La Fede al tempo del coronavirus. Una riflessione meditando sul salmo 90

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“ … finché ritornerai alla terra, /perché da essa sei stato tratto: / perché polvere tu sei e in polvere ritornerai!” (Gen 3, 19).

Quanto più m’avicino al giorno extremo / che l’umana miseria suol far breve, / più veggio il tempo andar veloce et leve, / e ‘l mio di lui sperar fallace et scemo”. (Petrarca, Canzoniere, XXXII)

 

Questo incredibile mese di marzo 2020 ci ha imposto il “domicilio coatto” (se mi è consentito usare un’espressione volutamente scherzosa per allentare la tensione che ci attanaglia tutti) al fine di evitare il contagio del Covid19, ma  ha creato anche una situazione inaudita per il nostro paese, paragonabile solo da lontano all’epidemia di spagnola dilagata cento anni fa. Si sono verificate infatti alcune situazioni connesse con la pratica della fede che forse nessuno avrebbe immaginato provocando, anche tra i cattolici, quel disorientamento di cui, nel presente momento storico, non si sentiva davvero il bisogno.

Penso, per esempio, alla chiusura delle chiese e alla cancellazione delle SS. Messe e dei riti funebri, prima suggerite, poi imposte dal governo e accettate dai Vescovi per prevenire il contagio. Non mi permetto di esprimere un giudizio su questo provvedimento – mai adottato in precedenza, neppure in tempo di guerra – e, tanto meno, mi sento di suggerire ai cattolici l’obiezione di coscienza, perché mi sembrerebbe di tentare Dio. Tuttavia mi sono domandata: se all’inizio dell’epidemia in Italia io fossi entrata nella mia parrocchia per pregare un po’ in solitudine e dopo pochi minuti, essendo l’ora della celebrazione, mattutina o vespertina, della Messa avessi visto che il sacerdote stava raggiungendo l’altare per la celebrazione quotidiana, che cosa avrei dovuto fare? Avrei dovuto Lasciare precipitosamente la chiesa per evitare il possibile contagio con gli altri fedeli che nel frattempo stavano entrando? La situazione sarebbe stata paradossale e non avrebbe certo aiutato il popolo di Dio a praticare serenamente la propria fede.

Mi sono anche domandata: agli sventurati colpiti dal virus sono assicurati il conforto dei Sacramenti e la vicinanza dei propri familiari? NO: nell’emergenza che stanno vivendo tutti gli ospedali d’Italia, la cura dei bisogni spirituali dei malati è l’ultima delle loro preoccupazioni. I poveretti sono isolati nei reparti di terapia intensiva e non sono certo rari  i casi in cui essi muoiono nella più totale solitudine, senza poter abbracciare le persone care e, peggio ancora, senza poter ricevere il Viatico, come si chiamavano al tempo della mia gioventù, i Sacramenti dell’Estrema Unzione e dell’Eucaristia. Neppure la Chiesa istituzionale mi sembra che si sia concretamente attivata per proporre o assicurare l’assistenza spirituale a chi la richiedesse.

Insomma, una volta proclamato lo stato di emergenza, niente SS. Messe, niente Sacramenti, niente funerali e, in parallelo, niente partite di calcio, niente spettacoli, niente feste nei locali pubblici facendo quindi di ogni erba una fascio tra ciò che appartiene a Dio e ciò che appartiene al “mondo”. Quindi non solo la nostra vita, ma anche la nostra morte risulta ferita e indelebilmente segnata, perché è stata tolta ai familiari anche la possibilità di abbracciare per l’ultima volta i loro genitori – dato che, a quanto pare, il virus colpisce soprattutto la terza età – e di piangere e pregare per loro davanti al SS. Sacramento. Che cosa avranno pensato nei loro ultimi momenti gli sventurati attaccati al respiratore? Avranno avuto, nella loro solitudine, la percezione della morte imminente e (Dio non voglia!) avranno provato la terribile tentazione di sentirsi abbandonati anche da Lui?

Questo pensiero mi turba e mi sconvolge. Ogni giorno io prego lo Spirito Santo e la Santa Madre di Dio affinché siano vicini a questi nostri fratelli nel momento della loro morte. Ma c’è anche un’altra considerazione che mi angoscia. La preoccupazione di cui parlavo poc’anzi (che non tocca certo un governo laicista come il nostro) pare che non tocchi neppure i familiari dei defunti. Il Corriere della Sera di giovedì 12 marzo ha dedicato due intere pagine a riferire il dolore di chi ha perso gli anziani genitori in questa tragica circostanza. Tutti hanno pianto per non averli potuti abbracciare, confortare e assistere nel loro momento supremo a causa dell’isolamento, ma nessuno ha  manifestato dolore per l’impossibilità di portare loro i Sacramenti e di celebrare il funerale cristiano per le persone amate. Nessuno ha detto di pregare per i propri genitori che ormai si trovano di fronte a Dio. Questa dimensione sembra esclusa  dall’orizzonte spirituale degli intervistati. Che significa questa reticenza? Pudore (sbagliato) nell’esternare i propri sentimenti religiosi, o indifferenza totale per il destino di tutti noi dopo la morte?

