La guarigione di dieci lebbrosi, ovvero la gratitudine di uno e l’ingratitudine di molti

“Non sunt inventi qui redirent, ut darent  gloriam Deo, nisi hic alienigena? Et ait illi: Surge, vade; fides tua salvum fecit” (Lc 17, 17 – 19).

 

 

Gesù è in viaggio verso Gerusalemme – meta per la quale “faciem suam firmavit” (Lc 9, 51), ossia “aveva indurito il suo volto”, ossia (per dirla in termini moderni) “aveva preso quella ferma e irrevocabile decisione” pur sapendo che a Gerusalemme lo aspettava la Passione[1]e l’itinerario da Lui scelto passa attraverso la Samaria e la Galilea. L’espressione greca usata da Luca è stata sempre considerata, fin dall’antichità, di difficile traduzione tanto che gli esegeti l’hanno sempre definita “lectio difficilior”. Infatti non è chiaro perché Luca nomini per prima la Samaria, dal momento che Gesù si dirige a Gerusalemme e quindi dalla Galilea si passa alla Samaria. Forse intendeva passare lungo il confine tra le due regioni per raggiungere la valle del Giordano e scendere fino a Gerico, dove poi avrebbe incontrato Zaccheo e da dove poi sarebbe salito a Gerusalemme[2].

Comunque, Gesù attraversa territori in cui viveva un melting pot di giudei, pagani e samaritani. Questi ultimi, in particolare, erano detestati dai giudei in quanto ritenuti eretici e scismatici rispetto alla Legge di Mosè. Ma Gesù non si preoccupa davvero di queste discordie intestine del popolo di Israele, perché il Suo viaggio ha uno scopo e un significato molto diversi: vale a dire, teologici e salvifici. Gerusalemme non è solo la città santa del popolo di Dio, ma il luogo in cui Egli porterà a compimento la Redenzione, con la Morte, la Resurrezione, l’Ascensione e la Pentecoste.

Gesù entra in un villaggio e subito “gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce dicendo: Gesù Maestro, abbi pietà di noi!”. Nonostante la discordia tra i due popoli, l’esperienza della malattia e del dolore univa quegli sventurati al di là di ogni risentimento etnico, perché l’unica libertà  concessa loro dalla Legge mosaica, espressa nel Levitico (13, 45 – 46), era condividere con gli altri malati la loro grama esistenza per aiutarsi a vicenda. Esclusi dalla famiglia e dalla comunità religiosa, essi erano considerati peccatori puniti da Dio e la lebbra ne era la terribile dimostrazione; dovevano vivere lontano dalla gente per non contagiare i sani, erano tenuti a segnalare pubblicamente la loro malattia gridando “Immondo, Immondo!” e portando vesti strappate per poter essere facilmente riconosciuti ed evitati da chi li avesse incontrati. Perciò essi non si avvicinano al gruppo composto da Gesù e dai Suoi compagni di viaggio, ma gli gridano la loro supplica da lontano. Quel grido non è dettato solo dalla necessità di superare lo spazio fisico che li separa dal Maestro e muoverLo a compassione, ma rivela anche tutta la tragicità della loro condizione.

Quegli sventurati instaurano subito un rapporto personale con Gesù, perché Lo chiamano per nome. E’ molto raro, nei Vangeli, che qualcuno chiami Gesù per nome; in Luca lo farà il cieco di Gerico gridando: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!” (Lc 18, 38); poi lo farà il “buon ladrone” sulla croce (Lc 23, 42). Anche i lebbrosi lo fanno e aggiungono il titolo “Maestro”, ma non nel significato di Rabbi, bensì nel senso di “colui che sta sopra”, espresso dal termine greco “epìstata”, che Luca pone spesso sulla bocca degli apostoli, e Lo supplicano: “Abbi pietà di noi!”.

Mentre solitamente Gesù si avvicina per primo ai malati per confortarli e guarirli, stavolta non è Lui a prendere l’iniziativa, ma lascia che siano i lebbrosi a invocarLo; anzi, anche Lui risponde loro da lontano: “Andate, mostratevi ai sacerdoti”. Che strano comportamento da parte del Maestro! In questa circostanza Gesù agisce diversamente da come aveva agito nella precedente occasione in cui aveva guarito un lebbroso (Lc 5, 13 ss). Allora Egli aveva risposto subito alla preghiera di guarigione del malato: “Lo voglio, sii risanato!”, invitandolo dopo a mostrarsi al sacerdote e a fare l’offerta per la purificazione imposta da Mosè; ora si limita, e da lontano, a raccomandare ai lebbrosi di adempiere agli obblighi di legge prima ancora di averli guariti. Forse vuole liberarsi di loro? Ma allora che senso ha l’ordine di Gesù se non c’è stata la guarigione? Secondo la norma contenuta nei capitoli 13 e 14, del Levitico solo i sacerdoti sono competenti a diagnosticare la malattia e ad accertare l’avvenuta guarigione da cui dipenderà la riammissione dell’interessato nella comunità sociale e religiosa.

