“(Qui potens est) / dispersit superbos mente cordis sui; / deposuit potentes de sede / et exaltavit humiles.” (Lc 1, 51 – 52).

Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento ch’or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato” (Purgatorio  XI, 100 – 102).

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La triste vicenda umana e giudiziaria che recentemente ha coinvolto Roberto Formigoni ha suscitato in me un’infinità di pensieri e di spunti di meditazione che, a loro volta, mi hanno indotto a cercare di approfondire la mia riflessione sulla natura umana, confermandomi che purtroppo, nel Bene e nel Male, essa si rivela sempre uguale a se stessa.

Naturalmente io, che vivo a Roma, non posso esprimere un fondato giudizio sull’operato amministrativo e politico dell’ex Governatore della Regione Lombardia, né mi permetterei mai di esprimere un giudizio morale su di lui, anzitutto perché in questa materia il solo competente è Dio, e poi perché non l’ho mai conosciuto personalmente, anche se mi sembra impossibile che un cristiano, allievo di quel grande educatore che fu don Giussani, abbia potuto commettere gli errori per i quali è stato condannato dalla Corte di Cassazione all’età di 71 anni. Posso tuttavia ben osservare che queste tristi vicende si sono spesso ripetute nei secoli passati, sia in Italia che nel resto del mondo, e forse si ripeteranno fino alla fine dei tempi. Sono innumerevoli, infatti, gli uomini che, raggiunti i vertici del successo politico e mondano, sono poi precipitati dalle stelle alle stalle ed è inutile che io li citi perché li conosciamo tutti.

Nella natura umana, ferita dal peccato originale, alligna sempre qualcosa che può suscitare, negli uomini (e nelle donne) di successo, l’irresistibile tentazione di travalicare i limiti dell’umiltà, del buon senso, dell’etica, per farli compiacere del successo ottenuto, generando in loro una sorta di delirio di onnipotenza. Questo “qualcosa”, è quello che per i cristiani è il peccato di superbia, annoverato dal Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1866) tra i peccati cosiddetti “capitali” perché sono sempre all’origine degli altri peccati. Essa consiste in un orgoglio smodato, in una sopravvalutazione di se stessi che porta facilmente al disprezzo degli altri e a negare la propria dipendenza da Dio. Allora penso che sia spiritualmente utile per tutti noi riflettere un po’ su quel peccato che, come tutti i peccati, può toccarci tutti e lo farò sotto la guida di un teologo di vaglia: P. Giovanni Cucci S. I.[1]

Il pensiero biblico ha sempre riconosciuto la gravità del peccato di superbia in quanto causa dell’azione malvagia: “L’orgoglio infatti è causa di rovina e di grande inquietudine” (Tb 4, 13); “Prima della rovina viene l’orgoglio / e prima della caduta lo spirito altero. / E’ meglio abbassarsi con gli umili / che spartire la preda con i superbi” (Pr 16, 18). La superbia è il vizio dei “perfetti” o, piuttosto, di coloro che si credono tali e pensano di essere autosufficienti, chiudendosi in tal modo alla salvezza. Non per nulla la tradizione spirituale ci invita a sorvegliare in modo particolare i lati del nostro carattere che (a torto o a ragione) reputiamo “forti”,  mettendoci in guardia dal pericolo di sentirci troppo sicuri di noi stessi: soltanto conoscendo i nostri limiti possiamo mantenere vigile il nostro spirito, coltivando quella consapevolezza interiore che il Vangelo chiama appunto “vigilanza”. Senza la vigilanza, il successo e la prestigiosa posizione raggiunti possono facilmente aprire la porta alla superbia, diventando causa di male e di rovina per l’anima. La gravità di questo peccato è stata sempre riconosciuta dai Padri della Chiesa. Ricordo in particolare un passo di S. Gregorio Magno particolarmente chiarificatore: “La superbia, regina dei vizi, appena ha conquistato il cuore, subito lo consegna per la devastazione … ai sette vizi capitali da cui deriva tutta la moltitudine dei vizi”[2].

La superbia trova un favorevole terreno di coltura presso coloro che occupano posti di prestigio e di governo i quali, per accrescere la propria fama, possono giungere agli eccessi più estremi, anche se ciò che è propriamente malvagio non è l’oggetto materiale dell’azione del superbo, ma la perdita della misura che si verifica quando gli eventi sembrano procedere a gonfie vele. Gli esempi li abbiamo visti nel corso degli ultimi secoli e soprattutto nel XX secolo con le guerre e i disastri provocati dalle dittature.