Dati i tempi che stiamo vivendo – in cui si tocca con mano l’affievolimento della fede a livello mondiale – io temo che la seconda risposta sia quella esatta. L’uomo di oggi ha archiviato qualunque interrogativo sulla sua identità di fondo e sul suo destino eterno. E allora mi è tornato in mente il Salmo 90, una delle più profonde riflessioni che la Sacra Scrittura dedica al significato ultimo della nostra vita e perciò mi sembra particolarmente appropriato per meditare sulla tragedia che stiamo vivendo. I Salmi sono straordinarie opere di poesia e, come tali, riescono a raggiungere  infallibilmente i recessi più riposti del cuore umano. E’ quello che accade a me quando leggo quel Salmo, l’unico che sia attribuito a Mosè per la sua assonanza con il  Cantico che egli pronunciò dinanzi a tutta l’assemblea di Israele  per esaltare la potenza del Dio di Israele, l’unico vero Dio (Dt 32).

Perché questo Salmo ha su di me uno straordinario potere di suggestione? Forse perché esso medita sulla brevità e sulla precarietà della vita, ed essendo io ormai entrata in pieno nella cosiddetta “terza età” e avendo vivissimi ricordi della mia  infanzia e della mia gioventù (che sono state entrambi molto felici e  per le quali non smetto mai di ringraziare Dio) avverto in pieno la precarietà della nostra esistenza, veramente paragonabile a un batter di ciglia, e soprattutto il sempre possibile capovolgimento della nostra vita da un momento all’altro. Infatti, chi di noi appena sei mesi fa avrebbe immaginato che un’epidemia di dimensioni planetarie stava per abbattersi sul mondo rivelandosi molto più drammatica e difficile da debellare di qualunque aspettativa?

La riflessione sulla brevità della vita è un topos molto comune nel mondo antico, ma l’Autore biblico, a differenza di molti autori pagani (per esempio di Seneca, che nel “De brevitate vitae” ripropone l’aforisma ippocrateo “Vita brevis, Ars longa” incitando, come rimedio, alle grandi imprese) ritiene che proprio questa consapevolezza dovrebbe indurci a riflettere sulla nostra più profonda identità e a valutare il limite costitutivo dell’esistenza umana.

Il secondo versetto del Salmo è folgorante perché rappresenta l’eternità di Dio di fronte alla temporalità limitata dell’uomo: “Prima che nascessero i monti / e la terra e il mondo fossero generati, / da sempre e per sempre tu sei, o Dio. / Tu fai ritornare l’uomo in polvere e dici: Ritornate, figli dell’uomo!” (v. 3). La nostra esistenza si consuma in un attimo; poiché siamo stati creati dalla polvere, ad essa ritorneremo per volontà del nostro Creatore. La nostra identità più profonda è la “teshuvà”, ossia il ritorno a Colui che ci ha creati.

Il secondo racconto della creazione descrive l’azione di Dio che “plasmò l’uomo con la polvere del suolo” (Gen 2, 7). Gli esegeti fanno notare che quel versetto può essere tradotto anche “come polvere del suolo”, per sottolineare la vulnerabilità dell’uomo che, come l’argilla, può andare facilmente in frantumi. Non è proprio questa l’esperienza che stiamo facendo in questi mesi con il dramma del coronavirus?  Tutti siamo vulnerabili, ma purtroppo lo abbiamo dimenticato. Eppure se ci prendessimo la briga di meditare più spesso la Parola di Dio, ce ne renderemmo conto; per esempio, a cominciare dal secondo racconto della Genesi, che  ci narra che, mentre l’uomo può godere di tutti i beni dell’Eden, non deve toccare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, altrimenti morirà.

L’identità dell’uomo risiede nella sua libertà, con il limite che non può soddisfare tutti i suoi desideri; se lo fa, mettendosi al posto di Dio, muore.  Anche il pagano Aristotele identificava, col desiderio da appagare ad ogni costo, la profonda identità umana: “Tutti gli uomini desiderano per natura conoscere”, scrisse all’inizio della sua Metafisica. Invece il Salmo 90 insegna che la brevità della vita non è da deplorare, come pensavano gli antichi, perché è il peccato a travisare il limite costitutivo dell’esistenza e ce lo fa percepire come un dramma: “Perché siamo distrutti dalla tua ira, siamo atterriti dal tuo furore. / Davanti a te poni le nostre colpe, / i nostri peccati occulti alla luce del tuo volto. /Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua ira, / finiamo i nostri giorni come un soffio” (vv 7 – 9).

