La (grande) Storia nei (piccoli) Canti popolari

 

Signor lo Re a j’ha bin dije…

 

I canti popolari, e non solo quelli delle varie tradizioni dell’Italia, ma anche quelli delle svariate tradizioni e culture dell’Europa, oltre ad argomenti legati alla realtà quotidiana del popolo (amori, inimicizie, sentimenti diversi, momenti legati alla vita associata e comunitaria, quali nascite, matrimoni, funerali, oppure realtà presenti nell’esperienza delle varie aggregazioni civili, come episodi legati a monacazioni forzate, oppure alla presenza di mercanti girovaghi, e chi più ne ha più ne metta…)[1], trattano anche argomenti di carattere mitico-leggendario, assimilabili quindi a fiabe e leggende, ma pure episodi relativi alla grande Storia politica che ha interessato, in maniera più o meno intensa, il territorio che ha espresso i canti che tali argomenti storici ci testimoniano.

Per entrare ora meglio in medias res, partiamo dalla raccolta che Costantino Nigra (1828-1907), figlio della cultura romantica ma in cammino ormai verso quella positivistica, intorno alla fine dell’Ottocento fece delle canzoni popolari piemontesi[2]. Esaminando i testi da lui raccolti, notiamo che le canzoni che potremmo definire “storiche” possono essere catalogate secondo due “modelli”: quelle che fanno accenno, sotto una storia raccontata in tono popolare, a fatti e personaggi più o meno noti, senza però dichiarare apertis verbis il nome delle figure storiche interessate dalla vicenda; altre che, invece, si riferiscono aperte et clare a situazioni storicamente definite, e dichiarate col nome dei personaggi coinvolti, limitandosi solamente, in alcuni casi, a presentarci queste vicende e queste figure in una dimensione che potremmo definire “bassa” e realistica, adatta quindi ad una fruizione da parte di ascoltatori popolani[3].

Alla prima categoria potremmo ascrivere le canzoni nr. 1 Donna Lombarda, che alluderebbe alla vicenda di Rosmunda ed Alboino (sec. VI), in cui la protagonista (donna Lombarda, appunto) avvelena il marito, così come aveva fatto Rosmunda col re Alboino; la nr. 2 La sorella vendicata è riferibile a Clotilde di Francia (sec. VI), figlia di Clodoveo e sposa del re ariano visigoto Amalarico: la nr. 28 Il ritorno del soldato, ambientata presumibilmente dopo la guerra dei 7 anni (1756-1763), narra di un marito che di ritorno al suo paese dalla guerra (“Mi l’han pioro dël me marì, ch’a l’é set agn ch’i’l l’hai pì vist”, v. 10 della versione raccolta a Cintano e, con poche varianti, di quella raccolta a Pinerolo), scopre che la moglie, credendolo morto, si è risposata ed ha avuto altri figli col suo nuovo marito; e ancora la nr. 46 Matrimonio inglese, in cui si parla di Caterina di Valois, figlia di Carlo VI di Francia, e di Enrico (V) d’Inghilterra, sposatisi nel 1420 nella chiesa di San Giovanni a Troyes.

Ben più ampia, invece, la categoria di testi ispirati direttamente e apertamente a fatti e personaggi storici, e della quale ci occuperemo con maggiore attenzione e profondità. Essa contiene almeno 13 testi che, escludendo i primi due che – lo vedremo – trattano episodi, rispettivamente, dei secoli XIV e XVI, si rifanno a vicende che vanno dal secolo XVII agli inizi del XIX.

A questi due gruppi di testi ne possiamo aggiungere un terzo che si occupa di fatti e personaggi inseriti o nella agiografia (148 Sant’Alessio e 149 Santa Caterina di Alessandria) o nella Sacra scrittura (150 Il ricco epulone).

Passiamo ora all’analisi dei testi del secondo gruppo, cominciando dalla

canzone nr. 135: L’assedio di Verrua (1387)

 

Castello de Verùa s’a l’é tan’ bin piantà,

Piantà su cole ròche, ch’a-i passa ’l Pò da là.

La bela a la fënestra an bass l’ha rësguardà;

L’ha vist vënì na barca carià de gent armà,

Con j’arme ch’a-j lusìo, ch’a smijavo andorà.

La bela tira na pera, la barca l’é spërfondà.

Në fussa de cola pera, Verùa sarìa pijà,

Sarìa pijà Verùa, castel de Monferà.

 

Castello di Verrua è proprio ben piantato,/ Piantato su quelle rupi, che vicino passa il Po./ La bella alla finestra ha guardato giù verso il basso;/ Ha visto venire una barca carica di gente armata,/ Con le armi che luccicavano, da sembrare fatte d’oro./ La bella getta una pietra, la barca è sprofondata./ Se non fosse per quella pietra Verrua sarebbe presa,/ Sarebbe presa Verrua, castello di Monferrato.

