La vera storia di Aldo Gastaldi, un grande giusto del 25 aprile

Grande attesa, dopo la decisione della Curia Arcivescovile di Genova di aprire la causa di beatificazione dell’eroe della Resistenza e Medaglia d’Oro Aldo Gastaldi, nome di battaglia “Bisagno”, morto misteriosamente, all’età di soli 24 anni, all’indomani della Liberazione

L’arcivescovo di Genova, cardinale Angelo Bagnasco, nel mese di giugno ha dato il via alla causa di beatificazione di Aldo Gastaldi, “Bisagno”, primo partigiano d’Italia e medaglia d’oro della Resistenza. Ne ha dato notizia la Curia Arcivescovile di Genova attraverso il settimanale cattolico diocesano “Il Cittadino”. (Vedi anche la notizia su Il Giornale). L’editto arcivescovile invita «a comunicare direttamente o a far pervenire al Tribunale Ecclesiastico Diocesano tutte quelle notizie dalle quali si possano in qualche modo arguire elementi favorevoli o contrari alla fama di santità del Servo di Dio». Alla figura di “Bisagno” lo scrittore e storico Luciano Garibaldi, nostro collaboratore e autore della rubrica mensile “Memorie di un’epoca”, ha dedicato grande attenzione e cura, facendone il principale protagonista del suo libro «I Giusti del 25 Aprile» (Ares, 2005), ristampato in varie, successive edizioni. Riproponiamo, in questa circostanza, quanto Luciano Garibaldi scrisse, nelle sue “Memorie di un’epoca”, il 30 aprile 2016

 

 

Morto all’indomani della Liberazione, all’età di 24 anni non ancora compiuti, Aldo Gastaldi, nome di battaglia  «Bisagno», Medaglia d’oro al Valor Militare, il più luminoso ed eroico esponente della Resistenza sull’Appennino ligure-emiliano, passato alla storia come “primo partigiano d’Italia», era animato da una profonda, sentita e vissuta fede cattolica. Quelli riassunti in questo articolo sono gli aspetti forse meno conosciuti della sua eroica testimonianza. Incominciamo dal mitico «codice di Cichero» (dal nome della località sopra Chiavari nella quale «Bisagno», con i suoi soldati, diede inizio alla Resistenza, all’indomani dell’8 settembre 1943, dopo avere portato con sé le armi della caserma del Genio dove prestava servizio come ufficiale). Tra i punti principali del «codice», c’erano i seguenti:

– è severamente proibito toccare le donne che non lo desiderano;

– sono rigorosamente vietati bestemmie e turpiloquio.

«Bisagno», da sempre cattolico convinto e osservante, scrisse in proposito, in una direttiva ai suoi uomini: «La bestemmia è, per chi crede, una abiezione e, per chi non crede, una stupida inutilità. In ogni caso è simbolo di pervertimento». Sempre in ordine alla fede religiosa di Gastaldi, vale riportare il seguente aneddoto riferito dal figlio del partigiano Roberto Pisotti, nella cui abitazione a Barchi, in alta Val Trebbia, provincia di Piacenza, «Bisagno» si era recato il giorno di Natale 1944. Vicino alla casa di Pisotti c’era una piccola fontana completamente ghiacciata. Lui voleva andare a Messa e ricevere la Santa Comunione. Ruppe il ghiaccio e si lavò il busto e il viso per presentarsi pulito alla Messa di Natale.

Non meno significative le sue raccomandazioni ai compagni di contenere la violenza bellica cercando di risparmiare la vita del nemico e la più volte riaffermata intenzione di riappacificarsi con i fascisti all’indomani della fine delle ostilità.

Nel giugno 1944, Gastaldi, alla testa dei suoi uomini, assaltò la caserma di Rovegno della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) prelevando armi, esplosivi e indumenti, senza colpo ferire. A Ottone decise di liberare da solo alcuni dei suoi uomini fatti prigionieri dai fascisti, proprio per evitare che si verificasse una strage. Dopo avere strisciato pancia a terra nel campo che i custodi-carcerieri utilizzavano come latrina all’aperto (e che perciò nessuno sorvegliava), tornò alla propria base sporco in maniera indecente, ma con i compagni liberati.

«L’arco portante della costruzione umana di Aldo», ha ricordato Dino Lunetti, suo cugino e suo compagno di guerra nella Resistenza, «era la fede cristiana. Aldo credeva, con profonda convinzione, in Dio essere supremo da cui tutto e tutti dipendono, lui per primo; credeva in un Dio di amore di cui si sentiva figlio. In una lettera inviata il 2 maggio 1941 ai genitori aveva scritto: “Sono ormai convinto che un Supremo Fattore, tanto invocato specialmente da Te, Mamma, venga a regolare i miei avvenimenti, tutti i miei avvenimenti e quelli della nostra famiglia”».

Il carteggio con i genitori è la prova documentale della fiducia che «Bisagno» nutriva in Dio. Aveva capito che la vera forza di un uomo non sta nell’accanirsi a perseguire obbiettivi propri, quanto nel saper accettare con fiducia la volontà di Dio, anche quando si manifesta in aperto contrasto con quella umana: «È necessario», scrisse in un’altra lettera, «sapersi contenere, saper prendere tutte le cose dal lato buono, e, soprattutto, saper confidare in Dio». E ancora: «Carissimi, se a Genova facevo una vita regolare, qui la faccio regolarissima. Credo di essermi tolto quel poco di ingiusto che ancora era in me». Nel maggio ’42 dovette affrontare una fastidiosa malattia. Uscitone, scrisse: «Il resto del mese l’ho passato abbastanza bene e ne ringrazio la nostra Madre e Patrona, nonché Signora di questo gentile e ormai trascorso mese di maggio». Religione e poesia.

