L’isola misteriosa, di Roberto de Mattei – recensione

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Tre racconti concatenati formano un affresco di vita e cultura siciliana prima e dopo il terremoto di Messina del 28 dicembre 1908, e sono di estrema rilevanza non solo per la Sicilia ma per tutta l’Italia. I protagonisti sono figure storiche, come Sant’Annibale Maria di Francia, Sir Alexander Nelson Hood e un professore di igiene di Catania, vedovo di Maria Sciuto-Patti, di cui l’autore non fa il nome ma ha caro il ricordo. Nell’anima del professore convivevano due mondi opposti: il positivismo della nuova Italia che vedeva nella scienza lo strumento di un irreversibile progresso e il clima profondamente cattolico che aveva conosciuto attraverso la famiglia di sua moglie alla quale, dopo la sua prematura scomparsa, si era ancora più strettamente legato.

Alla vigilia del terremoto, attraverso i dialoghi dei personaggi durante la cena domenicale a palazzo Asmundo, dell’arcivescovo di Catania, cardinale Giuseppe Francisca-Nava, si viene dipanando questo dilemma culturale: massoneria contro cattolicesimo. L’obiettivo massonico è quello satanico di distruggere la famiglia, e a questo scopo i massoni vogliono appropriarsi dell’educazione. La massoneria è uno Stato nello Stato, con proprie leggi e applica la pena di morte. Lo stesso fa la mafia, più affine alla massoneria di quanto si creda.

Potente è la descrizione del terremoto stesso e terribile la lettera del professore a suo cognato, l’ingegnere Salvatore Sciuto-Patti, che contiene un accorato e a tratti orripilante resoconto della città devastata. Il sindaco D’Arrigo aveva pienamente ragione di lamentarsi del ritardo nei soccorsi, ma il re si limitò a destituirlo, giocando sul fatto che, comprensibilmente terrorizzato, il sindaco era fuggito rendendosi irreperibile per un giorno. Il prefetto Trinchieri non aveva tardato ad informare il re di questo fatto, con risultati prevedibilmente disastrosi per la carriera politica del sindaco.

La squadra navale russa ebbe, nei soccorsi, un ruolo immenso ed encomiabile. L’ammiraglio russo Ponomareff, senza attendere autorizzazioni dall’alto, ordinò alla squadra sotto il suo comando, due corazzate e due incrociatori, ancorate nel porto di Augusta, di dirigersi immediatamente verso Messina per soccorrere le popolazioni colpite. Per ben sei giorni i marinai russi furono gli unici a portare i primi aiuti ai feriti e ai dispersi, scavarono fra le macerie, salvarono centinaia di persone, trasportarono circa tremila feriti negli ospedali di Palermo, distribuirono cibo e vestiti ai superstiti, mantennero l’ordine. A Messina sono ancora ricordati come “gli angeli russi”. La Marina Italiana Sabauda, arrivò e assunse il comando delle operazioni con vergognoso ritardo solo sei giorni dopo.

Significativo per comprendere lo stato dell’alto clero messinese dell’epoca il colloquio tra monsignor Letterio D’Arrigo Ramondini, arcivescovo di Messina, e Don Luigi Orione, piemontese, che, il 25 giugno 1909, per volontà di Pio X, aveva assunto l’incarico di Vicario papale a Messina. L’arcivescovo non l’aveva presa bene e tratta bruscamente Don Orione, il quale risponde alle poco caritatevoli e scortesi osservazioni del prelato facendo notare la preoccupazione del Santo Padre per la penetrazione dei modernisti a Messina dopo il terremoto. A Messina Don Orione ha incontrato insidie d’ogni genere, fino al tentativo, di un barbiere delinquente, di inoculargli la sifilide per screditarlo. Ma dopo meno di una settimana le preghiere del santo sacerdote avevano ottenuto la guarigione. L’attentato è dovuto alla massoneria? Don Orione sospetta invece il clero stesso, e proprio gli ambienti vicini all’arcivescovo.

