Logos, poesia e musica/prima parte

 

Ogni letteratura nazionale ha i suoi punti di forza. Semplificando al massimo e con una enorme dose di soggettività si potrebbe dire che la letteratura italiana ha più di un punto di forza, nella poesia, nel teatro, nella narrativa. Lo stesso vale per la letteratura inglese che tocca nel teatro vette irraggiungibili, come pure nella narrativa. In Francia la narrativa ha un’importanza straordinaria. Nell’area nederlandofona (Olanda e Fiandre), poesia e teatro raggiungono vette di tutto rispetto. In Germania quella che emerge in primo piano è la poesia, una poesia grandissima.

Un carattere di lunga durata di questa poesia, al di là della storia evénementielle della letteratura tedesca, è che la maggior parte delle liriche è stata musicata. Su un campione di 150 liriche di un’antologia pubblicata da Sansoni, il 68,7% e stato musicato almeno una volta, e il 36% addirittura due o più volte. I musicisti che si sono cimentati in questa attività sono della più diversa levatura, da autori celebri e attivi in molteplici campi musicali come Ludwig van Beethoven, Franz Schubert, Robert Schumann, Johannes Brahms, Richard Strauss e Gustav Mahler, ad uno specialista di Lieder come Hugo Wolf, a musicisti relativamente minori come Reger, Reinecke e Spohr, fino a personalità praticamente sconosciute come Arbach, Ausorge, Breidenstein, Herzogenberger, Knab, Preleberg, Wakknöfer, e tanti altri. Dalla poesia tedesca nasce il Lied: una composizione in cui solitamente due linee melodiche dialogano: la linea del cantante e quella del pianista. Diverse liriche, inoltre, sono musicate in modo diverso: per coro polifonico, quali le cosiddette “Cantate”, o per coro e orchestra, eventualmente con cantanti solisti, come il Lied der Parzen dall’Ifigenia in Tauride e Aber abseits wer ist’s? di Goethe, la Nänie di Schiller, lo Hyperions Schisksalslied di Hölderlin, tutti musicati dall’inarrivabile genio di Brahms, e i Kindertotenlieder di Friederich Rückert musicati da Mahler. Anche compositori non germanici, come l’italiano Gaetano Donizetti (che musicò fra l’altro la lirica Ja ich lieb’ doch meine Liebe, della quale non mi è riuscito individuare l’autore), il francese Thomas e i russi Tschaikowsky e Rachmaninov si sono cimentati a mettere in musica grandi liriche tedesche. Non poche liriche di famosi poeti tedeschi sono state musicate come anonimi canti popolari, ad esempio Der gute Kamerad di Uhland, testimoniando uno slancio verso l’alta poesia in musica che coinvolge non solo i musicisti “colti” ma anche cultori di presumibile livello popolare rimasti anonimi.

Altre letterature hanno poesie musicate, ma di solito la produzione poetica destinata alla musica non appartiene alla grande storia della letteratura. Ricordiamo, ad esempio, le Nuits d’été a l’infrascata musicate da Donizetti (che, come abbiamo visto, si lasciò tentare anche dallo stesso Lied tedesco), o le romanze del Tosti, ma nessuno, per quanto mi consta, ha musicato la Divina Commedia, anche se pare qualcuno la cantasse per le strade già all’epoca del Sommo Poeta. Il “duello di Tancredi e Clorinda” dalla Gerusalemme liberata del Tasso è stato musicato dal Monteverdi, ma, a parte simili rare eccezioni, le principali opere poetiche italiane non sono state musicate. Forse la maggior parte della grande poesia italiana non si presta ad essere musicata. Eppure i grandi musicisti in Italia non sono certo mancati.

A fronte di ciò, la poesia tedesca sembra fluire in modo tipicamente musicale. Poesia tedesca e musica tedesca appaiono come due elementi di un medesimo filone creativo, anche se il poeta e il musicista sono quasi sempre persone diverse. Le eccezioni più evidenti in cui poeta e musicista coincidono sono il Minnesang medioevale, dato che i Minnesänger, a somiglianza dei trovatori provenzali, componevano liriche e musica, il grande operista dell’epoca “Biedermeier” Albert Lortzing (1801-1850) e Richard Wagner (1833-1883) che, nella sua esaltazione per l’“arte totale” si componeva anche i libretti delle opere (fortemente retorici e dal valore poetico piuttosto ineguale).

Perché questa differenza tra la cultura italiana e quella germanica? Potrebbe dipendere da una tendenza all’astrazione, al simbolismo, all’idealizzazione assai maggiore presso i germanici. È un fatto che la filosofia idealista sia una tipica creazione tedesca, anche se non sono mancati gli imitatori anche in Italia. La geografia ottocentesca non avrebbe avuto difficoltà ad affermare che la “solare chiarità mediterranea” porta all’individualismo, mentre le “brume nordiche e le dense foreste” danno luogo ad una visione più astratta e simbolica. Chissà che non vi sia qualche grano di verità, in questa screditata spiegazione deterministica? Fondamentalmente, comunque, non sappiamo la risposta, e il problema resta aperto.

