La tragica vicenda dell’Iscariota

 

“Amen dico vobis: Unus vestrum me traditurus est” (Mt 26, 24).

 “Vae autem homini illi , per quem Filius hominis traditur! Bonus est ei, si non esset natus homo ille!” (Mc 14, 21).

“Vae illi homini per quem (Filius hominis) traditur!” (Lc  22, 22).

 

Le tremende parole riportate dai tre Vangeli sinottici – che Gesù pronuncia nel corso dell’Ultima Cena preannunciando ai suoi commensali che uno di loro sta per tradirlo – sono di quelle che fanno gelare il sangue. E infatti questo devono aver provato i discepoli nel sentirle, tanto che “essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: Sono forse io, Signore?” (Mt 26, 22). Come mai questa inquietante domanda sulla loro fedeltà futura? Non era ancora avvenuta la Resurrezione, non era ancora disceso lo Spirito Santo a dischiudere loro una più profonda comprensione del Mistero di Gesù ma essi, in virtù della Grazia divina che avevano cominciato a ricevere, erano sicuri che il Signore conosceva le loro disposizioni interiori e quello che avrebbero fatto in futuro.

Ma uno di loro, NO. Uno di loro rimane indifferente e continua a mangiare come se niente fosse, “intingendo la mano” nel piatto con Gesù. Questa scena è stata resa mirabilmente dal regista Franco Zeffirelli nel film per la TV “Gesù di Nazareth”.  Giuda (interpretato dall’ottimo attore inglese Ian McShane) è seduto a tavola accanto al Signore e riceve da Lui un pezzo di pane; ha appena sentito le parole di Gesù, ma non sembra che queste lo abbiano impressionato, così come hanno scosso gli altri, tanto che Lo guarda, tacendo, con un’espressione vacua come se Gli dicesse: “Che cosa vuoi ? Che cosa è successo?”,  come se non avesse capito, o voluto capire, che Gesù, parlando del traditore, si riferiva proprio a lui. Pur essendo altamente efficace, la scena si discosta leggermente dalla lettera del Vangelo, perché Matteo (26, 25) precisa che anche lui avrebbe ipocritamente chiesto al Signore: “Rabbi, sono forse io?” ricevendo la Gesù la risposta che lo inchioda: “Tu l’hai detto”. Poi, come riferisce Giovanni (13, 27 – 30) “dopo quel boccone, satana entrò in lui … preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte”.  Quest’ultima annotazione di Giovanni non vuole indicare semplicemente all’ora del giorno, ma allude all’oscurità quale immagine del peccato, del potere delle tenebre che in quel momento iniziava la sua “ora[1].       

Poi Gesù afferma con dolore: “Guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”. Sono parole terribili, assai frequenti nella Scrittura e in particolare nei profeti. Per esempio: “Maledetto il giorno in cui nacqui; / il giorno in cui mia madre mi diede alla luce / non sia mai benedetto”  piange Geremia (20, 14) nel momento culminante della sua sofferenza interiore per vedersi inascoltato dagli abitanti di Gerusalemme. A lui fa eco Giobbe (3, 3) colpito da una serie di sciagure: “Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: e’ nato un uomo! ”. Le parole di Gesù le riecheggiano ma, secondo l’esegesi più moderna, quelle parole non sarebbero maledizioni perché, in effetti, esse suonerebbero male sulle labbra del Figlio di Dio, che non smette di amare Giuda, neppure nel momento in cui quello sta per tradirLo. Sono piuttosto avvertimenti, severi richiami alla  conversione; sono invettive e insieme lamenti pronunciati con dolore da chi continua a sperare che i destinatari di queste parole, cioè coloro che hanno commesso il male, possano fare ritorno a Dio. Sono  un’iperbole che vuole evidenziare la tragica condizione in cui Giuda si è posto volontariamente; egli si dimostra veramente “figlio della perdizione perché si adempisse la Scrittura” come lo definisce Gesù nella Preghiera Sacerdotale (Gv 17, 12).

Queste ultime parole di Gesù sono un richiamo a quanto Egli aveva detto agli apostoli poco prima (Gv 13, 18) citando esplicitamente il Salmo 40 (v. 10): “Anche l’amico in cui confidavo / anche lui, che mangiava il mio pane, / alza contro di me il suo calcagno”. Alludendo al tradimento di Giuda, Gesù vuole rafforzare la loro fede, mostrando che Egli conosceva tutto in anticipo perché le Scritture lo avevano già preannunciato. La figura di Giuda, il traditore di Gesù – come viene tratteggiato dal momento della sua menzione nella lista dei dodici Apostoli da Lui scelti, fino al momento del bacio con cui nell’orto degli ulivi egli consegna il Maestro ai suoi nemici – è una di quelle che nei Vangeli, possono turbare e dare maggiormente da pensare.

Qualcuno ha ipotizzato che tutta la vicenda facesse parte di un misterioso disegno di Dio che non ci è dato di penetrare, ma io dubito che questa ipotesi sia accettabile: Giuda si perse per sua colpa e non perché sia stato Dio a indurlo alla rovina. Dio offre a tutti gli strumenti spirituali per resistere alla tentazione del peccato, dopodiché accettare o rifiutare questi strumenti dipende solo da noi e Giuda li ha rifiutati non prestando ascolto alle parole del Maestro; il suo tradimento matura attraverso i piccoli atti di infedeltà commessi nel non ascoltare i ripetuti moniti di Gesù che lo invitano a pentirsi e a tornare sulla retta via. Persino al momento dell’arresto, dopo aver ricevuto il bacio da lui, Gesù gli rivolge un estremo appello: “Amico, per questo sei qui!” (Mt 26, 50).

