La (grande) Storia nei (piccoli) Canti popolari/VI

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Signor lo Re a j’ha bin dije…

 

Ci occuperemo ora di tre testi popolari[1] che, seppur ad una certa distanza cronologica, di pochi anni tra i primi due, di circa 80 invece tra il secondo ed il terzo, trattano un soggetto omogeneo, ma ovviamente coniugato in tre personaggi femminili ben distinti tra loro: il motivo delle nozze di una ragazza di famiglia nobile, addirittura regale in questi testi, che deve salutare i propri cari e la propria terra per andare sposa, oltre che ad un uomo a lei poco noto se non addirittura sconosciuto, in un luogo lontano e, almeno nel terzo testo, pressoché ignoto ed al limite del leggendario.

A questo proposito, prima di entrare nel vivo dell’argomento della prima canzone, ricordiamo come nei secoli XVII/XVIII (tempo in cui le tre vicende si collocano) sposarsi, per le figlie della nobiltà e delle famiglie reali, significava operare un taglio netto, e spesso definitivo, con la famiglia e la terra d’origine, in quanto le distanze allora non permettevano visite frequenti e raramente quelle occasionali, e comunque a distanza di molto tempo. Inoltre, i doveri connessi col nuovo stato matrimoniale imponevano, in genere, una presenza costante nel nuovo regno in cui si andava a vivere. In secondo luogo, ma non meno importante, le nozze ad alto livello erano normalmente “combinate”, figlie della “ragion di stato”, motivo per cui non solo nulla (o quasi) si sapeva del proprio futuro sposo, se non ciò che si conosceva per le vie ufficiali, ma si aveva anche il timore (seppur celato ai più) di una vita futura forse non felice, se non addirittura misera. Gli esiti dei matrimoni reali potevano nascondere, nel loro futuro, o situazioni di felicità e di affiatamento coniugale, tali che permisero, in alcuni casi, di sopportare anche situazioni storiche e personali avverse (come nel caso, per restare in casa Savoia, di re Carlo Emanuele IV e della regina Maria Clotilde di Borbone-Francia) o al contrario avvenimenti sinistri se non tragici (pensiamo a Maria Antonietta d’Austria, ghigliottinata dai rivoluzionari in quanto regina di Francia).

 

Canzone nr. 142: La Duchessa di Borgogna (1696)

– Adiù, Turin, adiù tute ře blësse! Mi’m no vad a marì a Paris,

Mi pij ël fieul dël re Luis, col gran monarca ’d Fransa.

Col ch’me papà l’ha sempe tradì, mi për sò onor vad a servì.

Doi tre di dnans řa mia partensa vad a visité tuti ij monasté.

E con ij me discors j’heu fàit pioré tuta řa cort.

Com i soma stà fòr de nòst finage, ře trope de Fransa is son vansé:

– Torné andaré, sgnori Piemontèis, la bela madamin ř’é ’rgin-a dij Fransèis.–

Re Luis řa pijařa për soa man bianca, o ř’ha vardařa ant j’euj;

O ř’ha dije: – Voi me smij ’mpò tròp giovnòta.

Con tut lò, madam’, savé, voi no saré l’argin-a dij Fransé.

– S’i j’era tròp giovnòta, non bësognava pa mandé,

Mandé l’ambassiador al re mio padre;

Che mi pijava ’l fieul dl’amperador, ch’o ř’era pì nòbil, pì rich che voi. –

Re Luis r’ha pijařa për soa man bianca, ant cole saře o ř’ha mnà.

O j’ha faje vëdde d’arzan, dë dné, e dai sò cavajer ř ř’ha fařa ’ntossié.