 

Testo

Nel commento ad un’altra canzone[4] il Nigra afferma (pp. 297sg.)

Fino a prova contraria il canto popolare che narra un fatto si deve considerare coevo […] Un primo autore, poeta o compilatore, ha dovuto esserci, ma è per noi senza nome. Si deve presumere che fu un cantore popolare, o anche per avventura un coro di cantori popolari. Chiunque poi sia stato, questo primo autore ebbe successivamente numerosi, anzi innumerevoli collaboratori, giacché il popolo che canta fa da poeta senza saperlo e lavora inconscio a una redazione perpetua dei canti suoi.

Dunque, aldilà di un certo entusiasmo “vichian-romantico” del Nigra per il popolo “ingenuamente poetante”, dobbiamo ammettere che un testo popolare nato sull’onda di un fatto storico, con l’intenzione di divulgarlo e celebrarlo, debba essere nato contemporaneamente al fatto stesso, o quanto meno pochissimo tempo dopo. È stato sicuramente così anche per la nostra canzone, ma è altrettanto sicuro che il testo raccolto dal Nigra da, come lui stesso ci dice, una contadina (precisamente Domenica Bracco) di Sale Castelnuovo[5], non è certamente quello originale, coevo al fatto narrato, avvenuto nel 1387. Ce lo dice il confronto con la lingua dei pochi testi piemontesi rimastici del secolo XIV e di quelli immediatamente seguenti e pertanto dobbiamo ipotizzare che esso ci sia giunto in una versione certo antica, ma adattata man mano, col passare del tempo, alla modernizzazione della parlata popolare. Pur essendo il testo troppo breve per tentare una datazione abbastanza sicura, seppur ipotetica, alcuni fenomeni in esso presenti (cfr. infra) ci inducono a pensare ad una versione stabilizzatasi tra la fine del secolo XVII e l’inizio del seguente[6] e tramandata, ovviamente oralmente con poche varianti, fino al momento della redazione scritta nigriana, intorno cioè alla metà dell’Ottocento[7].

Il testo, che già Nigra dichiarava essere solamente un frammento (seppur contenente tutti gli elementi sostanziali per la ricostruzione “poetica” della vicenda) di una canzone più ampia, esiste in un’unica lezione (quella da lui recuperata a Sale Castelnuovo), mentre nessun ricordo di tale evento è rimasto, sotto forma di canto popolare, nella zona interessata dal fatto stesso (collina chivassese e lembo occidentale del Monferrato), cosa alquanto rara per quanto attiene alla tradizione delle canzoni storico-popolari piemontesi, di ciascuna delle quali esistono – in genere – almeno due varianti (se non di più) e presenti sia nelle zone di avvenimento che in altre anche parecchio lontane da esso.

Gli otto versi sono dei doppi settenari (piani e tronchi) monorimi con la presenza – come già detto – di forme arcaiche che permettono una datazione, pur sempre ipotetica.

Verùa (in italiano Verrua, in piemontese anche Avrùa) è un piccolo borgo della provincia di Torino, ma per notizie più ampie su di esso rimandiamo infra.

Rësguardà: non nel senso moderno di “riguardare, avere attinenza”, ma in quello più antico di “guardare indietro, guardare in giù” o ancora “voltarsi a guardare”. La rocca di Verrua si trovava a perpendicolo sul Po,e quindi in posizione ottimale per cogliere l’arrivo di una barca nemica.

Vënì: forma arcaica (ora ridottasi a vnì, con caduta della schwa, cioè la –ë– detta semimuta) rispetto al più moderno ven-e.

Carià de: notiamo l’uso della preposizione arcaica de, invece di ëd; cfr. anche i versi 7 (de cola pera) e 9 (de Monferà).

 

Vicenda

Luogo

Verrua Savoia è un borgo, nella zona nord-est della provincia di Torino, che si trova sul corso del Po alla sua confluenza con la Dora Baltea. Conta attualmente circa 1.500 abitanti, ma erano ancora circa 3.000 ad inizio Novecento; è il comune più orientale della provincia e presenta la caratteristica che il suo territorio confina con ben tre province (Asti, Alessandria, Vercelli) incuneandosi tra di esse. L’etimo del toponimo è dal latino verruca (“rigonfiamento”, poi anche “poggio, collina bassa”), mentre l’epiteto “Savoia” è stato aggiunto in età recente per sottolineare la sua importanza (come vedremo tra breve) nella storia degli stati sabaudi, importanza in gran parte dovuta alla sua posizione, nel passato assolutamente strategica, trovandosi a dominare il corso del fiume tra Torino e il confine tra il Canavese (dominio sabaudo dal secolo XIV) e il Monferrato, fino alla conquista sabauda (1708: in seguito alla guerra di successione spagnola) dominio dei marchesi (poi duchi) di Monferrato[8].

