La convivialità alla luce del Vangelo

“Sed cum facis convivium, voca pauperes, debiles, claudos, caecos; et beatus eris, quia non habent retribuire tibi …” (Lc 14, 13 – 14).

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Tutti quelli che mi conoscono sanno che ho un carattere molto socievole e che una delle più grandi gioie della mia vita è sempre stata la convivialità; non c’è per me piacere più grande che condividere una buona cena in un’allegra tavolata di amici e di parenti, conversando tra di noi su qualunque argomento, scambiandoci opinioni, approfondendo sempre di più la conoscenza reciproca, con l’aiuto di qualche buon manicaretto cucinato da me e di qualche ottimo vino. Non per nulla su questo argomento gli antichi Greci erano maestri (basti pensare al “Simposio” di Platone) e non per nulla tutti noi sappiamo che il momento più alto della Fede cristiana è rappresentato da quella Cena che Nostro Signore volle elevare alla dignità di Sacramento.

Tutto ciò, però, fino a che l’ “ingravescens aetas” e le conseguenti articolazioni sinistrate non hanno cominciato a protestare limitandomi, da un lato, sempre più questo piacere ma, da un altro, inducendomi a riflettere sul capitolo 14 del Vangelo secondo Luca, in cui mi sembra che Gesù dia una salutare tirata d’orecchi a molti di noi troppo ossequienti agli obblighi di società e soprattutto a quelli come me, cui è sempre piaciuto cucinare per gli amici e partecipare alla vita di relazione.

Come sempre, la situazione descritta nel Vangelo è modernissima perché riguarda un invito a pranzo. Un giorno di sabato, giorno di religioso riposo benedetto da Dio, Gesù entra in casa di un fariseo, un “pezzo grosso” di quella casta, che lo ha invitato a un banchetto. Per quale motivo lo avrà fatto costui? Per sincera stima e apprezzamento nei confronti del Maestro, o per metterlo alla prova? Luca non lo dice espressamente, perché lui non parla mai male dei farisei, ma nota che “la gente stava a osservarlo (Gesù). Davanti a lui stava un idropico” (Lc 14, 1 – 2), quindi ci autorizza a pensare che l’invito era stato programmato proprio per tendere un tranello al Signore.

Ma Gesù non si lascia certo intimidire: tanto per cominciare guarisce il malato e lo congeda, nonostante sia sabato e nel silenzio degli sbalorditi presenti che non hanno il coraggio di protestare assistendo a questa gravissima infrazione della Legge. Poi, rivolgendosi agli altri invitati, scopre i loro egoistici altarini: “Chi di voi, se un asino o un bue gli cade nel pozzo non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato?”. Gesù dimostra ai presenti che sono pronti a trasgredire la Legge del sabato per il proprio interesse o guadagno, come salvare un costoso animale da lavoro, ma non sono disponibili ad aiutare un essere umano malato. Infine – vedendo che gli invitati sceglievano senza ritegno né pudore i migliori posti a tavola – ne approfitta per rivolgere a loro, e a tutti noi, un insegnamento valido allora e valido ancora oggi, in un’epoca come la nostra che, quanto a buona educazione e a rispetto per il prossimo, non si direbbe che abbia fatto molti progressi rispetto all’epoca di Gesù. Non dobbiamo essere noi a scegliere il posto più comodo quando siamo invitati in casa altrui, ma lasciare che sia il padrone di casa a offrircelo ,“perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14, 11). Infatti l’umiltà è una virtù talmente necessaria ai fini della salvezza che Gesù si serve di ogni occasione per ricordarcelo. In questo caso si serve del comportamento osservato tra gli invitati a un pranzo per ribadire che nel “convito celeste” sarà Dio ad assegnarci il posto e non certo noi a sceglierlo.

Poi si rivolge al padrone di casa: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio” (v. 12). A questo punto io comincio ad entrare in crisi: “Mio Dio, ma non è proprio quello che facciamo tutti, quando invitiamo gli amici a casa nostra?”  Ma Gesù prosegue inesorabile: “Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la ricompensa alla resurrezione dei giusti” (vv. 13 – 14). Ora la mia crisi è totale. Sarei capace di invitare a pranzo a casa mia i mendicanti (o come dovrò chiamarli? Gli immigrati, gli extracomunitari, soprattutto africani … ) che, in tutta Roma, tendono il bicchierino di carta per chiedere ai passanti qualche euro “per mangiare”? No, mio Dio, lo riconosco umilmente davanti a Te e ai fratelli che mi leggono: non sono capace di invitare degli sconosciuti a casa mia; non sono una santa come il Vescovo Myriel – ne “I Miserabili” di Victor Hugo – che, dopo essere stato derubato delle posate d’argento dall’ex galeotto Jean Valjean, ne favorisce la redenzione in senso cristiano evitando di denunciarlo e regalandogli anche due preziosi candelabri[1].