Dopo una lunga e ostile discussione, in cui rifulge l’albagìa e la scarsa carità dell’alto prelato, questi congeda con minacce Don Orione e riceve il canonico Di Francia, cominciando subito a rinfacciargli di aver parlato del terremoto come di un castigo di Dio. La risposta del canonico è illuminante. “I peccati dei popoli suscitano l’ira di Dio, il quale usando la spada della sua giustizia suole punire l’umanità con i suoi flagelli, cioè con le guerre sanguinose, con i terremoti e coi morbi sterminatori”. Attento solo all’esteriorità, l’arcivescovo si gloria delle chiese piene e del fatto che “viene alle prediche moltissima gente”, ma il santo canonico lo smonta immediatamente: “I Messinesi riempivano le chiese, ma un povero vecchietto con un campanello nelle mani, passò due giorni prima del terremoto per le vie della nostra città: dinanzi ad ogni porta suonava il campanello e diceva: Signori miei, pregate, pregate, perché verrà un grande castigo”. E, con un colpo d’ala spirituale, apre una prospettiva inattesa sul cataclisma: “se noi potessimo conoscere per un istante, come li conosceremo pienamente nell’eternità, i misteri di grazia e di misericordia che si svolsero sotto le spaventevoli macerie del terremoto, tra le vittime della divina Giustizia e l’infinita Misericordia del Cuore adorabile di Gesù, noi ne resteremmo profondamente compresi di sacra meraviglia! Ah chi può dire quante anime, in quei momenti, ebbero particolare grazia di compunzione e di contrizione. E quante anime furono salve, che senza quel tremendo flagello si sarebbero perdute!”. Non toccato affatto da simili prospettive soprannaturali, il velenoso prelato accusa il santo canonico di essere influenzato dalla “presunta veggente di La Salette”. Di Francia, dopo aver ricordato le complesse vicende che portarono la veggente Melania Calvat a Messina, e infine ad Altamura, in Puglia, cita, con grave irritazione del grande prelato che non accetta correzioni, il terribile messaggio di La Salette: “I sacerdoti, ministri di mio Figlio, con la loro cattiva vita e irriverenza nella celebrazione dei Santi Misteri, con l’amore per il denaro ed i piaceri, sono diventati cloache d’impurità. Sì, i preti provocano la vendetta e la vendetta è sospesa sulle loro teste. Guai ai preti e alle persone consacrate a Dio che con la loro infedeltà e la loro vitta cattiva crocifiggono di nuovo mio Figlio! I peccati delle persone consacrate a Dio gridano al Cielo e richiamano vendetta. Non vi sono più anime generose, non vi è più nessuno degno di offrire la Vittima senza macchia all’Eterno in favore del mondo”.

Perfetto esempio di prelato mondano, sordo agli ammonimenti celesti, presuntuoso e autoritario, l’arcivescovo conclude il colloquio minacciando il santo canonico. Uscito dalla tana dell’orco, Di Francia, su domanda di Don Orione, caritatevolmente, non giudica l’arcivescovo un “fitusu”, anzi dice che non sarebbe “una persona cattiva”, ma che gli manca “spirito interiore, specialmente in rapporto all’umiltà del cuore”. Il che sarebbe già grave per un semplice fedele, ma per un pastore di anime, specialmente dell’alta gerarchia, equivale a una sentenza terribile.

L’autore ci porta poi ad incontrare nuovamente la principessa Maria Cristina Giustiniani Bandini, l’instancabile animatrice delle donne cattoliche, a colloquio con la giovane Angelina Auteri. Più tardi, Donna Angelina (divenuta presidentessa di tale Unione), suo marito e alcuni loro ospiti, subirono un gravissimo attentato all’arsenico (letale per due degli ospiti), e l’opinione pubblica indicò quale mandante del crimine la massoneria.

Mentre in campo cattolico si discute su come far prevalere la Verità e il Bene, gli esponenti del nemico, che non hanno imparato nulla dal salutare castigo divino, sono anch’essi all’opera. Il duca Antonio Colonna di Cesarò e l’avvocato Luigi Fulci dibattono, alla fine di una cena massonica, su quella che rappresenta l’ossessione di tutti questi nemici della Verità: come affossare la Chiesa, e il duca osserva con evidente soddisfazione che all’interno della Chiesa stessa si è aperta la voragine del modernismo, con il quale la massoneria può trovare un terreno d’incontro in una spiritualità laica e adogmatica, esoterica e magica. Fulci dichiara di credere “nella volontà di potenza dell’uomo” (sic), e continua: “L’azione magica ci permette di esercitare una straordinaria influenza sulle energie psichiche della società”. L’ateismo, infatti, non può vincere; è troppo evidente che ci debba essere una Divinità, ma gli agenti del male puntano astutamente a qualcos’altro: a una religiosità contraffatta che apparentemente soddisfi le aspirazioni spirituali dell’uomo, portandolo più o meno inavvertitamente ad adorare il Nemico.

