La fine dell’anno reca sempre bilanci e previsioni; sotto il profilo economico, finanziario e strategico la pentola bolle e molti eventi determineranno cambiamenti importanti. La Borsa è in discesa, tanto da avere perduto in tre mesi i rialzi di un anno. Le quotazioni del petrolio crollano, il greggio Wti light è sceso a 42 dollari al barile, un crollo del 40 per cento in pochi mesi. Sullo sfondo, la previsione al ribasso di lungo periodo per l’irruzione sul mercato del gas di scisto statunitense, che cambierà completamente gli equilibri del settore, con evidenti ricadute geopolitiche e strategiche. A fari spenti, aumenta il prezzo dell’oro, ormai stabilmente oltre i 1.260 dollari l’oncia, mentre la contesa doganale tra Usa e Cina registra nuovi episodi. Non solo persiste la guerra per le reti di telecomunicazione 5G (a proposito, si moltiplicano le voci della pericolosità del sistema, che avrebbe indotto al disimpegno alcuni gruppi assicurativi), continua la partita dei dazi contrapposti tra le due superpotenze, e affiora la scelta di Trump di ritiro dal Medio Oriente, una mossa gradita a Mosca, che l’amministrazione Usa vorrebbe allontanare dall’abbraccio cinese.

Le previsioni finanziarie volgono al pessimismo, forse non a breve termine, ma lo scenario è oscuro. Desta timore la crescita costante del debito privato, che potrebbe innescare una crisi molto seria. C’è già chi paragona la realtà attuale a quella precedente il caso Lehman Brothers. Nulla tuttavia giustifica il panico in termini di economia reale americana, riferimento del sistema internazionale. La tempesta finanziaria, se ci sarà, avviene in una situazione di pieno impiego e di recupero produttivo. Le stesse scaramucce tariffarie tra Cina e Usa non sono così gravi da giustificare una preoccupazione così estesa.

Contro i principi elementari della logica economica, le quotazioni di Wall Street al tempo della Grande Recessione erano in crescita da anni senza interruzioni nonostante l’economia reale precipitasse. Assurdo, come l’intero castello dell’economia di carta, anzi di grafici e algoritmi che domina il XXI secolo. Quello attuale, a detta di molti, è un effetto imprevisto dell’invenzione dei demiurghi monetari, la flessibilizzazione quantitativa che in Italia, privi di vocabolario, chiamiamo quantitative easing. Una medicina che non era stata mai somministrata ad alcun malato e le cui controindicazioni erano dunque ignote ai banchieri centrali e ai governi. Non è strano che Trump abbia attaccato le scelte della Federal Reserve, longa manus della cupola finanziaria privata; è semmai un segno vergognoso dei tempi che il responsabile politico più potente della terra conti meno di un pugno di banchieri centrali e delle grandi famiglie di speculatori.

Il calo dei mercati di queste settimane ha una spiegazione superficiale, il rialzo dei tassi d’interesse da parte della Fed e un’altra più profonda, relativa alle conseguenze impreviste delle misure finanziarie applicate dopo la batosta del 2008. All’epoca, si procedette secondo il protocollo abituale di tutte le recessioni, abbassando gli interessi. Il problema è che i tassi possono arrivare allo zero ma non possono continuare a scavare sottoterra senza conseguenze. Poiché la recessione risultò più grave delle precedenti, quando gli interessi si infransero al suolo si dovettero inventare in gran fretta nuove ricette. Il risultato fu che la Fed – seguita dalla Banca Centrale Europea – fabbricò dal nulla miliardi su miliardi per comprare gli attivi tossici delle banche private.