Nell’ambito dell’opera lirica, che è per definizione al tempo stesso poesia e musica, è abbastanza significativo il confronto fra Giuseppe Verdi e Richard Wagner, due compositori assolutamente contemporanei, in quanto entrambi nati nel 1813. I personaggi verdiani sono se stessi e nient’altro, e questo è opera dei librettisti italiani e del loro ambiente, e perciò di tutto un atteggiamento culturale tipicamente italiano: un duetto d’amore tra Alfredo e Violetta nella Traviata, ad esempio (ma ciò vale per tutta la produzione verdiana, e dell’opera italiana in genere), è un dialogo fra due persone precise: lo scapestrato giovane provenzale innamorato della mantenuta d’alto bordo e la donna medesima hanno un’individualità e una storia personale che è loro propria e solamente loro. Un duetto fra due personaggi wagneriani, invece, come ad esempio fra Tristano e Isotta nell’opera omonima, o fra Sigmund e Siglinde nella Valchiria assurge, nelle intenzioni del loro creatore, ad un livello fortemente astratto che discende anche dall’aver trovato ispirazione non in storie personali ma in miti più o meno remoti. Elevato a dimensione cosmica, l’amore diventa eminentemente simbolico:

Winterstürme wichen dem Wonnemond,
in mildem Lichte leuchtet der Lenz;
auf linden Lüften leicht und lieblich,
Wunder webend er sich wiegt;
durch Wald und Auen weht sein Atem,
weit geöffnet lacht sein Aug…

Evidente la dimensione cosmica, panteistica. Per dire “ti amo” qui si scomodano le tempeste invernali, l’estatica luna, la mite luce della primavera, i tiepidi zefiri della primavera medesima, la quale si culla tessendo meraviglie, mentre alita il suo respiro per boschi e prati, e mentre spalancato ride il suo occhio. A parte questi eccessivi voli pindarici tipicamente wagneriani, nella poesia tedesca vi è ovviamente ben altro e di valore ben più elevato.

Si può affermare che nella poesia tedesca è la parola a dettare la musica. Vi è a questo proposito uno straordinario parallelo con il canto gregoriano. In apparenza sembra che il gregoriano abbia poco a che fare con la poesia tedesca, ma non è così. Anzitutto la cultura germanica è legata al gregoriano fin dalle origini, inoltre vi sono importanti paralleli storici sul piano musicale, e la più valida interpretazione teorica del gregoriano stesso è dovuta al grande gregorianista tedesco Godehard Joppich, mentre tanti altri gregorianisti rivelano la loro superficialità interpretativa limitandosi a considerare l’aspetto formale del gregoriano, come se si trattasse di “arte per l’arte”, mentre è invece “arte per la vita”, legata al servizio divino della liturgia.

Appunto sulla scorta dell’insegnamento di Joppich e del suo allievo italiano Guido Milanese, si può dire che quando si parla di canto gregoriano, occorre subito precisare che non si tratta affatto di un’esibizione canora, né tanto meno di una tecnica per “ispirare calma” e “distendere i nervi”, come lo presentava qualche anno fa la farneticazione New Age. L’esecutore gregoriano non è affatto un cantante ma un cantore. Il cantante si presenta ad un pubblico mettendo avanti la propria personalità e le proprie doti, spinte al massimo per far bella figura, magari con l’ausilio di assordante strumentazione elettronica. Il cantore è invece uno strumento passivo della Parola: la sua personalità non conta, conta solo l’annuncio del Verbo cristiano. I testi sono infatti esclusivamente quelli della Sacra Scrittura, tratti specialmente dai Vangeli e dai Salmi, e in latino. Il gregoriano è quindi anzitutto e prima di tutto (1) Parola di Dio, poi (2) rito (ossia preghiera ritualizzata), e infine anche (3) musica.