«È nella fede di mio cugino», ricordava ancora Dino Lunetti, «che si può concepire la straordinarietà della sua figura. Solo una fede eccezionale può guidare un uomo a imprese eccezionali. Chi l’ha conosciuto ne ricorda l’indomita tenacia: ebbene essa poggiava sull’assoluta certezza che, agendo rettamente, l’aiuto di Dio non gli sarebbe mai venuto meno, per un risultato finale sempre e soltanto buono, al di là di ogni apparenza. Scriveva ai genitori il 3 agosto del 1943: “Mi auguro che tutto prosegua per il meglio; Iddio fin qui mi ha guidato, e sarà sempre la mia sicura Guida”. Siamo di fronte alla riaffermazione di un rigore morale elevato a stile di vita».

Ma il vero capolavoro della vicenda storica e militare di “Bisagno”  rimarrà per sempre il «recupero» alla guerra di liberazione di una importante unità della Divisione Alpina «Monterosa», il Battaglione «Vestone», che aveva all’attivo una brillante tradizione militare risalente alla Prima Guerra Mondiale.

La «Monterosa» era una delle quattro Divisioni dell’esercito di Mussolini formate in Italia dai ragazzi di leva e addestrate in Germania. Il Battaglione «Vestone» era impegnato sull’appennino ligure-emiliano. In più occasioni «Bisagno», travestito da alpino, si era intrufolato nei ranghi della formazione per sondare le possibilità di defezione dei ragazzi con i fasci alle mostrine. Alcuni alpini lo avevano subito seguito, altri erano rimasti nella formazione come suoi informatori e propagandisti. E finalmente, dopo una serie di incontri segreti con gli ufficiali della formazione, l’intero Battaglione, con alla testa il suo comandante, maggiore Cesare Paroldo, il 4 novembre 1944, data simbolica perché anniversario della vittoria italiana del 1918 sugli austro-tedeschi, era entrato a far parte della Divisione «Cichero» con armi, salmerie, carriaggi e radio da campo: caso unico durante tutto il corso della guerra civile, ufficializzato con questo solenne ordine del giorno della Divisione «Cichero»: «Stamani, nell’anniversario dell’armistizio che l’Italia ha imposto all’esercito austro-ungarico e tedesco nella Grande Guerra, il Battaglione alpino “Vestone” è passato al completo nelle file della terza Divisione Garibaldina “Cichero”. Gli Alpini hanno così ritrovato la vera Italia, quell’Italia nostra e onesta che combatte sui monti per la sua libertà. Il Comando della terza Divisione Garibaldina “Cichero” saluta gli Alpini del Battaglione “Vestone” e plaude al loro gesto, alla ritrovata fraternità nel nome dell’Italia».

Parole per nulla gradite dal comando delle Divisioni «garibaldine», che faceva capo al Partito comunista e predicava non la pacificazione con i fascisti ma il loro sterminio. Fu l’inizio di un’aspra contrapposizione tra gli uomini di «Bisagno» e quelli con il fazzoletto rosso al collo, culminato in un confronto a mani armate nella località appenninica di Fascia, che non si concluse nel sangue solo per la ferma condotta di Gastaldi. Risale a quell’evento l’abitudine di «Bisagno» di dormire ogni notte con la pistola sotto la testa non per paura dei nazi-fascisti ma dei partigiani comunisti.

«Bisagno» morì, ventiquattrenne, mentre riportava a casa, per restituirli alle loro famiglie, i ragazzi del «Vestone». Sulla strada costiera del lago di Garda, cadde dal camion sul quale viaggiava e – così narra la vulgata – fu schiacciato dalle ruote. Ma 60 anni dopo, il suo cugino e compagno di battaglie Dino Lunetti, in una intervista concessa a Riccardo Caniato e pubblicata nel mio libro «I Giusti del 25 Aprile» (edizioni Ares), demolì tale versione fornendone una molto più verosimile: avvelenato fino a fargli perdere i sensi e farlo precipitare. Silenzio sul libro e sulla rivelazione di Lunetti. Ma l’anno seguente, su proposta dell’ANPI (partigiani comunisti), i resti di “Bisagno”, fino a quel momento dimenticati, furono traslati nel Famedio degli Eroi, nel cimitero genovese di Staglieno.

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2 commenti su “La vera storia di Aldo Gastaldi, un grande giusto del 25 aprile”

  1. “Parole per nulla gradite dal comando delle Divisioni «garibaldine», che faceva capo al Partito comunista e predicava non la pacificazione con i fascisti ma il loro sterminio. ” Ma esiste un riscontro documentale di questa affermazione? Perché a me risulta che i comunisti prendessero volentieri i disertori, soprattutto dalle unità di leva (anzi: qualcuno dice che siano stati quelli più di manica larga, nel dare “seconda possibilità”…)

  2. In ogni caso mi chiedo se sarebbe stato meglio non prender parte alla guerra fratricida e onorare Dio e amare gli altri senza armi.

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