corridoio aveva il lambris scolorito, qua e là scrostato. Vi ristagnava un’aria d’odore indefinibile, sgradevole. Il pavimento di linoleum era logoro e opaco. Aprì l’anta socchiusa. Crebbe il vocio dei gruppi nel vasto parlatorio. Fabio ravvisò i genitori di Michela mentre scendevano sulle sedie rumorose. Seduti, la scoprirono: testa e busto stagliati sulla parete giallognola.

«Ah!» esclamò accorgendosi di lui, che era avanzato. «Non mi avevi detto che venivi,» trascurò di rispettare il suo scambio di convenevoli con la madre e col padre. Grazie a loro, doveva aver moderato il risentimento.

 

Lì per lì, il presunto fidanzato ebbe l’impulso di toglierle il disturbo e voltare i tacchi. Ma l’irritazione di Michela si era mutata in una smorfia triste, la scomparsa dell’avvivamento restituiva la sua immagine appassita nei patimenti.

«Ieri era più su di corda,» il padre mise bocca. «Oggi senti il tempo. È Così?» si sporse per farle una carezza.

«Bisogna assecondarla,» giudicò la madre; «lasciarla in pace,» ammiccò al giovane senza alcuna indulgenza.

«Sì, sì, la viziamo… la vizieremo… » il babbo volle metterla in burletta. Suo malgrado, gli spuntarono i lucciconi.

La sua metà gli affibbiò una gomitata: «Ma che fai? controllati!» sibilò sottovoce.

Michela era scesa col capo pesante. Si riscosse dalla sonnolenza:

«Uh, per piacere, finitela con questi discorsi.»

«Le dica lei qualcosa,» il babbo pregò Fabio, entrambi visibilmente in difficoltà. «Noi andiamo al distributore a prendere qualcosa. Se gradite, vi portiamo una bibita, un caffè.»

L’uno e l’altra rifiutarono.

Lui accostò la seggiola e le prese le mani, inerti sul grembo. Era ancora lei questa ragazza vinta, autolesionista, apatica, scontrosa? Avrebbe ancora attinto il fior fiore entro la sua spoglia?

«Smetti di arrenderti,» le disse fermamente. «Ti amo, e sarei felice di sposarti. Sposiamoci. Te lo chiedo con umiltà e semplicità.»

Lo slancio del gesto generoso fu una liberazione. Aveva annullato il problema del seguito temporale, delle conseguenze.

«Che cosa?» Michela portò il pugno a comprimere il petto, «sii gentile, non farmi star peggio di come sto.»

“Sii gentile,” aveva detto. Il tono, all’incirca incolore, non disdiceva il significato. D’un tratto, si sciolse in pianto, si fusero le sbarre che l’imprigionavano. Tuttavia respinse le care mani a lei tese.

L’emozione la sopraffece, l’esaurì. Crollò svenuta.

Una signora pratica del luogo chiamò un’infermiera. Riprese i sensi nel momento in cui i suoi rientravano. Il trambusto aveva separato Fabio da lei, che sorretta dall’infermiera e da un uomo di fatica dall’accento straniero, venne sistemata sopra una carrozzella. Soltanto ai congiunti era permesso di seguirla. Fabio proteso a raggiungerla, pervenne a mandarle un bacio e a farle intendere che le avrebbe telefonato. L’inferma lo fissò trasognata, sparì dietro la spalliera della carrozzina e dietro le schiene inghiottite dal vano d’una porta.

 

La risentì ogni sera. La voce malsicura, soffocata, denunciava il tormento della terapia. Le sue espressioni andavano lontano dalla fiducia e dalla capitale promessa che aveva riscosso da lui, ma una certa remissività riapriva il varco dell’aspettativa. Fabio la trattò con la circospezione d’un amatore che rimuove porcellane, pezzi unici di pregio inestimabile. Il sabato, nel di lei essere prostrato e tribolato baluginarono i conati dello spirito vitale. L’aveva trovata esposta a un raggio di sole che dalla finestra le pioveva sul fianco; le incrudiva il profilo e nello stesso tempo la ravvivava.

