La “violenza” nelle parole di Gesù

A diebus autem Ioannis usque nunc regnum caelorum vim patitur et violenti rapiunt  illlud” (Mt 11, 12).

Lex et Prophetae usque ad Ioannem; ex tunc regnum Dei evangelizatur, et omnis in illud vim facit” (Lc 16, 16).

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Rileggendo i Vangeli secondo Matteo e Luca mi sono imbattuta in un’affermazione di Gesù riportata sostanzialmente, con delle piccole differenze, da entrambi gli Evangelisti e sulla quale, in tutta sincerità, non mi ero mai soffermata in precedenza, o che forse mi era addirittura sfuggita, probabilmente perché mi ero più interessata alle precedenti parole che, in Matteo, il Signore aveva dedicato a Giovanni Battista.

Matteo: “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono”; Luca: “La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi”.

Sono rimasta perplessa di fronte a queste strane parole di Gesù: come può il Regno dei Cieli, secondo Matteo, subire violenza da parte delle forze del Male mentre, secondo Luca, tutti sembrerebbero ansiosi di entrare nel regno di Dio?

Come ho detto molte volte, sono appassionata di esegesi della Sacra Scrittura e allora sono andata a documentarmi. Ho scoperto di essere in buona compagnia nella mia perplessità, perché qualcuno ha scritto che “lungo la storia della sua interpretazione il detto registrato in Mt 11, 12 è stato cera nelle mani dei teologi … un testo usato piuttosto che interpretato … utilizzato per così tante cause, che il suo valore risulta indebolito”[1]. Non entro nel merito della questione perché, essendo una cattolica “bambina”, non intendo cimentarmi con esegeti molto più esperti ed agguerriti di me, ma ho ripreso in mano il mio fedele dizionario greco/italiano di Lorenzo Rocci – che tengo sempre vicino a me quando studio il Vangelo – e ho scoperto che il verbo “biàzetai”, derivante da “biàzomai”, compare nel Nuovo Testamento solo in questa occasione, ricordata da Matteo e da Luca, e significa appunto “fare”, ovvero (al passivo) “subire violenza”, “costringere”, o “essere costretto”, a fare qualcosa. Come si dovrà interpretare, allora, questa strana espressione?

Secondo l’interpretazione più antica, che risalirebbe a Ireneo di Lione e a Clemente di Alessandria, quel verbo  potrebbe essere usato in senso passivo con un significato positivo:  “Il  regno dei Cieli (espressione tipica di Matteo) subirebbe la “santa” violenza di coloro che ne godono il frutto a forza di studio, di ricerca, di ascesi portata alla perfezione”. Ma questa interpretazione contrasta con il significato del verbo “biàzomai” che esprime una violenza ostile, connotata negativamente. E’ strano che l’abbiano usata gli antichi Padri che conoscevano il greco alla perfezione! Forse si è imposta per motivi di esortazione ai fedeli, pur comprendendo che il significato era diverso e a questo fenomeno, che io chiamerei “scivolamento di significato”, può aver contribuito il senso del versetto attestato in Luca, secondo il quale ognuno si sforza di entrare (“biàzetai”) nel regno di Dio (espressione, questa, preferita dal terzo Evangelista).

Eppure in Matteo la violenza di cui parla Gesù dovrebbe senz’altro intendersi in senso negativo: da quando Giovanni Battista ha annunciato che Cristo è presente ormai in mezzo agli uomini, le potenze dell’inferno hanno intensificato il loro assalto disperato, che si manifesta nel corso di tutta la storia della Chiesa, come riconosce anche S. Paolo: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6, 12)[2]. La situazione descritta da Matteo sembra rispecchiare i Giudei contemporanei di Gesù, i quali aspettavano la salvezza credendo di averne diritto perché “avevano Abramo per padre”, mentre il Battista li ammoniva dicendo loro che Dio può far sorgere figli di Abramo anche dalle pietre (Mt 3, 9). Così, mentre essi si adagiavamo sugli allori di presunti diritti e meriti di razza, altri – suggerisce, invece, Luca –  si sarebbero impadroniti del regno di Dio con la forza, lottando contro i nemici dell’anima e cioè il “mondo”, il demonio, la carne.

