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Alla maggior opera di Tolkien è stata conferita la qualifica di capolavoro ineguagliabile, edificante (anche a parere di molti tradizionalisti cristiani), per quanto alcuni critici l’abbiano giudicata negativamente sotto vari aspetti. Tre sono i suoi aspetti principali: riguardo al valore letterario, riguardo a quello morale e riguardo a quello religioso; benché gli ultimi due non possano andare disgiunti. Infatti, se il libro lede la Religione, sarà anche inficiata la sua etica.

È fuor di dubbio che l’autore abbia rappresentato un mondo fantastico, epico, in certo qual modo mitologico, con un significato che non ammette un alibi rispetto alla Verità intera, rispetto a Dio vero. Si ammette la favola e la leggenda, anche popolata di esseri inverosimili, ma il tutto deve rientrare nell’ordine della Rivelazione. Il Male fa capo al demonio, il Bene fa capo all’Onnipotente. L’allegoria può proporre animali, fantasmi e personaggi mai esistiti e inesistenti, tuttavia con significati conformi al disegno della Creazione. Il bestiario cattolico in parte fu testimoniato come reale e miracoloso, oppure le sue rappresentazioni immaginarie e simboliche vennero accolte essendo ortodosse.

Tolkien, figlio della Chiesa, sebbene abbia inteso rivendicare l’ortodossia dei suoi romanzi, purtroppo escluse da essi il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, la Madonna e i Santi, a differenza di quanto fecero i cristiani creatori di leggende (da non confondersi con le tradizioni). Non basta che egli abbia rispettato le virtù, bollato i vizi, distinto la giustizia dall’iniquità, esaltato la fedeltà e la generosità, proposto la nobile lotta dei buoni contro i malvagi. Anzi, privo del battesimo, il giusto, o giustificato, è partorito dall’eresia di Pelagio. Riguardo a certe razze che abitano la Terra di Mezzo – al di fuori degli Uomini e di Hobbit, Nani, Uomini-alberi, stregoni – gli Elfi sono puri affatto, mentre Orchetti e altri personaggi malefici (sebbene abbiano un carattere umano essendo considerati colpevoli) sono condannati alla cattiveria, non appaiono suscettibili di redenzione. E neppure troviamo un religioso paganesimo, assai ignaro di Dio. La superiore divinità è assente; quando, per un cattolico, nello spazio e nel tempo niente può esistere esulando da Dio. Volendo coniare un proverbio, diciamo: Sbriglia l’estro fantastico dell’io, ma non dimenticarti del Buon Dio.

La storia, situata in un mondo ancestrale e già decaduto in una Terza Età, si riassume con la missione condotta da un Hobbit, assistito da un mago, da alcuni compagni e da nobili signori, rivolta a salvare quella Terra da un regno maligno e mostruoso. Frodo, campione del minuto, modesto e gioviale popolo degli Hobbit, accompagnato dal fido servitore, perviene a distruggere l’Anello del potere, fatto precipitare nel cratere ardente che si trova nell’orribile paese delle tenebre, governato dal Nemico Sauron. Rimane assai misterioso il nesso tra la sconfitta di questi, tra la disfatta del suo mostruoso esercito, e l’eliminazione del magico Anello, che è malefico in qualunque mani venga a trovarsi, essendo vincolato a Sauron; come difetta la spiegazione di altri fenomeni e situazioni, nonostante il solido complesso del lungo racconto suddiviso in tre tomi.