[Montaldo, Mondovì. Trasmessa da don S. S. Monetto]

– Addio, Torino, addio tutte le bellezze! Io me ne vado a marito a Parigi,/ Prendo il figlio del re Luigi, quel gran monarca di Francia./ Quello che ha sempre tradito mio papà, io per il suo onore vado a servire./ qualche giorno prima della mia partenza vado a visitare tutti i monasteri./ E coi miei discorsi ho fatto piangere tutta la corte./ Appena siamo stati fuori dei nostri confini, le truppe di Francia si sono avvicinate:/ – Voltatevi indietro, signori Piemontesi, la bella signora è regina dei Francesi. –/ Re Luigi l’ha presa per la sua mano bianca, l’ha guardata negli occhi;/ Le ha detto: – Voi mi sembrate un po’ troppo giovane./ Con tutto ciò, signora, sappiate, voi non sarete la regina dei Francesi./ – Se ero troppo giovane, non bisognava mandare,/ Mandare l’ambasciatore al re mio padre;/ Ché io sposavo il figlio dell’imperatore, che era più nobile, più ricco di voi. –/ Re Luigi l’ha presa per la sua mano bianca, in quelle sale l’ha portata./ Le ha fatto vedere argento, denari, e dai suoi cavalieri l’ha fatta avvelenare.

 

Testo

Anche solamente ictu oculi il testo presenta una sua caratteristica ben definita, che nasce dall’essere stato raccolto dalla voce di un sacerdote (don Monetto) di Montaldo Mondovì: la presenza, non dal punto di vista lessicale o morfologico, ma da quello esclusivamente fonologico, di una caratteristica tipica delle parlate genericamente langarole e, qui precisamente, dell’Alta Langa monregalese, vale a dire il cosiddetto “rotacismo”, cioè la trasformazione in -r- di parecchie -l-[2], sia iniziali (l’articolo femminile řa per la) che intervocaliche (saře per sale). Altra caratteristica langarola è la sostituzione della a pronome personale verbale (a j’ha faje, “le ha fatto”) con la o (o j’ha faje).

Il lessico ci presenta, come d’abitudine, parecchi arcaismi (pij per pijo, heu per hai, vansé, con metafonesi[3], per avansà, argin-a per regin-a, smij per smije) e francesismi, sia nelle parole pronunciate dai Francesi, il re ed i soldati, che da altri personaggi o dal narratore (adiù, torné nel senso di “girare, voltare”, madam’, cioè madame, per madama, Fransé per Fransèis, arzan per argent).

Possiamo poi riflettere sul fenomeno meno presente (ma non del tutto assente anche in altri testi) della presenza di alcune parole, costituenti il secondo emistichio del v. 12, totalmente in italiano, a presentare una sorta di “intrusione” linguistica in un contesto non solo piemontese, ma anche localmente (Langhe) determinato. Tale situazione avviene in genere quando le corrispondenti parole in piemontese non permettano di mantenere corretto il ritmo metrico del verso (cosa qui non necessaria, in quanto al re mio padre corrisponde metricamente ad al re me pare) oppure – come forse in questo caso – quando il testimone è un letterato, al quale venga naturale sostituire la lingua colta alla lingua parlata, specie se si cita (come qui) una persona importante quale il re.

Un’ultima osservazione è relativa al primo emistichio, identico, dei vv. 8 e 14 (Re Luis r’ha pijařa për soa man bianca). Chi conosce l’universo dei canti popolari piemontesi ravvisa in esso la riproduzione di un emistichio di una antichissima ballata d’amore (Zolicheur, risalente nel suo nucleo centrale probabilmente all’età cortese), in cui un cavaliere, di ritorno in Piemonte dalla Francia, incontra la sua antica innamorata, la prende per la mano (A l’ha pijala për soa man bianca), la issa sulla groppa del cavallo e la porta con sé in Francia.

Una testimonianza di come le canzoni popolari perdurassero nel tempo, sia come melodie che come testi, così da lasciare alcuni loro versi come – per così dire – stereotipi (pensiamo, si parva licet.., ai versi “formulari” dei poemi omerici) da inserire in testi via via più moderni.