E’ innegabile, però, che il modo di esprimersi di Gesù suoni abbastanza strano, perché nessuno si aspetterebbe, da parte Sua, lezioni di retto comportamento sociale. E infatti Gesù non vuole impartirci lezioni in questo senso: Lui non intende impedirci in assoluto di invitare le persone che ci sono care o simpatiche, ma vuole evidenziare la necessità di non dimenticare, nel corso della nostra vita, i più sfortunati, gli affamati, i malati, i deboli, quelli privi di voce. Il Suo è, come sempre, un invito alla metànoia, alla piena conversione, a uno stile di vita totalmente diverso dalle consuetudini.

Infatti, da che mondo è mondo, mangiare e bere insieme non riguarda solo la circostanza contingente di farlo alla stessa tavola, ma acquista il significato simbolico di unire le persone, di far loro condividere opinioni, interessi, gusti, sentimenti. Succede spesso (e io posso ben testimoniarlo) che proprio in questi momenti si stabilisca, tra i commensali, un’intesa particolare, una maggiore confidenzialità e ci si senta maggiormente disposti a rivelare gli stati interiori, le inquietudini e le gioie di cui è intessuta la vita di ciascuno di noi[2]. A questo livello, mangiare insieme oltrepassa i legami puramente carnali, parentali o sociali per istituirne altri più intensi ed espressivi. Tuttavia il discorso di Gesù  affronta un piano più elevato e spiritualmente sconcertante: invitare qualcuno a pranzo a casa propria significa “amarlo” e questo amore deve essere rivolto verso coloro che ne hanno più bisogno. Condividere il cibo con loro fa diventare nostri familiari e nostri amici anche i più sfortunati.

Mi torna in mente in proposito un episodio, venato di leggero umorismo, tratto dal Cap. 38 de “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni. Quando, verso la fine del romanzo, Renzo e Lucia  hanno visto risolversi tutti i loro problemi e possono finalmente sposarsi, il marchese erede del defunto don Rodrigo offre loro generosamente il pranzo di nozze nello stesso palazzo che era appartenuto al loro antico persecutore. “Il marchese fece loro una grande festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi … e prima di ritirarsi per pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a fare compagnia agl’invitati, e aiutò anche a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per brav’uomo, ma non per originale … v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento di umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari”. Con sottilissimo umorismo il Manzoni descrive un apprezzabile gesto di servizio, ma certamente non un amore totalmente evangelico e pienamente umile[3].

Ma perché Gesù fa queste raccomandazioni così strane alle orecchie del mondo? “Perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio” (v. 12). E’ la regola mondana del “do ut des”; è così che funziona la vita sociale, almeno a livello di “alta (o presunta tale) società”, di persone eleganti, di alta borghesia. In questo modo il gesto cortese dell’invito è ripagato; l’Amore resta racchiuso nell’egoismo di fondo e non ne esce più, proprio quello che Gesù non vuole che avvenga. Secondo la mentalità corrente, il rapporto con i poveri e gli svantaggiati non produce frutti utili e non accresce il prestigio sociale, eppure Gesù vuole che proprio essi siano i privilegiati nella scelta degli ospiti e si stabilisca con loro un rapporto di vera comunione.

Gesù promette al padrone di casa che, se eseguirà le sue proposte “sarà beato perché non hanno da ricambiare”. E la sua sarà la beatitudine che nasce dall’Amore totale, dalla vera “Agàpe” che, facendo assaporare agli altri la condivisione tra persone che si amano, mette in pratica le parole di Gesù che Luca riporta negli Atti degli Apostoli (20, 35), ma non citate nei Vangeli: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”. Gesù precisa anche che questa ricompensa non sarà di questo mondo, ma si attuerà alla “resurrezione dei giusti”, quando la vera “Agàpe”, autenticamente libera e gratuita, non potrà più essere limitata e condizionata da interessi, vantaggi personali o convenzioni, come  avvenne per il marchese erede di don Rodrigo, brav’uomo, ma anche uomo del suo tempo. Per questa ragione la Carità cristiana si sorregge e si alimenta nella Fede e nella Speranza: la Fede consente di riconoscere nei poveri gli amici e i fratelli più cari, la Speranza permette di amarli senza misura né compromesso, fino a che non avremo più bisogno né della Fede, né della Speranza perché vedremo Dio faccia a faccia e allora quella che rimarrà e opererà in eterno sarà l’Agàpe, la Carità, l’Amore.