Quanto al pregio letterario, l’opera si situa nel genere avventuroso destinato ai ragazzi e agli adulti che prediligono tale narrativa dell’immaginario. Mutatis mutandis, cioè sostituendo ai prodigi di razze e poteri extranaturali le invenzioni avveniristiche parascientifiche, Tolkien può paragonarsi a un Giulio Verne. E la sua bravura di scrittore, i suoi pregi stilistici (con qualche flessione) non lo elevano certo al di sopra dei molti bravi artisti della penna. Per eccellere non bastano certi giochi di prestigio metaforici, più o meno originali (“il sole era tramontato, affondando dietro l’orlo del mondo”; “il cielo era ancora rosso, e una luce incandescente covava sotto le nubi galleggianti”; “gonfie praterie ondulate come un grande mare grigio”; “il fiume largo e stanco fra banchi sabbiosi ed alte terrazze erbose”; “il giorno invecchiato”). D’altra parte, è innegabile l’eccesso dei dettagli (“faceva caldo rispetto alla stagione in cui erano”), la prolissità di parecchie descrizioni, il numero stragrande degli esseri straordinari dotati d’eccezionali qualità, la superfluità di vicende che li vedono protagonisti (p.e. circa gli Ent, esseri mezzo umani e mezzo alberi) e, in generale, la pletora di avvenimenti incalzanti e di sorprese, con episodi che sanno di riempitivo (p.e. Sire Aragorn per abbreviare il cammino attraversa una regione detta Sentieri dei Morti, dove si verificano spaventose e di regola irresistibili apparizioni di spettri, in seguito arruolati nella guerra contro gli invasori). Se ciò lusinga l’interesse degli appassionati di imprevisti e di casi stupefacenti, contribuisce a togliere l’ampio respiro agli avvenimenti eroici e poetici. La trama predispone la molteplicità delle avventure; eventi contrari scompaginano presto la Compagnia dell’Anello; il viaggio dei suoi elementi si dirama e talvolta si ricongiunge. Ma l’epopea delle gesta e delle vaste ambientazioni risulta diminuita. La grande varietà dei paesaggi incredibili e poco funzionali alla narrazione finisce per essere stucchevole. C’è pure qualche Arrivano i nostri! che scongiura una sconfitta irreparabile. Né mancano le incongruenze, benché quasi inevitabili in tanta finzione: due a cavallo, veloci come il vento, conversano quasi fossero in un salotto. 

Che Il Signore degli Anelli fosse sostanzialmente per ragazzi lo dice il fatto che di tanti soggetti perversi e posseduti da brame, non uno di loro manifesta voglie sessuali, la concupiscenza; inoltre  di essi scompaiono le famiglie. Mal si concilia poi il coraggio e la generosità degli Hobbit con le loro paure e terrori. La scena in cui il servo Sam sta accanto all’adorato padrone Frodo, creduto ucciso dal mostro, è assai debole: scarsa emotività di Sam, dolore poco e male rappresentato, prevalendo la preoccupazione per se stesso e per la missione da portare a termine (cfr. La Due Torri. pag. 377-378). Viceversa il personaggio di Gollum, che contiene in sé Sméagol, è geniale e inedito. Gollum, fisicamente sgraziato e unico esemplare di tale razza, servile e infido dovendo sottomettersi, si rivolge spesso apertamente alla sua seconda personalità, ragiona, discute con essa, e nella sua viltà riesce spassoso. Altrettanto originale e azzeccato troviamo Barbalbero, la sorta di albero semovente animato al pari di un uomo, bonario ma un rullo compressore, quando si tratta di fare giustizia. Tuttavia ripeto che la sovrabbondanza di soggetti e di situazioni, insieme agli innumerevoli prodigi e ai luoghi strabilianti ad ogni piè sospinto, va a detrimento dell’essenziale armonia, del punto di vista distaccato necessario al pathos. La vicenda avventurosa e guerresca risente del truce, dell’oscuro, del truculento, del ripugnante, relativi ai posti spaventevoli e agli orridi avversari, restringendosi così lo spazio del meraviglioso. La parola tetro predomina e ricorre a iosa.

Vi sono pure squarci di sereno, per lo più melanconici, come nel finale in cui Frodo si stacca da colui che è il caro amico prima d’essere il servitore, e lascia la patria Contea per imbarcarsi con lo stregone su un misterioso vascello. La partenza prefigura l’approdo a un lido alieno dalla Terra di Mezzo, adatto a chi ormai deve trascenderla. Infine il tono della breve Appendice la fa esulare alquanto dal racconto per la gioventù, riepilogando la storia di Aragorn erede dell’antico Regno, del quale riacquista il possesso, e della sua amata Arwen, che per amore rinuncia alla condizione privilegiata di elfica, accettando di divenire mortale sposando il Re.

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