Paolo invita alla vigilanza: “Quando la gente dirà: “C’è pace e sicurezza” allora d’improvviso la rovina li colpirà” (1 Ts 5, 3). Dante, nell’XI Canto del Purgatorio, mette sulle spalle dei superbi enormi macigni che li schiacciano e li costringono a guardare umilmente sempre in basso, come non sono mai stati capaci di fare in vita e ricorda che la fama e il successo terreno non sono altro che un soffio di vento pronto ad estinguersi. Per S. Tommaso d’Aquino, anche se lo scopo cui mira il superbo non è più grave di altri atti, lo diventa nel momento in cui arriva a opporsi a Dio, che è il sommo Bene, rifiutandosi di sottomettersi alla Sua volontà. E’ il peccato commesso da Lucifero quando, nella sua ribellione a Dio, secondo la tradizione gridò al suo Creatore: “Non serviam!”.

Chi raggiunge posizioni di prestigio, o comunque emerge nella scienza, nell’arte, nella politica, nello spettacolo ed anche nella filantropia, è quasi sempre animato dal desiderio di perfezione perché (come dice S. Ignazio di Loyola) “è proprio dell’angelo cattivo, che si trasforma in angelo di luce … insinuare pensieri buoni e santi, conformi a quell’anima retta, e poi a poco a poco procurare di uscirne, trascinando l’anima nei suoi inganni occulti e perverse intenzioni”[3]. Per questo la superbia è il peccato più grave, perché da esso può scaturire qualsiasi azione malvagia; essa è alla base dell’avarizia, perché chi accumula vuole affermare la propria eccellenza; genera l’invidia e la gola, come nel caso di Adamo ed Eva, invidiosi di Dio e attirati dal frutto proibito, che appariva loro “buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza” (Gen 3, 6); indirettamente genera anche la lussuria perché il superbo si sente in diritto di possedere sessualmente tutte le donne che vuole e si offende (e spesso si vendica) se esse lo respingono. Insomma, è il disprezzo di Dio che si manifesta sotto le diverse forme.

Gregorio Magno elenca quattro forme di superbia: 1) quella di ritenere se stessi la ragione unica di ogni successo; 2) quella di chi, pur credendo in Dio, pensa che tutto ciò che ha ottenuto sia dovuto solo al proprio merito; 3) quella di chi vanta capacità che non possiede; 4) quella di chi disprezza coloro che non possiedono le sue capacità[4]. Il santo Papa, per descrivere la superbia ha creato l’immagine, diventata un classico nei testi di morale e di spiritualità, di un conflitto all’ultimo sangue, perché il “nemico” si traveste da amico, si insinua nelle buone azioni, sporca i discorsi più ascetici e spirituali, influenza le azioni più giuste e più sante.

Così l’uomo può essere tentato di contemplare quanto egli stesso sia valoroso e grande dimenticando che l’unica fonte del Bene è Dio.  Lo ha ben spiegato Gesù quando, alla fine del Discorso della Montagna, predice che nell’ultimo giorno Egli “non riconoscerà” coloro che, pur avendo vissuto, agito e profetato nel Suo Nome, non erano mossi dall’Amore, unico motore dello spirito che provenga direttamente da Dio, ma solo dalla propria vanagloria  e li chiama addirittura “operatori di iniquità” (Mt 7, 22 – 23), perché la superbia può trovarsi anche alla base delle opere buone e umanamente apprezzabili, che però spiritualmente valgono meno di zero.

L’insidia della superbia è immensa perché può presentarsi come nobile ispiratrice di traguardi notevoli, ma non è mossa dall’amore per Dio e per i fratelli, bensì dal desiderio di occupare in Paradiso un posto più in alto degli altri ed è facilmente riconoscibile. Le azioni ispirate alla superbia hanno sempre qualcosa di disarmonico che i Padri della Chiesa hanno individuato con chiarezza.

Per esempio, il superbo vive in costante competizione con coloro che avverte essere superiori a sé e fa di tutto per dirottare su di sé ogni conversazione di cui non sia lui il protagonista. Tutto ciò provoca irritazione negli interlocutori i quali, se azzardano una critica o un dissenso, sono tacitati con uno sguardo di compatimento o di benevola condiscendenza, quando non con una battuta acida[5].

Nel Vangelo Gesù mette spesso in guardia i discepoli dalla figura dei farisei, uomini religiosissimi ma convinti di avere diritto alla salvezza per la loro scrupolosa osservanza della Legge. E quando non arriva il riconoscimento per il bene compiuto, allora spesso, e con sorpresa, lo stesso superbo comprende quale fosse la reale motivazione dello scopo che egli perseguiva. E’ quanto ammonisce il Deuteronomio (8, 2 – 3): “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere … per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi … per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”.