A quattr’occhi – a casa aveva raccomandato di non venire alla Villa – conversarono di viaggi e vacanze, vagheggiarono gite e visite a monumenti, noti a lui o a lei, o che entrambi aspiravano a conoscere. Quella medicina ottenne un indizio di corrispondenza rinnovata e profonda. L’ora volò.

Tacitamente, si ripromisero di non tentare la sorte l’indomani. “Non ha accennato a domani. È il nostro segreto, la nostra magia,” rifletté Fabio guidando: “accontentarsi… del fior fiore, che può sembrare labile superficie; e portarcelo dentro.”

 

La domenica mattina Fabio stava inscatolando le ultime bottiglie dello scaffale, quando Guido lo chiamò.

«Vediamoci adesso,» chiese, «ho da darti una notizia non buona. Ti aspetto in piazza.»

«Finirei un lavoro in cantina… Ma che c’è di nuovo?»

«Lo vedrai. Se non è un lavoro urgente, lascia stare. Così ci sbrighiamo prima di pranzo.»

«Fai il misterioso? Va bene, pranziamo insieme alla Stazione?»

«Sì, conoscerai Mary, la mia… ragazza.»

«È straniera?» chiese inopinatamente.

«È di qui, di Nizza.»

Arrivato in piazza, Guido salì in macchina. Un paesano gli aveva dato un passaggio.

«Andiamo al Bricco,» disse. «T’hanno tagliato le viti.»

«Tutte?» domandò, preparandosi a incassare il colpo e mentre indovinava chi fosse il danneggiatore.

«Tutte.»

«Quasi mille piante.»

«I giorni scorsi era sereno, di notte splendeva la luna.»

Guido aveva appreso il fattaccio da un contadino di quei paraggi, al quale aveva misurato un confine. Presa visione dell’entità del danno, se ne era sparsa la voce, sebbene non fosse giunta alle orecchie del diretto interessato.

Sul posto, il proprietario calzò gli stivali che teneva nel bagagliaio e scese nella capezzagna fangosa, ispezionò le testate dei filari, percorse un intero interfilare. Nemmeno un ceppo si era salvato dal taglio della roncola o d’una mannaia. Sarebbe stato superfluo setacciare l’intera piantagione. Un uomo non aveva potuto farcela da solo a perpetrare lo scempio. Risalì la china, s’inerpicò sulla proda, mise piede sull’asfalto.

«Coraggio, fra tre anni riavrai l’uva.»

«Già, tre o quattro anni, e un magro inizio di produzione… Va dentro che fa freddo.»

«Fai la denuncia?»

Togliendosi gli stivali seduto con le gambe fuori della portiera:

«Certamente,» disse, «e dichiaro di avere un sospetto. Che sia stato Berto lo sappiamo… »

«In giro lo sanno, ne sanno delle belle, però nessuno parla. In queste condizioni adiamoci cauti.»

«Non ho paura.»

C’era da dubitare della sua temerarietà. Il discorso cadde nel silenzio.

«Allora, raccontami della tua fiamma,» Fabio rinforzò il concetto guardandolo in tralice. «Di cosa si occupa? È signorina?… »

«Signorina!» esclamò sorridendo alla scanzonata allusione, «fai ridere. Trovami una… signorina.

A parte il fatto che Mary compie adesso ventisette anni, ha una bottega di merceria dalle parti del Municipio ed è una vedovella.»

«E io mi presento al suo compleanno a mani vuote?»

«Mica eri informato. Non darti pensiero… Sono le dodici e mezza. E poi il suo compleanno sarebbe dopodomani.»

«Magari due amaretti col fiocco… »

«No, chiarisco io. Sarà felice di conoscerti. Le ho parlato di te.. e Michela, come sta?» soggiunse,

«si è ambientata a Villa Confidence?»

Va rimettendosi. Ci vorrà del tempo.»