Presto fu chiaro che le banche impiegavano quel denaro non per dare ossigeno al sistema economico, ma per comprare titoli di Stato, l’affare più semplice e sicuro del mondo. A quel punto la Fed decise di utilizzare altri miliardi per comprare direttamente il debito dello Stato, ciò che ufficialmente sarebbe vietato alla BCE per l’assurdo statuto inserito nei trattati dell’UE. L’intento era abbassare la redditività dei titoli di Stato per renderli poco attrattivi al sistema bancario. L’obiettivo fu conseguito e il sistema finanziario si è trovato con miliardi di dollari caduti dal cielo, una sorta di “helicopter money” alla Milton Friedman. Senza troppe riflessioni, quelle somme sono andate a gonfiare le quotazioni di Wall Street, ovvero ad alimentare un’altra bolla, quella di cui cominciamo a osservare le crepe.

Il neoliberismo non ha imparato nulla dal mostro finanziario che ha generato, non ha chiesto perdono per i danni causati e approfitta dello sconcerto generale per continuare il regolamento di conti con la gente comune. I suoi referenti politici, economici e intellettuali continuano a (fingere di) non comprendere il ruolo dell’emissione monetaria e del debito privato nell’economia globale, con la complicità dei mezzi di comunicazione asserviti, i quali, come le tre scimmiette, non vedono, non sentono, non parlano. I fatti, una volta di più, si incaricheranno di produrre conseguenze, ma le oligarchie continueranno a eludere le responsabilità senza modificare le loro politiche distopiche. La crisi che si avvicina girerà di nuovo attorno agli effetti perversi del debito privato, ma la differenza è che stavolta il punto di rottura non saranno le banche, ma le grandi imprese. I mercati hanno già lanciato segnali nell’ultima parte dell’anno, il rischio è che il 2019 riservi emozioni ancora più forti.

Le teorie economiche dominanti, presentate nei manuali accademici e negli articoli degli specialisti come verità indiscutibili, in realtà non sono che pseudoscienza. Una riguarda il ruolo attribuito dall’ortodossia al denaro e al debito privato, un’altra è l’obiettivo ultimo dell’impresa capitalistica, la massimizzazione del valore azionario. Insieme, finiscono per convergere come fattore scatenante della probabile crisi del debito privato. Gli economisti mainstream seguitano a trascurare il rapporto funzionale tra banche, denaro e debito privato, elementi essenziali di un’economia di mercato, che devono quindi essere inseriti come variabili nei modelli economici. Tentare di descrivere e prevedere il comportamento di un’economia capitalistica senza includervi tali banche, denaro e debito è come disegnare un aereo senza ali.

Il motivo per cui una modifica nel tasso di crescita del debito privato porta a nuove crisi è che quel debito innalza la domanda aggregata. Quando una banca presta denaro, crea capacità di spesa generando simultaneamente un deposito. Il denaro (virtuale) addizionale va a sommarsi alla capacità di spesa del ricevente senza ridurre quella dei risparmiatori. In definitiva, la crescita del credito può espandere la domanda aggregata. Anziché prodursi una equivalenza tra domanda e offerta aggregata, se cresce il debito la domanda aggregata eccederà l’offerta, mentre scenderà al di sotto dell’offerta se il debito cala. Questo raccontano i fatti, ma la teoria economica classica continua a considerare le banche semplici intermediari tra risparmiatori e richiedenti prestiti.

Il prestito, insegnano, aumenta la capacità di spesa del richiedente ma riduce quella del risparmiatore. Se il modello corrispondesse a verità, gli effetti macroeconomici del debito sarebbero cancellati. Tuttavia, esistono prove schiaccianti della falsità dell’assunto, dimostrate da economisti come Basil Moore e il neokeynesiano Hyman Minsky. Il prestito è un’iscrizione contabile che crea denaro dal nulla, il depositante non è più un risparmiatore, ma un investitore, come dimostrano gli innumerevoli cartigli che è costretto a sottoscrivere, a comprova che il rischio è tutto suo, compresa l’insolvenza della banca, cui dovrà far fronte in base alla legge detta bail in.