Ma io che, come ho detto poc’anzi, non sono certo una santa, ma una cattolica “bambina” piena di difetti e debolezze, mi domando come si possa giungere a un atteggiamento così disinteressato e altruista e mi identifico con quel commensale che esclamò: “Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio!” (v. 15). Infatti quello proposto da Gesù sembra un modo di vivere umanamente impossibile e al di sopra delle capacità umane, attuabile solo dai grandi Santi. Gesù insegna a chi vuole essere Suo discepolo che l’ultima sua collocazione deve essere quella della totale umiltà, mentre l’uomo aspira sempre alla gloria e alle posizioni di onore. I grandi Santi, quelli che sono stati capaci di condividere il cibo e la tavola con i poveri e gli ammalati, sono riusciti a purificare il loro cuore nell’umiltà e l’amorosa accoglienza degli ultimi ha avuto per loro, come ricompensa, l’ingresso nel Regno di Dio.

I vv. 15 – 24 del Cap. 14 sviluppano l’aspetto escatologico dell’insegnamento di Gesù con la parabola degli invitati al banchetto celeste, dove sono raccolti a tavola poveri, storpi, zoppi e ciechi trovati sulle piazze e sulle vie della città, mentre i ricchi hanno rifiutato l’invito per motivi opportunistici. Innanzi a Dio che invita alla fede e all’adesione personale bisogna avere il coraggio di sacrificare ogni interesse umano, se questo impedisce la giusta risposta alla Sua chiamata: gli apparenti doveri di coloro che, nella parabola, rifiutano l’invito sono dei meri pretesti e rivelano la colpevolezza degli ingrati invitati. “Spingili ad entrare” ordina il Padrone al servo, non per obbligare qualcuno ad amare Dio per forza, ma per aiutare i nostri fratelli a scegliere il Bene, facendola finita una buona volta con il rispetto umano, con le occasioni di peccato e con l’ignoranza.  Si “spinge a entrare” con la preghiera, con l’amicizia, con l’esempio di una vera vita cristiana: in una parola, con l’apostolato.

Possa lo Spirito Santo renderci tutti capaci di tanto!

 

[1] A mia parziale scusante (se di scusante si può parlare) devo dire che anche il mio parroco è contrario a dare l’elemosina a quei poveretti per non favorire il racket che li sfrutta. Lui ci consiglia invece di aiutare, secondo le nostre possibilità, le organizzazioni come la Caritas o il piccolo fondo parrocchiale gestito direttamente da lui con le nostre offerte.

[2] Il Signore, che si serve sempre degli strumenti più impensati per ispirare al Bene i suoi figli, qualche anno fa si servì proprio di una cena a casa mia per  far riconciliare una giovane coppia, a me molto cara, che era giunta sull’orlo della separazione. Ringrazio Dio che si servì della cena da me preparata, particolarmente ben riuscita, e degli ottimi vini scelti da mio marito.

[3] Però questo brano mi suscita anche un pensiero malizioso e forse poco caritatevole. Sarà mai stato capace il conte Manzoni, “don Lisander”, di invitare anche lui a pranzo i poveri nella sua casa di via Morone o nella villa di Brusuglio e mangiare con loro “per istar loro in pari”? Le biografie non lo dicono, ma le convenzioni sociali dell’epoca erano ferree e probabilmente lo saranno state anche per lui …

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1 commento su “La convivialità alla luce del Vangelo”

  1. Di questi tempi, cara Signora, sarebbe un azzardo troppo grande far entrare in casa uno di quei poveri che in genere si incontrano agli ingressi dei supermercati, ma una volta non era così e quando i poveri bussavano alle porte delle case era perché erano poveri davvero e allora tutti, chi più, chi meno, donavano qualcosa. Da casa nostra nessuno se ne andava mai a mani vuote perché la mia mamma, pur non essendo noi particolarmente benestanti, era sempre pronta a dispensare o una cosa o un’altra. Ma un episodio non potrò mai dimenticare perché ero bambina e ai bambini certi fatti rimangono scolpiti nella mente: fu di un giorno in cui bussò un povero, giovane, bel ragazzo, mai visto prima. La mamma forse avrebbe voluto dargli qualche spicciolo, ma lui disse di aver fame, allora lei, senza esitazione, lo fece entrare, lo ospitò in cucina e gli mise davanti un bel piatto di lenticchie avanzate dal nostro pranzo di quel giorno. Ancora ricordo la felicità di quella persona mentre le divorava e il suo stupore dicendo di non averne mai provate prima. Se ne andò tranquillo lasciandoci più contente di lui per quella buona azione. Ed io, diventata grande, ho sempre b pensato e lo penso tuttora, che quel povero fosse un angelo venuto a casa nostra a farci la grazia di compiere un’opera buona.
    Tempi remotissimi, di un altro mondo e un’altra vita, tempi che solo a pensarci mi fanno venire da piangere.

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