L’importanza strategica del luogo (e del suo castello) è testimoniata dai 4 assedi subiti (solo Cuneo, in Piemonte, ne ha sopportati di più: 7): nel 1377, nel 1387, nel 1625 e nel 1704. Il primo, poco più di una scaramuccia, fu ad opera di Secondotto, marchese di Monferrato, e di Galeazzo Visconti e il castello fu liberato da Amedeo VI di Savoia (il Conte Verde), tanto che il borgo si diede in fedeltà ai Savoia. Quello del 1387 lo tratteremo tra breve, essendo quello che è citato nella canzone, mentre quello del 1625, episodio minore delle campagne italiane della guerra dei Trent’anni, fu sostenuto vittoriosamente dal presidio franco-piemontese contro gli spagnoli guidati dal duca di Feria; l’ultimo invece fu condotto, durante la guerra di Successione spagnola, dai franco-ispani del duca di Vendôme, come episodio anticipatore del ben più lungo, e famoso, assedio di Torino (1706), contro le truppe austro-piemontesi e si concluse con la resa del castello.

 

Personaggio

L’unico personaggio presente nel canto è la figura di una donna di cui non si dice nulla, né il nome né la condizione sociale, se non che era “bella” e che “stava alla finestra”, due stereotipi decisamente comuni, specie il primo, nella canzone popolare.

La figura di una donna che salva una città o un castello dall’assedio nemico è presente nella storia europea. Se vogliamo tralasciare il mito a proposito di Minerva che salvò Marsiglia, di cui ci narra lo storico romano di età imperiale Giustino, ricordiamo Stamura (o Stamira), l’eroina che salvò Ancona dall’assedio di Federico I Barbarossa del 1173, e – più vicina a noi nello spazio e nel tempo – la popolana Maria Chiaberge Bricca (1684-1733) che, durante l’assedio di Torino del 1706, aiutò gli imperiali a conquistare il castello di Pianezza, da cui poi le truppe austro-piemontesi poterono aggredire gli assedianti franco-ispani.

Resta da riflettere ovviamente sulla portata storica della “pietra” scagliata dalla donna sulla barca degli assalitori. È obiettivamente difficile credere che una donna, per quanto coraggiosa e forte, possa scagliare, con forza, una pietra di dimensioni tali da poter affondare una barca, oltretutto carica di armati. È opportuno quindi pensare che l’immagine della pietra sia una sorta di “feticcio” concreto e visibile per raffigurare oggettivamente l’immagine di questa donna che presumibilmente ha avvistato la barca e dato l’allarme, ottenendo così il risultato dell’affondamento della barca stessa, da parte evidentemente dei difensori, e la salvezza conseguente della rocca. Ciò rispetterebbe appieno una certa tradizione della canzone popolare in cui spesso troviamo un oggetto, in genere un anello, ma può anche essere un pugnale, uno specchio, un cofanetto, o ancora un materiale (sale, grano, oro…) che funge da elemento catalizzatore, in cui quindi si concentra la possibilità della conclusione della vicenda, come, per esempio, la bacchetta magica nelle fiabe, che sono racconti anch’essi di estrazione popolare.

 

Storia

Il Nigra argomenta (pp. 602sgg.) che il fatto narrato debba riferirsi all’assedio del 1387, poiché, innanzitutto, nessuna menzione di tale fatto è presente nelle cronache, peraltro molto attente a qualsiasi avvenimento, dei due assedi più recenti (1625 e 1704); secondariamente nessuno scritto né tanto meno alcuna persona, nei territori circostanti il borgo, opportunamente indagati dallo studioso, ricordava traccia di questo episodio, esattamente come nessuno ivi aveva mantenuto memoria di questa canzone. Da ciò Nigra desume che il fatto dovesse essere riportato ad un assedio più antico e tra i due possibili (1377 e 1387) egli scarta il primo, troppo breve, poco conosciuto e pressoché privo di fatti d’arme di una qualche importanza (abbiamo detto che fu poco più di una scaramuccia, conclusasi per di più con un accordo) per aver prodotto testi popolari significativi in suo ricordo. Inoltre, altri indizi per scartare i tre assedi anzidetti sono che quello del 1704 terminò con la resa degli assediati e lo smantellamento della rocca, mentre in quelli del 1377 e del 1625 gli assedianti si presentarono sotto la fortezza dalla parte del Monferrato (e quindi delle colline) e non dalla parte del fiume, come si arguisce dal testo della canzone, ma anche dalle cronache, che ci dicono che l’esercito nemico giungeva da ovest, cioè dal Canavese, lungo il corso del Po. Pertanto si conclude che l’assedio di cui si parla è quello del 1387.