Uscendo dalla sala della Cena Pasquale da solo, a quell’ora notturna e senza dare spiegazioni di questo suo strano gesto – come sarebbe stato logico e naturale, data l’importanza dell’occasione per la quale essi si erano riuniti – Giuda è uscito volontariamente dalla comunità degli Apostoli; ma perché se ne va? Forse perché non vuole più ascoltare  le parole di Gesù, che sta facendo di tutto per risvegliare la sua coscienza annebbiata? Ma annebbiata da che cosa, poi? Dal denaro che gli aveva promesso il Sinedrio per il suo tradimento? Dalla delusione per aver creduto Gesù un Messia solo “terreno” e politico? Non erano, questi, motivi molto banali rispetto all’insegnamento che anche lui, come tutti gli altri, aveva ricevuto da Gesù? Per noi, cristiani del XXI secolo, imbevuti di dottrine psichiatriche, psicologiche, psicanalitiche più o meno fondate, l’enigma di Giuda è enorme e proviamo sempre la tentazione di interpretare il suo gesto con motivi totalmente umani e forse di giustificarlo, ma sbagliamo. La verità è che “Satana era entrato in lui” e lui non lo ha scacciato. Questa è l’unica verità e la più semplice.

 Anche più tardi egli ha perseverato nel consentire al Male di completare l’opera di impossessamento della sua anima: vedendo che Gesù era stato condannato, Giuda si pente del suo misfatto (forse non aveva previsto che si arrivasse a tanto) e vuole restituire al Sinedrio il denaro ricevuto dicendo: “Ho peccato perché ho tradito sangue innocente” (Mt 27, 4). Ma il suo non è il pentimento che conduce alla salvezza, perché a lui manca ciò che rende autentica la conversione: il ritorno fiducioso a “Colui che volentier perdona”. Giuda si dispera, non ha fiducia nell’infinita misericordia di Dio e si suicida perdendosi per sempre.

Quale enorme differenza con il rinnegamento di Pietro! Anche la fede di Pietro ha subito una grande prova: proprio lui che, poco prima dell’arresto di Gesù, Gli aveva assicurato: “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte” (Lc 22, 33) poco dopo, nella casa di Caifa, per ben tre volte asserisce di non conoscere il Maestro. In tanto sbandamento, lo sguardo sereno del Signore sostiene la fede di Pietro nella misericordia e nel perdono di Dio e il suo amaro pianto di dolore lo salva.

In questo dramma non si salvano neppure i membri del Sinedrio. Il comportamento dei sommi sacerdoti e degli anziani è spregevole e sommamente ipocrita. Il loro comportamento è contraddittorio: si preoccupano di adempiere scrupolosamente un precetto della Legge – vale a dire non deporre nel tesoro del Tempio il denaro proveniente da un’azione esecrabile – pur essendo essi istigatori e complici di quel crimine.

La drammatica vicenda di Giuda Iscariota è, dopo quella della Passione del Messia, forse la più triste e sconvolgente dei Vangeli perché, accanto al messaggio di gioia e di salvezza che ci portano, ci rivelano anche il pericolo della perdizione e del totale fallimento in cui possono  incorrere coloro che scientemente e volontariamente rifiutano quel messaggio. Del resto, non era stato lo stesso Gesù ad avvertire che l’unico peccato che non sarebbe stato perdonato era il reiterato rifiuto dello Spirito Santo, come fece Giuda?

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[1] Il contrasto tra la luce e le tenebre, l’opposizione del Male al Bene, emerge soprattutto nel quarto Vangelo dove, fin dal prologo, ci viene detto che Cristo era la luce vera che le tenebre non hanno accolto (Gv 1, 5).  

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2 commenti su “La tragica vicenda dell’Iscariota”

  1. La disperazione è proprio il frutto nefasto del male, indurre l’uomo a credere che non vi sia più speranza, nella malattia, nelle cattive azioni, nel dolore, nella perdita di quanto si ha di più caro. E di certo l’aver tradito “il” sangue innocente dopo tanto bene ricevuto deve aver scavato un baratro terribile in quell’anima. Nonostante ciò il Figlio di Dio avrebbe perdonato, se il traditore fosse ritornato a Lui. Ma Il Vangelo sul punto è chiaro, non l’ha fatto. La Madre di Dio, misericordiosa, intercede per quanti non hanno accolto la Divina Grazia, sostenendo tutti i figli nella prova. La nostra risposta è la Preghiera.

  2. Escludo categoricamente un coinvolgimento di Dio nel tradimento di Giuda, come alcune opere hanno asserito. Purtroppo l’uomo è intriso di peccato al quale può resistere o aderire. Evidentemente Giuda non credeva in Gesù e forse non ha creduto nemmeno quando si è pentito della sua malvagia azione. Se avesse creduto forse si sarebbe salvato perché avrebbe chiesto perdono.

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