Allora, se non c’è stata la guarigione, che significato ha l’ordine di Gesù: “Andate e mostratevi ai sacerdoti”? In realtà Gesù propone a quei poveretti un cammino di fede mettendo loro davanti una scelta esistenziale profonda: avere fiducia in Lui “a scatola chiusa” e infatti “avvenne che, mentre andavano, furono mondati”, perché tutti e dieci si sono fidati di Lui e, insieme alla guarigione, hanno ricevuto anche la purificazione che li rende degni di essere riammessi nella comunità. Gesù è venuto per tutti e a tutti offre la Redenzione.

“E avvenne che mentre andavano furono mondati” Tutti hanno superato la prova della fede, ricevendo il dono, più che della guarigione, della purificazione che li rinnova totalmente rendendoli meritevoli di essere reinseriti nella famiglia e nella società. Gesù ha guarito tutti, perché a tutti si rivolge il Suo messaggio di salvezza che va di pari passo con la guarigione.

Ma Dio chiede agli uomini una risposta libera e responsabile alla Sua Promessa e il testo evangelico lo sottolinea immediatamente: “Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo”.  Tutti i dieci malati erano stati guariti, ma uno solo ha sentito l’impulso spirituale di ringraziare Dio per il beneficio ricevuto. Il testo non dice cosa hanno fatto gli altri, ma lo possiamo facilmente immaginare: nel loro limitato orizzonte mentale, essi si sono sentiti “redenti” e “salvati” con la sola guarigione fisica che li reintegrava nel mondo puramente terreno e materiale dal quale erano stati esclusi, non hanno capito che la guarigione fisica si realizza parallelamente con la guarigione dello spirito, con la gratitudine a Dio che l’aveva consentita e con il riconoscimento del Messia nella figura dell’Uomo che li aveva guariti. Insomma, non sono stati capaci di raggiungere la pienezza della Fede, la sola che salva.

Ma uno, no. Uno solo torna indietro prima di presentarsi ai sacerdoti e, mentre i suoi compagni non ne sentono affatto il bisogno, lui “glorifica Dio a gran voce” perché, a differenza degli altri, ha incontrato Dio di persona. Mentre prima aveva solo “alzato la voce” come gli altri per farsi sentire da Gesù, ora “grida” la sua gratitudine a Dio, Gli rende gloria e Gli si prostra ai piedi per ringraziarLo[3]. E’ autentica Fede quella che riconosce in Cristo lo strumento della potenza di Dio, perché per il poveretto la gratitudine e la lode a Dio si dimostrano più importanti dell’assolvimento degli obblighi di legge in caso di guarigione. Il pover’uomo è stato capace di compiere un atto di intensa apertura interiore: ha capito che il dono della guarigione non è fine a se stesso, ma è solo uno strumento di realizzazione della comunione con Dio.

A questo punto l’Evangelista precisa che quest’uomo “era un Samaritano”, uno  “straniero” per il popolo di Israele, un poveraccio probabilmente disprezzato ed emarginato dagli Ebrei “in regola” con la legge, forse appena tollerato dai suoi stessi compagni di sventura. Anche Gesù si stupisce: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornassero a dar gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” La Sua è un’amara sorpresa, perché Egli ha visto il divario tra la salvezza offerta a tutti e la riconoscente risposta di uno solo. D’altronde Egli non può far altro che prendere atto della realtà, perché Dio ha donato a tutti la libertà di accogliere o respingere il Suo amore. Però la Sua delusione è grande e Gli provoca una grande tristezza perché nei nove ingrati Egli vede gli uomini di tutti i tempi che respingono lo Spirito.

“Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!”. Con queste parole di Gesù, sconvolgenti e vivificatrici, Luca conclude l’episodio dei lebbrosi. Gesù aveva rivolto queste parole anche alla “peccatrice” (Lc 7, 50), all’emorroissa (Lc 8, 48), al cieco di Gerico (Lc 18, 42). In tutti questi casi Luca mette in risalto un forte rapporto dell’individuo risanato con Gesù. La peccatrice mostra un amore riconoscente; l’emorroissa professa la sua fede toccandoGli un lembo del mantello; il cieco di Gerico lo chiama per nome e poi Lo segue glorificando Dio.

E gli altri nove lebbrosi? Questi sono tornati in regola con la Legge, ma non hanno capito che l’Atto di Fede contiene più di una formale obbedienza alla Parola di Dio ed è un fatto tipicamente personale. Non per nulla Gesù dice: “La TUA fede ti ha salvato” per rilevare che essa deriva da quella scelta precisa del Samaritano che lo unisce per sempre a Dio. Infatti l’originale greco (nonché la traduzione latina della Vulgata) della forma verbale “ti ha salvato” è al tempo “perfetto” (in italiano “passato remoto”) sia in greco che in latino, per indicare la continuità della grazia salvifica che accompagna costantemente l’uomo che rimane fedele a Dio.

Possa il Signore aiutarci sempre a fare la scelta giusta e a rimanerle fedeli!

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[1] Il greco di Luca è pieno di ebraismi. In questo caso Gesù, dal vero uomo che è oltre che vero Dio, “indurisce il suo volto”, ossia si concentra nella sua decisione, aggrotta le sopracciglia, assume un’espressione seria e assorta come facciamo tutti noi quando dobbiamo riflettere e prendere una difficile decisione.

[2] Alcuni dicono che Luca si esprime così perché non era molto pratico della Palestina, ma questo non ha importanza ai fini della mia riflessione.

[3] O meglio, più letteralmente: “cadde sulla faccia davanti ai suoi piedi”

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