Tale assedio fu posto da Teodoro marchese di Monferrato, durante la guerra contro Amedeo VII di Savoia (il Conte Rosso), in quei mesi in Francia per questioni diplomatiche, per la conquista del Canavese[9], allora sotto il dominio sabaudo. In questa guerra gli eserciti marchionali erano condotti dal famoso capitano di ventura Facino Cane e Teodoro, dopo l’esito a lui favorevole della prima parte del conflitto, saputo del ritorno dalla Francia di Amedeo, decise di procurarsi sul Po un punto d’appoggio utile sia in chiave offensiva che difensiva, ponendo appunto l’assedio a Verrua e accampandosi sulla riva destra del fiume, mentre Amedeo occupò quella sinistra sotto il borgo di Crescentino. Dopo quasi due mesi di assedio (4 luglio-fine agosto) i contendenti si accordarono e fu sancita la pace, comunque di breve durata, tra Monferrato e Savoia. Ultimo particolare relativo a questo assedio, che il Nigra considera decisivo per la collocazione storica della canzone[10], è che i difensori furono esclusivamente soldati locali, contadini del posto insomma, senza l’ausilio di milizie vere e proprie: ciò rende più probabile – afferma il Nigra – l’episodio della barca, che evidentemente tentava un attacco di sorpresa (cosa più difficile a realizzarsi in presenza di soldati di mestiere, o quanto meno di esperienza) e la salvezza ottenuta grazie al coraggio ed alla perspicacia di una donna.

Concludiamo ricordando che, a memoria di questo assedio, all’entrata del castello fu posto un bassorilievo inciso nella pietra raffigurante un porco sormontato da un grappolo d’uva, recante l’iscrizione

Quando questo porco pigliarà l’uva

Il marchese di Monferrato pigliarà Verruva.

.

 

[1] Basta consultare una qualunque raccolta di canti popolari di una qualsiasi regione o sub-regione della nostra penisola per trovare un repertorio quanto mai vasto di argomenti, temi ed episodi trattati dagli anonimi estensori delle canzoni.

[2] C. Nigra, Canti popolari del Piemonte; Torino 1888 (20095).

[3] Ciò ha una spiegazione di carattere storico-sociale: le canzoni popolari tenevano, almeno fino alla metà dell’Ottocento se non oltre, il posto poi occupato dai giornali e in seguito da altri mass-media (radio, televisione…); esse pertanto avevano il compito primario di informare la gente minuta anche di avvenimenti storici di una qualche importanza.

[4] Precisamente la nr. 40 (Il moro saracino), pp. 247-298 dell’edizione citata..

[5] Si tratta della località canavesana, in provincia di Torino, di cui era originario il Nigra e dove egli raccolse un buon numero di canti dalla viva voce degli abitanti del luogo.

[6] Questa datazione ci sarebbe ulteriormente confermata se, come lo stesso Nigra ci dice pur escludendo questa ipotesi (op. cit., p. 602), l’assedio in questione non fosse quello del 1387, ma quello del 1625.

[7] La prima edizione di questo testo da parte del Nigra è del novembre 1858, nella “Rivista contemporanea” di Torino.

[8] Furono signori di Monferrato nell’ordine: gli Aleramici (967-1305), i Paleologi (1306-1533), i Gonzaga (1533-1573, e come duchi fino al 1627) e infine i Gonzaga Nevers (1631-1708). Ricordiamo, per completezza, che la salita al potere dei Gonzaga Nevers fu la conseguenza della guerra, episodio minore di quella dei Trent’anni, per la successione appunto al ducato di Monferrato e di Mantova, di cui ci parla Manzoni nei Promessi Sposi (capp. XXVII, XXVIII, XXXII, passim).

[9] Nel contesto di questa guerra si colloca anche la rivolta popolare, detta del “tuchinaggio”, contro i signori feudali fedeli ai Savoia, che devastò il Canavese dal 1386 al 1391. Cfr. F. Gabotto, Il Tuchinaggio in Canavese ed i prodromi dell’assedio di Verrua, in “Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino”, I, 1896, pp. 81-95 e P. Venesia, Il Tuchinaggio in Canavese (1386-1391); Ivrea 1979.

[10] Da non sottovalutare neppure il fatto che nell’ultimo verso del frammento si parla di “castel de Monferà”, quasi come una chiusa irriverente nei confronti dell’assediante sconfitto.

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