 

Personaggi

Maria Adelaide di Savoia (Torino, 1685-Versailles, 1712), figlia primogenita del duca di Savoia Vittorio Amedeo II (1666-1732), fu moglie di Luigi, duca di Borgogna, e madre del re di Francia Luigi XV.

Il suo fidanzamento col Duca di Borgogna, del giugno 1696, determinò il suo trasferimento in Francia in virtù del Trattato di Torino. Il matrimonio avvenne l’anno successivo, per cui ella fu Duchessa di Borgogna dal 1697 fino al 1711; alla morte per vaiolo del suocero, il Gran Delfino (Le Grand Dauphin), ella ed il marito divennero Delfini di Francia. Morì di morbillo, secondo il Nigra (op. cit., pag. 631) di rosolia epidemica, nel 1712, seguita sei giorni dopo dal marito. La coppia fu sepolta insieme nella Basilica di Saint Denis. Secondo il testo della canzone la morte della Duchessa (e del marito) sarebbe stata causata da veleno: il falso sospetto cadde sulla cognata, Elisabetta Carlotta d’Orléans, duchessa di Berry.

Prima del fidanzamento col Duca di Borgogna, Vittorio Amedeo aveva proposto Maria Adelaide per il matrimonio con l’Arciduca Giuseppe, ma l’Imperatore Leopoldo I aveva rifiutato a causa della giovane età della coppia.

Maria Adelaide diede alla luce il suo primo figlio nel 1704, figlio che però morì l’anno successivo. Ebbe poi altri due figli: uno nel 1707 (morto a 5 anni) e l’ultimo, il futuro re Luigi XV di Francia, nel 1710.

Oltre alla principessa di Savoia compare un solo altro personaggio: il re di Francia (Luigi XIV; il Re Sole, 1638-1715), suo suocero, oltre al “coro”, costituito al v. 7 dai soldati francesi (trope ’d Fransa).

 

La Vicenda

Il testo della canzone, come spesso accade nei canti popolari e come vedremo anche nelle altre due canzoni “nuziali”, si sofferma su di un aspetto particolare della vicenda e sui suoi accenti più propriamente “sentimentali”. Nulla si racconta della cerimonia vera e propria di nozze e lo stesso si può notare per la figura dello sposo (il duca di Borgogna), ma il testo si apre col saluto, sentito come definitivo (”addio”), alla propria città natale ed alle sue, genericamente, “bellezze”. Il secondo tema è riservato alla figura del futuro suocero (il re di Francia), ricordato come un traditore del duca di Savoia nelle alleanze e, conseguentemente, il matrimonio è giustamente vissuto come una pura e semplice necessità diplomatica (“vad a servì”). Dopo l’accenno agli ultimi saluti della principessa ed alle lacrime di tutta la corte, ecco entrare in scena i Francesi (nella fattispecie l’esercito) che dimostrano tutta la loro albagia cacciando senza mezzi termini i Piemontesi della scorta della Principessa. A questo punto interviene direttamente il re di Francia (“re Luis”, cioè il Re Sole, Luigi XIV), che dimostra – a sua volta – una estrema malcreanza rilevando il principale difetto (a suo giudizio) della sposa, cioè la sua eccessiva giovinezza (in effetti Maria Adelaide aveva all’epoca della vicenda solamente 11 anni!), offesa a cui la Principessa risponde con altrettanta schiettezza, e non senza una punta di sarcasmo, che in tal caso il re di Francia poteva lasciarla maritare col figlio dell’Imperatore (l’Arciduca Giuseppe d’Absburgo, preso effettivamente in considerazione come suo sposo, prima del Duca di Borgogna), definito senza mezzi termini “più nobile e più ricco”. Il testo si chiude, laconicamente, con l’arrivo della sposa nel palazzo (immaginato concretamente come una serie di “sale”) e con il ricordo della morte della Principessa, dovuta (senza esitazioni di sorta da parte del narratore popolare) ad avvelenamento.