Infatti Luca crea una sorta di parallelismo: mentre nella seconda parte del versetto (“da allora in poi viene annunziato il regno di Dio”) parla della buona notizia del Regno annunciata ai pagani, nella terza parte (“e ognuno si sforza per entrarvi”) precisa che lo stesso Regno vince e produce conversioni sincere. Da un lato, Luca sottolinea l’universalità di questa risposta positiva alla proposta del Regno (“ognuno”); dall’altro sottolinea che Gesù invita coloro che vogliono seguirLo a rinnegare se stessi portando ogni giorno la propria croce (Lc 9, 23) e sembra richiamare un altro celebre detto di Gesù: “Sforzatevi di (“agonìzesthe”, letteralmente: “lottate per”) entrare nella porta stretta perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno” (Lc 13, 24).

Mi viene in mente anche un’altra frase pronunciata da Gesù nella Sua discussione con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo: “In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto” (Mt 21, 31 – 32). Gesù vuol dire che i peccatori pubblici hanno il coraggio di “forzare” i precetti religiosi del loro tempo per correre impetuosamente (con “violenza”) incontro all’insperata occasione di salvezza offerta loro da Gesù che “non è venuto a  chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2, 17).

Insomma, il traguardo della salvezza può essere raggiunto solo da chi lotta seriamente e Gesù insegna che riconoscere se stessi nella medesima condizione dei pubblici peccatori è il primo passo per accogliere il Regno. E’ facendo “violenza” a se stessi, vincendo la tentazione del peccato, che si può evitare di equipararsi ai “violenti nascosti”, quelli che sono ammirati da tutti come “persone religiose”, mentre in realtà sono solo “sepolcri imbiancati” (Mt 23, 27).

Nella sua eterna attualità, il Vangelo ci fa capire che ciascuno di noi deve fare una scelta determinante: vogliamo essere dei “violenti cattivi”- che pretendono di entrare nel Regno di Dio senza meritarlo, facendo i propri comodi spirituali e materiali nell’arrogante presunzione di poter adattare la bimillenaria Dottrina  della Chiesa alla scristianizzata filosofia moderna – oppure dei “violenti buoni”, che cercano di entrare nel Regno con tutte le loro forze, partendo dal riconoscersi peccatori e proseguendo nella via del sacrificio personale, dell’obbedienza alla Parola di Dio e nell’accettazione della Croce, confidando nell’aiuto del Padre?

La condizione della Chiesa di Cristo in questo secolarizzato XXI secolo – che sembra volerla far allontanare progressivamente da quella Parola, relativizzandola e subordinandola all’arrogante superbia umana –  rende quella scelta particolarmente drammatica e impellente; ma da quella scelta dipende anche la possibilità di sperimentare un altro detto di Gesù riportato da Luca: “Il regno di Dio è in mezzo a voi” (17, 21), cioè è a disposizione di tutti coloro che lo cercano con umiltà e cuore sincero. Se lasciamo che Dio entri nella nostra anima saremo sempre dei “violenti buoni”.

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[1] P. S  Cameron, Violence and the Kingdom. The Interpretation of Matthew 11, 12. Frankfurt am Main – Bern – New York – Paris 1988, pagg. 155 – 159.

[2] Infatti non è ciò che si verifica anche oggi con la confusione e l’apostasia strisciante che vediamo ogni giorno nella Chiesa di Cristo?

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1 commento su “La “violenza” nelle parole di Gesù”

  1. Mi vengono in mente le due parabole raccontate da San Luca: quella del giudice iniquo che cede alla vedova insistente e quella dell’amico importuno. Esse sono chiaramente un invito da parte di Gesù a chiedere per ottenere. Inoltre lo stesso Gesù esorta: “Chiedete e otterrete, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”, dunque mi pare di capire che il cuore di Dio risponde sempre e si commuove alla “violenza” che gli uomini fanno nei loro bisogni. Ma queste sono tutte richieste che implicano una condizione preliminare, cioè il rifiuto del peccato e il pentimento; tant’è che ogni volta che si inizia una novena, la condizione è quella di essere in grazia di Dio. In un certo senso, per far “violenza” a Dio e ottenere misericordia, bisogna entrare nelle Sue grazie essendone degni. È il minimo che si possa fare.

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