Un’altra pessima idea convenzionale, che spiega altresì molteplici frodi contabili, è l’assolutizzazione del valore azionario. La massimizzazione del valore dell’azione come sola missione dell’impresa risale a un intervento di Milton Friedman del 1970, nel quale si teorizzava un’unica responsabilità sociale, utilizzare le risorse per partecipare ad attività orientate a aumentare i profitti. Dagli anni 80, l’imposizione della teoria neoclassica si tradusse nell’imperativo, per i dirigenti d’azienda, di massimizzare a breve termine il profitto degli azionisti. Sono fin troppo chiare le implicazioni e i guasti prodotti nell’intera società dal diffondersi esclusivo e ideologico di tale concezione d’impresa.

Uno dei massimi strateghi di gestione patrimoniale del mondo, James Montier, ne sottolinea alcuni. Innanzitutto la diminuzione degli investimenti delle imprese; la disuguaglianza crescente e, collegata al punto precedente, la costante diminuzione percentuale del fattore lavoro all’interno del PIL. Alla fine, la deresponsabilizzazione sociale dell’impresa e la corsa all’incremento più rapido possibile del valore delle azioni è servita per remunerare in maniera immeritata e parassitaria i consigli di amministrazione delle imprese di mezzo mondo, gonfiare a dismisura i premi del management, oltreché rendere di routine attività atipiche come il riacquisto di azioni proprie e /o nuove acquisizioni per via di indebitamento, ossia l’abitudine di realizzare operazioni non con fondi propri. Il rischio è ovviamente l’insolvenza.

La bufera possibile riguarderà dunque le imprese, non poche delle quali hanno inondato il mercato con titoli, azioni e obbligazioni spazzatura. Contemporaneamente molti bilanci di imprese finanziarie si sono appesantiti di prestiti ad alto rendimento e garanzie limitate. Un debito a rischio elevato collocato per una buona metà in compagnie di assicurazione e fondi pensione. Chi ha esteso queste pratiche sono state le cosiddette banche di sistema, quelle too big to fail, troppo grandi per fallire, tanto ci pensano i governi, cioè i contribuenti, a pagare il conto a piè di lista, ed è in questo contesto che le banche centrali cercano di normalizzare le loro attività, ovvero porre fine a misure “temporali e straordinarie” come il quantitative easing, cioè, lo ribadiamo, la creazione dal nulla di denaro che resta nelle fauci del sistema creditizio.

Le imprese di gran parte del mondo si stanno svenando in un fiume di debiti. Hanno acceso prestiti che non riusciranno a pagare se i tassi di interesse aumenteranno. Le banche di sistema hanno impacchettato e venduto prestiti a elevato leverage e buoni spazzatura, comprati come dolci in pasticceria da fondi pensione e compagnie di assicurazione alla disperata ricerca di rendimenti per far fronte a pagamenti di denaro “vero” in un panorama di interessi zero. Abbiamo adesso imprese zombi, che si mantengono vive grazie ai bassi tassi di interesse e all’acquisto di titoli da parte delle banche con denaro fiat (quantitative easing): un mercato disfunzionale che, in un gioco di specchi, produce nuove bolle finanziarie.

Stavolta, Dio non voglia, non saranno le banche a scatenare un altro collasso finanziario, ma le aziende dell’economia reale che si sono dedicate al casinò dell’azzardo, e hanno manipolato i prezzi delle loro azioni con acquisizioni, e/o riacquisti senza fine dei propri titoli, operazioni finanziate con prestiti a tasso minimo o con emissioni di titoli spazzatura. Entro pochi mesi, forse un anno – questa è la previsione del fondo più grande di tutti, Black Rock – il castello di carte potrebbe crollare. Macerie e calcinacci si abbatteranno su aziende, governi e cittadini, mentre il sistema finanziario, una volta ancora, si ritroverà più forte di prima, avendo addebitato al mondo intero la fattura delle sue paranoie di onnipotenza. E’ la legge ferrea della finanza padrona, a meno che non capiti l’imprevisto, una svolta politica planetaria.

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1 commento su “La bolla del debito privato”

  1. Una delle mie convinzioni è che i sistemi finanziari siano UNO DEI POTERI FORTI che comandano il mondo.

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