 

Dallo sportello del vagone venne giù, in bilico sui tacchi, la “vedovella” alta e dotata, chioma fluente, ovale lungo e improntato a fierezza. La sua serietà, seguendo attorno lo sguardo cercatore, s’aprì in uno schietto sorriso. Fabio misurò i passi su quelli del compagno menomato. A metà della distanza che li separava sulla banchina, avvennero le manifestazioni cordiali, debite e piacevoli della conoscenza, e quelle fugacemente amorevoli. Mary indossava un classico soprabito marrone, intonato alla capigliatura castana. Allo scollo faceva riscontro una collana di perle.

Nel puntare al vicino ristorante, a cui Fabio forniva il dolcetto:

«Hai viaggiato a tuo agio?» il suo cavaliere la burlò.

«Se mi fai prendere il treno un’altra volta,» minacciò con l’accento profondo che la distingueva,

«sarà una rappresaglia inaudita.»

«Non le credere,» Guido disse sicuro, «si atteggia a dura, ma è una brava figliola.»

«Il cielo ce ne scampi dalle brave ragazze,» rincarò la dose il genovese.

«Voi due, mascalzoni… »

Ma erano alla soglia della trattoria. Guido spinse la porta, che soffiò calore odoroso dall’interna animazione.

A tavola l’invitato non ebbe a pentirsi della sua parte d’uno che regge il moccolo. Mary era una buona forchetta, centellinava il vino, disse dei suoi che erano d’origine lombarda e, in pensione, vivevano da esiliati nei pressi di Lisbona.

«Portogallo, esilio dei Savoia,» disse Fabio.

«Di re o di papi, sempre esilio è,» lei ribatté. «Infatti loro mi appendono nei quadretti, sulle pareti del loro confino, sopra… la nostalgia della patria.»

Sua sorella sposata a Miami, giocata dalla prodigalità e dalla leggerezza, sfarfallava intorno ai pali dei night per la ricreazione dei solitari. Mary dimostrò spirito e un’educazione fuori dal comune, a dispetto delle sgarbate uscite di ostentato cinismo. Un riferimento alla cascina le fece rammentare le disavventure toccate all’agricoltore: la rapina cruenta, l’angosciante crollo dell’amata; partecipò con tanto d’occhi intelligenti. Le vedute della coppia in cantiere, che visibilmente sorvegliava e inibiva i trasporti sentimentali, collimavano, a prima vista e secondo l’intuizione. Su qualche punto i gusti divergevano, per esempio circa il mare e la montagna, per la precisione, riguardo al genere di litorale e alla specie di zona alpina. Anche Guido era stato in Algarve, che a lei andava a genio e lui detestava cordialmente; ma sarebbe stato augurabile che fossero due copie equivalenti, maschile e femminile? Di per sé, la diversità dei sessi avrebbe escluso quella possibilità, però anche nella possibile affinità elettiva il troppo stroppia. L’ispirazione di tali concetti stupì, edificò lo spettatore, interessato allo sviluppo dell’idillio.

La vedova consolata assaggiò la punta della fetta di torta, bagnò la bocca nel calice dello spumante, dopo i cincin augurali.

«Sono poco amica dei dolci.»

«Sarà una donna amara,» opinò il baldo biondone.

«Preferisci le sdolcinate burro e miele?»

«Il tipo Marylin Monroe m’ha sempre lasciato freddo.»

«L’avevo previsto.»

Come furono all’aperto, lei si accese una sigaretta.

«Disturba il fumo?» ironizzò. «Mio padre dice che i non fumatori, quelli che non hanno vizi, sono individui pericolosi.»

«Parli di vizi nel terzo millennio?» Fabio la riprese, «non sai che il vizio è stato abolito?»

«Preferisco essere retrograda piuttosto che una scema carta assorbente.»

Accanto all’auto di Guido, portata fuori dalla rimessa (non erano saliti in casa dalla madre):

«Carissimo ruvido genovese,» Mary lo salutò senza contatto fra loro, «ti voglio per amico, se te la senti. Se il mio amore è geloso, peggio per lui. Che ne capisce lui delle esigenze delle donne? Un amico sincero per noi è un’assicurazione impagabile.»

Era il suo primo segnale di sotterraneo smarrimento.

Il motore acceso ancora al minimo: «Aspetta,» si sentì che diceva, «mettimi il disco dei notturni di Chopin.»