L’ultimo racconto, dal significativo titolo “Sicilia fedele”, inizia con una prolusione del professore all’Università di Catania, che si conclude: “L’uomo moderno quando non è malato, è depresso, è preoccupato, ha perduto il sorriso, aroma dell’esistenza, ha inaridito la sorgente della spontanea gaiezza. Perché quest’uomo corre con tanta fretta, se in mezzo alla via, se al termine della strada percorsa lo coglie improvvisa la gelida verità dell’inevitabile fatum?”.

Segue un’interessante conversazione nel salotto di Sir Alexander Nelson Hood, nella quale viene icasticamente illustrata la tragedia della Sicilia e dell’intero Sud, invaso dalla soldataglia napoleonica, mortalmente offeso dalla vergognosa arroganza inglese, come nel caso dell’arbitraria esecuzione dell’ammiraglio Caracciolo; poi invaso, brutalmente annesso e saccheggiato dai Savoia tramite il losco avventuriero Garibaldi, con il costante e interessato appoggio inglese.

La narrazione si conclude a Taormina, con l’illuminante colloquio tra il professore e il canonico Di Francia, il quale aggiunge importanti effetti di chiaroscuro al magistrale quadro fin qui delineato: “La mafia è la degenerazione del carattere cavalleresco del nostro popolo che oscilla tra le vette della santità e gli abissi del crimine”. L’anima della Sicilia è la fedeltà; molte nazioni perdettero la fede ma non la Sicilia, che “non perdette mai quella Fede che ricevette dai tre vescovi inviati da san Pietro in questa terra, prima di lasciare Antiochia per Roma: san Berillio a Catania, san Marziano a Siracusa e san Pancrazio a Taormina. A questi nomi vanno aggiunti quelli delle sante martiri Rosalia a Palermo, Agata a Catania e Lucia a Siracusa. La Sicilia è anche la terra di cinque Papi, tutti santi: Agatone, Leone II, Conone, Sergio I, Stefano IV”. Degno di nota, ad onore di s. Agatone, il fatto che non esitò, in occasione del III Concilio di Costantinopoli (680-681), a scomunicare e anatematizzare il suo predecessore Onorio I, caduto nell’eresia monotelita.

Memorabile questa definizione: “La vera Sicilia non è quella bizantina, o araba, e neppure quella sveva, ma quella normanna, che ha ricevuto l’investitura regale dal Papa Urbano II e che si è battuta sui campi delle crociate. Nel 1571 La Capitana di Sicilia, comandata dal palermitano Giovanni Cardona, fu a capo dell’avanguardia cristiana in quella battaglia che decise le sorti della Cristianità a Lepanto.” Di grande rilevanza è infine la contrapposizione tra la sana fede nella Provvidenza e quella, malata e fallace, nel progresso. “A chi proclama l’irreversibilità del progresso la Chiesa, ma anche l’esperienza storica, oppone la possibilità della decadenza. La decadenza può avere il suo esito in una catastrofe, come è avvenuto per l’Impero romano. Le civiltà, professore, sono mortali. Solo la Chiesa è immortale, la sua parola sovrasta la storia e la giudica”.

Questa magnifica opera non dovrebbe mancare in ogni biblioteca di chi voglia capire il mondo e la lotta incessante fra il bene e il male che vi si svolge. Vi sono chiaramente illustrati aspetti importantissimi della vicenda italiana e della Chiesa, che illuminano la crisi del mondo attuale. Il professor De Mattei si conferma, con questo libro, non solo insigne storico, ma anche scrittore capace di dare forma narrativo-letteraria di nobile qualità ad un quadro storico affascinante.

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ROBERTO DE MATTEI (2020) L’isola misteriosa, Chieti, Solfanelli 

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1 commento su “L’isola misteriosa, di Roberto de Mattei – recensione”

  1. “Ora io prego quelli che leggeranno questo libro [Secondo dei Maccabei (Bibbia)] che non si scandalizzino per tali sinistri avvenimenti [stragi e feroci persecuzioni di ebrei ad opera di nemici stranieri], ma riflettano che le cose che avvennero, furono destinate all’ammenda e non per lo sterminio della nostra nazione. Infatti è segno di grande benevolenza il non permettere ai peccatori di seguire a lungo i loro capricci, ma l’attuare presto il castigo. Perché Dio non fa lo stesso agli altri popoli, che aspetta pazientemente a punire, quando sia venuto il giorno del giudizio, la misura dei loro peccati essendo colma. Non così Egli ha disposto riguardo a noi, per punirci non aspetta che i nostri peccati siano giunti al massimo. Così Egli non allontana mai la sua misericordia da noi: correggendoci con le avversità non abbandona il suo popolo”.

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