Per comprendere meglio cosa significhi ciò, è essenziale il concetto di lectio divina. All’uomo medievale, come a quello antico, il nostro modo di leggere sarebbe apparso “lettura silenziosa”, e se qualcuno leggeva in tale modo, suscitava stupore, come quando S. Agostino vide S. Ambrogio leggere senza muovere le labbra, e ne rimase assai colpito, perché era cosa del tutto inusuale. L’importanza del suono, oltre che del contenuto, era un’eredità dell’eloquenza classica. Accostarsi al testo non significava semplicemente accostarsi a qualcosa di scritto, ma ricevere la Parola. Leggere equivaleva a proclamare, era un atto fisico che coinvolgeva tutto il corpo: la Parola era viva, aveva un proprio ritmo e una propria musica. La lectio divina, non partiva dalla presunzione di riuscire a capire il mistero divino, ma dalla fede nella Parola stessa, la quale, in quanto Parola viva, agisce dinamicamente e in modo autonomo sull’anima umana. Tale metodo è esposto in un’epistola del sec. XII, ad opera di Guigo Certosino, dal titolo Scala Paradisi o Scala Claustralium, sive de modo orandi: un’epistola di tale importanza che venne per un certo tempo attribuita a S. Agostino. Ciò dimostra come, almeno nel pensiero, la cultura medievale fosse profondamente unitaria. Nel Medioevo una lettera aveva un alto grado di pubblicità, quello che chiameremmo oggi una “lettera aperta”. Si trattava, in simili casi, di una presentazione di cose note a tutti, che si riteneva necessario formalizzare. Nella “lectio divina” vi erano diverse fasi, che formavano la cosiddetta “scala monastica”:

1) lectio, ossia un attento esame del testo, ascoltato e riascoltato fino ad impararlo a memoria (molti monaci erano in grado di recitare l’intera Bibbia, moltissimi almeno i Vangeli e il Salterio, per cui ciascun monaco era una “concordanza vivente”, capace di individuare le profonde rispondenze fra parti diverse del testo sacro, ad esempio di percepire le concordanze tra la vita, la Passione, la morte e la Resurrezione di nostro Signore profetizzate nel Salterio e nei Profeti dell’Antico Testamento, e i medesimi eventi realizzatisi nei Vangeli);

2) oratio, con la quale si sentiva il sapore della lettura e si chiedeva la grazia di poter comprendere la Parola;

3) meditatio, con la quale si “masticava” il testo, ruminandolo e “digerendolo” (la Parola di Dio, infatti, è cibo dell’anima, cibo vivo e divino che opera autonomamente nell’animo dell’uomo; perciò non ha nulla a che fare con ciò che intendiamo oggi per “meditazione”; non era l’uomo a meditare, al contrario la meditazione monastica era un abbandono alla Parola di Dio);

4) contemplatio, dopo molti anni di esercizio assiduo di queste altissime discipline spirituali, veniva la beatitudine data dal possesso della Parola.

La scala monastica va ben al di là del ragionamento umano, il che non significa affatto che si lasci andare alla semplice emotività. Essa va al di là del pensare umano e del mondo fisico, perché è tesa verso ciò che per definizione trascende la realtà fisica ed umanamente terrestre. Il più sottile argomentare, come pure l’emotività degli affetti umani legati alla terra, non possono cogliere l’Assoluto, che non è riducibile alle categorie umane. La Verità non è un concetto né un’emozione. La Verità è una Persona, è Cristo, è una Presenza reale ed eterna di amore sconfinato. La teologia monastica si distacca quindi nettamente dalla moderna teologia accademica, che studia solo intellettualmente la Sacra Scrittura e la Tradizione, con un distacco “scientifico” che spesso porta al grottesco spettacolo di chierici che gareggiano in scientismo e scetticismo con i non credenti.

Il Salvatore venne nella “plenitudo temporis” la pienezza dei tempi, dice San Paolo (Galati 4, 4). Come si era giunti a tale “pienezza dei tempi”? L’Impero Romano permetteva agevoli comunicazioni e ciò, a dispetto delle persecuzioni, facilitava la diffusione della Fede. Lo sviluppo del diritto romano aveva stabilito i principi chiave della civiltà giuridica, uno dei quali, di immensa rilevanza anche sul piano religioso, afferma “Unus testis, nullus testis”, ossia la testimonianza di uno solo non può essere valida: una Rivelazione che non fosse suffragata da molteplici testimonianze (i Profeti dell’Antico Testamento, i quattro Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le lettere di San Paolo e degli altri Apostoli) non avrebbe valore. In assenza di tale principio, chiunque potrebbe dire: “Un angelo mi ha parlato”, e, in base a questa presunta “rivelazione”, fondare una nuova religione. Ma soprattutto lo sviluppo della parola umana (in greco logos) aveva reso più agevole agli uomini la comprensione del logos divino. Negli ultimi cinque secoli prima di Cristo, infatti, in Grecia e a Roma si sviluppò l’eloquenza (vedi figure come Demostene, Eschine, Cicerone, Quintiliano). Gli uomini della cultura mediterranea, infatti, ormai ammiravano chi sapeva padroneggiare il logos, cioè chi sapeva ben parlare, ed erano perciò disposti a ricevere e comprendere (almeno fin dove è possibile all’essere umano comprendere) il logos divino che è il Figlio, coeterno ed uguale al Padre, e che nella circolazione di amore all’interno della Santa e indivisibile Trinità, come diceva San Martino di Tours, rappresenta la seconda Persona.

 

(fine della prima parte – la seconda parte sarà pubblicata sabato 5 ottobre)

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