Fecero «Ciao» attraverso i vetri. La vettura filò via.

«Ma che strana merciaia!» Fabio disse forte, come i folli che parlano in strada. Un passante si voltò. «Ah! Ah!» rise noncurante, neanche fosse ubriaco.

Cominciarono a cadere delle gocce. L’annerita cappa del cielo era satura, senza remissione. Corse all’auto. Il previsto maltempo doveva stillare uggia nei prossimi tre o quattro giorni.

 

Il grosso maresciallo dei carabinieri prese in considerazione la denuncia, la scrisse sottolineando con brusche schiacciate dei tasti “avanza il semplice sospetto”, riguardo a Berto Tosatti.

«Quest’uomo non è immacolato,» il militare rialzò la testa, «però è scaltro. Difficile incastrarlo.

Risulta che abbia commesso anche delle violenze mai denunciate. Vedremo il da farsi.»

Firmando il foglio, il danneggiato nutriva microscopiche speranze d’avere soddisfazione. Non che al suo arrivo le avesse avute molto più grandi.

 

Il villaggio e i dintorni dormivano, semidisabitati. Si scorgevano radi, sui tetti, i comignoli fumanti. Resisteva a stento il negozio di alimentari; nell’osteria stazionavano i soliti quattro gatti.

Eccettuato il traffico saltuario presso la Cantina Sociale, specie in autunno inoltrato, ma fin dalla rapida conclusione della vendemmia, a diverse ore del giorno il passaggio di veicoli e pedoni era una rarità. In quella che un tempo, estesa sotto le mura, era stata la viuzza dei poveri, lavoratori a giornata e donne di servizio, alcuni abituri rimodernati e rabberciati a partire dagli anni Cinquanta erano dimora di extracomunitari che si recavano altrove, per lo più nelle cittadine, e ricomparivano la sera.

Fabio amava il villaggio quale un vestigio della sua prima gioventù e della sua stirpe. La discendenza dagli avi si era talmente assottigliata, il suo nome e quello di molte altre famiglie si erano dispersi altrove e si smarrivano talmente nel passato, che a volte gli pareva di aggirarsi in una di quelle città morte, dove è dato di sostare soltanto. Sentiva l’arcano dei ruderi in ciò che rimaneva in piedi vuoto, o tenuto in sesto e disertato. Domandava ai vecchi quello che ci fosse stato prima d’una sostituzione, d’un ampliamento, d’un rifacimento (pur sempre limitati). Individuava ovunque un antico brano di fabbrica, lo riconosceva in un restauro. Chiese delucidazioni agli ottuagenari.

Raccolse le storie tramandate, gli aneddoti riguardanti i suoi ascendenti, le epiche partite di pallone elastico disputate da suo nonno e dal suo bisnonno nella spianata sotto le mura. Li aveva conosciuti in qualche fotografia, in due di esse si mostravano fieri nella loro tenuta di gioco bianca e col pugno fasciato.

Una vecchina gli aveva decantato la devozione di nonna Adele, l’unica dei Gentili che fosse stata assidua alle funzioni religiose, trapassata a Genova, nostalgica della chiesa e del paese, poco dopo il suo ritiro nel nido della nuora. Fabio bambino timido aveva venerato quella figura adusta, che ora rivedeva ombra, rudere della donna vissuta nei suoi giorni pieni a Roccaspina.

Da Toni il nipote s’intratteneva a lungo con Luigi, contadino novantenne, pozzo di esperienze e di storia non artefatta; perché c’erano anziani che con lo sguardo retrospettivo rinnegavano il tempo della loro giovinezza a causa delle fatiche, delle privazioni, screditandolo probabilmente nel timore d’essere indotti a rammaricarsi d’aver creduto nel benessere, nel suo roseo avvenire. Costoro eccepivano che anche a quell’epoca si soggiaceva a soprusi, i farabutti facevano affari sporchi, la cronaca nera prosperava. Quasi che fosse fattibile, una volta o l’altra, il mondo pulito, equo, in tutto soddisfacente.