 

 

Canzone nr. 140: Maria Luisa di Savoia, regina di Spagna (1701)

Lo Duca de Savòja l’ha doe fije da maridé.

J’ha maridà tute doe, j’ha maridà lontan.

L’un-a regin-a an Fransa, l’àutra l’é andà a Milan.

[…]

Cavajer de Mombasili l’é un cavajé d’onor;

L’ha fà pronté na tàula o për tuta la cort.

Da Racunis van via, a Nissa a son allé.

Cavajer de Mombasili j’é andaje a dësmonté.

Quand ch’a son stàit a Nissa, contavo li dené;

Fasevo la dëspartìa sti nòbil cavajé.

La mare con la fija se son tocà la man.

Maman monta an caròssa, la fija an carossin;

La fija l’é andà a Madrid, maman torna a Turin.

– Òhimi, mi pòvra fija, fija de quìndes agn!

Ch’j’abia mai pì da vëdde nì papà nì maman!

Ch’j’abia mai pì da vëdde sti nòbil sitadin!

Për vita che mi viva, vëdreu mai pì Turin! –

 

[La Morra. Alba. Trasmessa da Tommaso Borgogno]

 

Il Duca di Savoia ha due figlie da maritare./ Le ha maritate tutt’e due, le ha maritate lontano./ Una regina in Francia, l’altra è andata a Milano./ […]/ Il cavaliere di Mombasiglio è un cavaliere d’onore;/ Ha fatto preparare una tavola per tutta la corte./ Da Racconigi vanno via, a Nizza sono andati./ Il cavaliere di Mombasiglio è andato a farli smontare./ Quando sono stati a Nizza, contavano i denari;/ Facevano la separazione questi nobili cavalieri./ La madre con la figlia si sono strette la mano./ La mamma sale in carrozza, la figlia sul carrozzino;/ La figlia è andata a Madrid, la mamma torna a Torino./ – Ahimè, io povera ragazza, ragazza di quindici anni! Che io non debba mai più vedere né papà né mamma! Che io non debba mai più vedere questi nobili cittadini! Per tutta la vita che io vivrò, non vedrò mai più Torino! –

 

Testo

Il testo dal punto di vista linguistico presenta alcune, consuete, forme arcaiche che ci permettono considerarlo, se non come coevo, certamente di poco successivo ai fatti narrati. Tali sono gli articoli lo (singolare maschile) e li (plurale maschile) per ël e ij rispettivamente, il verbo maridé per marijé, la forma cavajé per cavajer (usata tuttavia in alternanza con la prima), alcuni participi passati nella forma vocalica tronca in –à, invece che nella forma in –àit/-àita (andà, ), il sostantivo dené per dné, l’imperfetto fasevo per fasìo, la forma plurale nòbil, e quindi uguale al singolare, per nòbij, il futuro vëdreu per vëdrai. Abbiamo poi i francesismi allé per andà (comunque usato, come abbiamo visto, in alternanza) e maman; infine l’uso del sostantivo dëspartìa col valore di “separazione” o “suddivisione” per i più recenti (e italianizzanti) “separassion, division”.

Al di là comunque delle caratteristiche lessicali e linguistiche, questa canzone ci propone delle riflessioni ( e delle discrepanze) anche per quanto riguarda la sostanza della narrazione.

Infatti le due figlie del duca di Savoia vengono indicate come “regina di Francia”, l’una, e genericamente come “andata a Milano” l’altra. In realtà Maria Adelaide, la prima figlia di Vittorio Amedeo II, sposò nel 1697 in Francia (dove già viveva fin dall’anno precedente) il duca di Borgogna, mentre vediamo che la nostra Maria Luisa sta per sposare il re di Spagna.