Il desiderio di compiere grandi azioni non è cattivo di per sé e questa aspirazione, già ritenuta degna di stima da parte di Aristotele[6], non è disprezzata neppure da S. Tommaso: “Se il desiderio tende all’eccellenza secondo la regola della ragione divinamente informata, sarà un desiderio retto e appartenente alla magnanimità … Se qualcuno si allontana per difetto da questa norma, incorre nel vizio della pusillanimità; se invece eccede, ci sarà il vizio di superbia, come indica lo stesso nome; infatti insuperbirsi non è altro che eccedere la misura nel desiderio di eccellenza”[7]. La discriminante, quindi, è la “giusta misura” perché il superbo, anche se aspira a compiere le azioni sublimi dei santi, non lo fa certo con umiltà, né accetta di condividere la Croce di Cristo, ma vuole solo far emergere il proprio valore.

Ancora S. Tommaso: “Benché moltissimi compiano atti di virtù per la gloria, non per questo tuttavia l’appetito disordinato della gloria è esente da vizio, perché gli atti di virtù non sono da fare per la gloria, ma piuttosto per il bene della virtù, o meglio per Dio”[8]. Allora Dio è ridotto a strumento di potere, il superbo Lo vuole al suo servizio, come Satana propose a Gesù nelle sue tentazioni.

Inoltre il superbo, ritenendosi al centro di tutto, teme sempre di essere una possibile vittima di persecuzioni, attentati, boicottaggi da parte di coloro che si permettono di non riconoscere il suo valore mentre, d’altro canto, è sensibilissimo alle lusinghe opportunistiche e pronto a credere subito a qualunque falsa lode gli venga rivolta.

Perciò il superbo, nella sua costante tensione di apparire ciò che non è, diventa anche ipocrita e bugiardo. Ma la virtù contrario della superbia non è l’umiltà: è la Carità, perché la persona che vuole essere veramente umile ama. L’amore ci fa uscire da noi stessi, ci fa dichiarare di non essere autosufficienti, di avere a cuore più gli altri che la nostra persona. Proprio il contrario di quello che pensa e fa il superbo.

Il peccato di superbia può essere commesso anche da chi ha fatto voto di castità. Alcuni Padri della Chiesa, come S. Girolamo, S. Agostino e S. Bernardo di Chiaravalle, hanno riconosciuto che “è meglio un incontinente umile che un vergine orgoglioso”[9], perché il vero animo casto è tale non perché è vergine, ma perché è animato dalla Carità e non ha nulla a che fare con la semplice astinenza. E’ il grande rischio che corrono certi celibi e certe nubili che non si sono mai “inginocchiati” davanti a una donna o a un uomo confessando il loro amore e dicendo con tenerezza e abbandono: “Ti amo e non posso vivere senza di te”, perché nel loro caso l’orgoglio è la lussuria dello spirito. Essi credono di non avere bisogno di nessuno.

Padre R. Cantalamessa cita il caso, avvenuto nel XVII secolo, del monastero femminile di Port – Royal –  composto da suore severe e coltissime, ma tanto rigide dottrinalmente da lasciarsi affascinare dal giansenismo – delle quali il visitatore apostolico scrisse nel suo rapporto: “Queste donne sono pure come angeli, ma orgogliose come demoni”[10]. E’ sempre il problema della “giusta misura” di cui parla S. Tommaso.

Il discorso è talmente ampio che non si esaurisce qui. Deo favente, spero di poterci  tornare sopra ancora.

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[1] Giovanni Cucci S.I. “La superbia, l’illusione di essere Dio”, LA CIVILTA’ CATTOLICA, n. 3859 del 2.4.2011.

[2] S. Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, Roma, Città Nuova, 2001, XXXI, pag. 45.

[3] S. Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 332.

[4] S. Gregorio Magno, “Commento morale a Giobbe”, Roma, Città Nuova, 2001, XXXIII, pag. 6, 16.

[5] Nella mia lunga esperienza lavorativa ho conosciuto molti di questi casi e spesso con i miei colleghi ci abbiamo riso sopra, perché il superbo (o la superba) non si rendevano conto di esporsi alla presa in giro. Forse avremmo dovuto praticare quella che il Catechismo chiama “la correzione fraterna”, ma siamo tutti deboli peccatori e per quieto vivere non ci siamo riusciti ….

[6] Aristotele, “Etica Nicomachea”, Milano, BUR, 1996, IV, 7.

[7] Tommaso d’Aquino, “De malo”, q. 8, a. 2.

[8] “De malo”, q. 9, a. 1.

[9] Riferito da P. R. Cantalamessa, in Verginità, Milano, Ancora 1988, pag. 75.

[10] “Verginità2, pag. 75 ss)

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