Guido, data la sua professione, era addentro nelle cose comunali, sapeva molto delle strutture del borgo e della sua vicenda secolare. Però spesso stava nello studio della canonica o in quello di casa alla Stazione, dove sua madre gli dava un aiuto; passava da sparsi committenti di pratiche, di progetti, e nei vari uffici amministrativi; si occupava dei cantieri; infine partiva per Nizza, per rilevare Mary alla chiusura della merceria.

In tal guisa attingendo dalle memorie, dai muri, dalla chiesona, monumento ottocentesco a sé stante, e dalla cornice delle colline, figura della bellezza naturale prossima al mistero originale, Fabio viveva sapide le ore trascorse a Roccaspina: un ristoro tra gli influssi della felicità minacciata, impedita, e delle sollecitudini connesse a Michela. Talora nel suo grato distacco l’impressione di lei gli tornava felicemente intatta.

Mercé le imponderabili onde del destino, con lei s’instaurò un continuo di telefonate corte, nette e succose, tra gl’incontri di fine settimana sempre più ambiti in seguito al superamento della crisi e a grado dei miglioramenti. Si nutriva, aveva preso un atteggiamento attivo, che scalzava la svogliatezza, eseguendo la ginnastica terapeutica; denotava partecipazione alle mansioni svolte attorno a un telaio; ancorché avesse di che lamentarsi dell’andamento generale del Centro e stentasse a stringere amicizie, perseguitata com’era da una diffidenza di vecchia data. Aveva assistito a sotterfugi, a mancanze, a favoritismi, a porcherie e scappate subito coperte. Tuttavia s’indovinava una sua nativa o acquisita repulsa delle lagnanze. Dire che fosse rifiorita sarebbe stata un’esagerazione, ma il giovamento avuto era notevole. L’averlo spiato per settimane con l’ansia che si avverasse, ne aveva fatto perdere la misura. La sua ripresa, avvenuta passo passo nella consuetudine degli incontri, combaciante coi voti espressi, giunse normale. Lo star bene o quasi bene sembrando normale e debito, faceva scordare l’ingrata pena del suo ricupero. E quando mamma Rebuffo, venendo via dalla Villa disse: «Mi sembra un miracolo che se la stia cavando,» gli uomini si guardarono meravigliati.

S’annunciava il Natale. Per quella data, a una parte degli ospiti veniva concesso un provvisorio ritorno a casa. La direttrice, asciutta e antipatica, schiuse lo spiraglio all’attesa che Michela fosse nella lista dei fortunati. Disgraziatamente le cose andarono a rovescio. Nell’Istituto circolava l’influenza, nonostante le vaccinazioni antinfluenzali. Lei la prese con febbre alta. Il medico prescrisse antipiretico e antibiotico. I genitori non si assunsero la responsabilità di portarla ad Alessandria in condizioni precarie. Le visite all’ammalata furono sospese. Per Fabio fu un Natale desolante. Aveva declinato l’invito dei Rebuffo a festeggiarlo con loro insieme alla figlia Nora e ai nipotini, venuti da Torino. Guido e Mary erano uccelli migrati nei Mari del Sud.

Il solitario agricoltore pranzò alla Stazione in mezzo a gruppi in festa, a contatto di gomito con la tavolata d’una famiglia che andava dai nonni ai bambini irrequieti, per giunta puntato da occhi di donna abbiosciati e indiscreti. Genio, il trattore affaccendato, gli dedicò un complimento per il vestito e per la cravatta, e una strizzata d’occhio incoraggiante, poiché il suo fornitore di dolcetto aveva a stento alzato la fronte alla socievolezza. Alla cascina, la morta invendicata gli aveva proibito di appendere i festoni di luci colorate. Nel soggiorno l’albero addobbato e scintillante, Santina l’aveva rinvenuto nella stanza-ripostiglio e imposto al suo umor nero, che lui non avrebbe saputo giustificare. Nel confronto delle consolazioni e delle inferiori contrarietà, la malignità di queste esercitava l’oscuro predominio. “Mi passerà” meditò di sfuggita, per sfuggire all’assurda, invincibile debolezza.

.

(continua)

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