Seconda incongruenza è l’età della principessa, che viene detta “de quìndes agn”, mentre in realtà ella aveva, alla data del matrimonio, solamente tredici anni, e la discrepanza non può essere effetto di necessità metrica che imponga una sorta di “arrotondamento” dell’età anagrafica, poiché tërdes (tredici, o nella sua forma arcaica trëddes) ha la stessa quantità ed accentazione di quìndes.

Infine (ma la difficoltà si rileva solo leggendo il commento del Nigra, op. cit., pag. 624) nella canzone si dice che la principessa fu accompagnata fino a Nizza, località del suo imbarco, dal cavaliere di Mombasiglio e dalla madre: in realtà, secondo appunto le parole del Nigra, l’accompagnò anche la nonna paterna, cioè Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours (1644-1724), e l’accompagnamento delle due donne (madre e nonna) arrivò solamente fino a Borgo San Dalmazzo, a pochi chilometri da Cuneo, sulla strada – come dice ancora il Nigra – “appiè del colle di Tenda”.

Prima di concludere questa serie di riflessioni testuali rimarchiamo ancora che il testo della canzone non è stato testimoniato, e quindi tramandato, per intero, ma con una lacuna (non sappiamo quanto lunga) dopo il terzo verso.

 

Personaggi

La figura centrale del testo è ovviamente la sposa, cioè Maria Luisa Gabriella di Savoia, terza figlia di Vittorio Amedeo II (1666-1732)[4], duca di Savoia e dal 1720 re di Sardegna (dopo essere stato, dal 1713 al 1720, re di Sicilia). Nata nel 1688, sposò per procura a Torino nel settembre del 1701 e in persona nel dicembre successivo (a Madrid) il re di Spagna Filippo V d’Angiò. Morta nel 1714, fu sepolta all’Escurial.

Gli unici altri personaggi presenti sono il cavaliere di Mombasiglio, capo della scorta che accompagnò la principessa a Nizza, dove si sarebbe imbarcata sulla galera capitana della squadra reale di Napoli per Barcellona[5], e la madre della principessa stessa, cioè Anna Maria d’Orléans (1669-1728), sorella del re di Francia Luigi XIV e prima moglie del duca di Savoia.

 

Vicenda

La canzone, più che sul tema delle nozze reali, appena accennato nei primi versi, si sofferma su alcuni particolari, quali la cura del cavalier di Mombasiglio nel preparare un pranzo, per tutta la corte (cioè il corteo regale), prima della partenza da Racconigi per Nizza; l’attenzione dei nobili accompagnatori anche per gli aspetti più concreti (come la suddivisione dei denari, evidentemente parte della dote della sposa) e infine, cosa più drammatica, la separazione tra madre e figlia, che si salutano toccandosi la mano (particolare che ritroveremo anche nel testo successivo: il pudore dei sentimenti di quel tempo non permetteva neppure un bacio o un abbraccio…), con il cocente rammarico della sposa, che piange sul suo futuro, sintetizzato nel pensiero di non poter mai più rivedere la famiglia (papà e maman), gli amati sudditi torinesi (sti nòbil sitadin) e, infine, la sua amata città.

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[1] Essendo l’analisi di questi tre testi piuttosto corposa, si è pensato di dividerla – per comodità dei Lettori – in due parti.

[2] Per completezza di informazione notiamo che la pronuncia di questa “r” è arrotata, indicata convenzionalmente col segno ř.

[3] Il termine “metafonesi” indica il fenomeno per cui, a differenza che in altre forme locali affini in cui la vocale finale resta invariata, il plurale dei nomi e dei participi passati si forma cambiando la vocale finale; es. a l’é andà/a son andà (piemontese comune), a l’é andà/a son andé (plurale metafonetico di forma arcaica o, attualmente, periferica).

[4] Dopo Maria Adelaide (1685-1712) e Maria Anna (1687-1690) e prima di Vittorio Amedeo (1699-1715) e di Carlo Emanuele (1701-1773; il futuro re Carlo Emanuele III).

[5] Di costui, purtroppo, non sono riuscito a trovare ulteriori notizie.

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