Quindi la vera sapienza dell’uomo consiste nell’accettare il limite che lo caratterizza come creatura. Adamo ed Eva non accettarono quel limite e pretesero di godere di una libertà assoluta, ma nel momento in cui oltrepassarono quel limite “si aprirono i loro occhi e si accorsero di essere nudi” (Gen 3, 7). Anche prima essi erano nudi, ma il peccato rese quella nudità drammatica perché era il simbolo della loro vulnerabilità e impedì loro di capirlo.

Non ha del tutto torto Martin Heidegger, uno dei più importanti filosofi del XX secolo, quando dice che noi possiamo anche affermare che si tratta di accettare la nostra morte[1]. La vita umana è un “essere per la morte”, perché la morte è la possibilità più propria dell’essere umano, è l’evento ineluttabile che esclude tutte le altre possibilità. Il nostro è un tempo limitato, entro il quale si svolge la nostra esistenza, e questo limite ci permette di riconoscere chi siamo. Anche il Qoèlet accetta consapevolmente il limite temporale umano:  “ritorni la polvere alla terra, com’era prima, / e lo spirito torni a Dio che lo ha dato” ( 12, 7).

Il Salmo 90 ci insegna a considerare la brevità della vita in un’angolatura diversa da quella che nasce dal peccato: “Chi conosce l’impeto della tua ira, / tuo sdegno con il timore a te dovuto?/ insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (vv. 11 – 12). Dalla conoscenza della fragilità umana nasce la sapienza, che è timore di Dio. Il limite definisce l’identità: senza di esso l’uomo non riconosce più se stesso e questo è l’errore che l’umanità sta compiendo da due secoli a questa parte.

Il progresso tecnologico di cui l’uomo ha beneficiato negli ultimi duecento anni non è stato accompagnato anche dal progresso umano e spirituale. Le conquiste della medicina sono state talmente grandi che, a livello di senso comune, si sarebbe potuto pensare che l’improvviso insorgere di un virus sconosciuto si sarebbe potuto fronteggiare con i comuni mezzi a disposizione della medicina del XXI secolo. Così non è stato. Il COVID19 ci ricorda i nostri limiti sia scientifici – come la mancanza di un farmaco antivirale capace di uccidere questo nemico – sia antropologici,  come la necessità (insorta in varie strutture sanitarie) di privilegiare la cura dei pazienti più giovani a scapito degli anziani, maggiormente esposti al contagio, in perversa armonia con il trend filosofico e sociale moderno che è riuscito a far accettare al pubblico moderno l’utilità, se non proprio la necessità, dell’eutanasia per i malati inguaribili. Per non parlare poi degli aborti ospedalieri, i cui interventi, a differenza di altri interventi chirurgici (come quelli ortopedici) non sono stati affatto rinviati alla cessazione dello stato di emergenza, Infatti, l’Interruzione Volontaria della Gravidanza (ipocrita espressione che crede così di camuffare un omicidio) è un “diritto” riconosciuto e tutelato dal Servizio Sanitario Nazionale.

Il delirio di onnipotenza che ha invaso l’umanità moderna, facendole dimenticare Dio, le ha fatto dimenticare anche il limite costitutivo della sua identità. E allora basta l’insorgere di un virus finora sconosciuto per mettere in ginocchio in pochi giorni interi continenti.

Il Covid19 sta impartendo una grande lezione a tutti noi, tentati sempre da un’eccessiva fiducia nella scienza alla quale non sappiamo riconoscere limiti. Saremo capaci di fare tesoro di questo insegnamento?

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[1] Cfr Heidegger, Essere e Tempo, Milano, Mondadori, 2006. Par. 51.

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2 commenti su “La Fede al tempo del coronavirus. Una riflessione meditando sul salmo 90”

  1. che non sia invece per queste messe, che sono una dichiarazione di apostasia dalla fede cattolica, che l’ira di Dio si è è riversata su di noi? Per non dire di tutte le altre forme di offesa alla fede cattolica – se si crede che questa esprima la vera fede in Dio, e non una delle tante modalità religiose tutte buone e benedette, da Dio addirittura (Cfr. Dubai…) – come la prossima preghiera urbi et orbi in unione (comunione?) con le altre chiese cristiane negatrici della fede cattolica , l’unica vera cristiana ( come da dottrina plurimillenaria ante vatican-due)?

    1. Carla D'Agostino Ungaretti

      E chi lo sa, caro amico BBruno? Può darsi che abbia ragione lei. Ma io mi sento troppo piccola, limitata e ignorante per prendere partito. Ma penso anche, come ho detto molte volte, che rimanere visceralmente attaccata alla santa e bimillenaria Dottrina cattolica sancita da Santi, da Papi e da Concili sia la via più diretta per la salvezza. Per il resto, cerco di non pormi troppi problemi perché mi sembrerebbe di spianare la strada al demonio, il quale non aspetta altro che inoculare il dubbio. Grazie per avermi letto.

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