Logos, poesia e musica/seconda e ultima parte

 

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La Parola, nella liturgia, usava la musica come veicolo, come strumento per comunicare le verità della Fede e le esperienze mistiche della teologia monastica. Ed era tanto importante che, nella “Lettera ai prelati di Magonza”, i quali, per una sciocca ripicca avevano vietato i canti religiosi nel monastero di S. Ildegarda von Bingen (1098-1179), la santa stessa scrisse queste parole ammonitrici, ancor oggi pienamente valide: “voi e tutti i prelati, dovete sempre stare ben attenti prima di chiudere con un decreto la bocca ai cori cantano lodi di Dio (…….) come il corpo di Gesù Cristo nacque per mezzo dello Spirito Santo dalla verginità di Maria, così anche il canto di lode, che segue l’armonia celeste, è radicato attraverso lo Spirito Santo nella Chiesa. Il corpo è in realtà il vestito dell’anima, che ha una viva voce, e perciò è giusto che il corpo attraverso la voce canti con l’anima lodi a Dio. (…….) Talvolta gli uomini ascoltano un canto, sospirano e gemono, ed è come se si rammentassero (…….) della celeste armonia dell’anima (…….). Coloro che, senza ragioni sicure, impongono il silenzio ad un’assemblea nei canti di lode a Dio, se non si saranno purificati per mezzo di una vera penitenza e di un’umile richiesta di perdono, in cielo saranno privati della partecipazione alle lodi degli angeli, poiché in terra privarono ingiustamente Dio dell’ornamento della Sua lode.”

Il gregoriano ci interessa non solo come esempio di priorità della Parola sulla melodia, ma anche perché nacque in ambiente germanico, a Metz, al confine con l’attuale Germania, nella Francia settentrionale profondamente germanizzata, sotto i regni di Pipino il Breve e di Carlo Magno, circa tra il 760 e l’810. Il vescovo di Metz Chrodegang, curò, su ordine del re Pipino, l’introduzione del canto romano nel regno franco, ma quando i cantori franchi udirono i cantori venuti da Roma (il canto si trasmetteva solo oralmente non essendo stata ancora inventata la notazione musicale), obiettarono che fra parola e musica, non vi era completo accordo, perché i testi erano in latino, ma la melodia derivava dall’ambiente greco-bizantino di Alessandria d’Egitto. Non vi era quindi omogeneità fra l’ispirazione verbale e quella melodica. I cantori franchi, che probabilmente non conoscevano neppure il greco, ma solo il latino, presero a modificare i canti romani sulla base della propria precedente esperienza del canto liturgico franco, che era naturalmente solo in latino, unica lingua della cultura nell’Occidente europeo presso tutti i popoli, neolatini, germanici o celti che fossero. Ne derivò una fusione fra canto romano e canto franco, che divenne il canto proprio della Chiesa, noto come “canto gregoriano”, in onore di papa Gregorio Magno, che però era vissuto due secoli prima. Un canto nato dunque, col preciso intento di far sì che fosse la Parola (e quindi, in questo caso, la lingua latina) a dettare la musica.

Dobbiamo chiederci in che modo la parola “detti” la melodia. Non è facile rispondere a questa domanda, ma alcune ipotesi possono senz’altro essere formulate. Anzitutto la parola crea uno stato d’animo, e questo tende a tradursi in musica. Perfino azioni mute creano stati d’animo, e basta pensare a questo proposito a certe sequenze cinematografiche. Si potrebbe chiamare questa trasmissione emotiva.

Ma al di là di ciò, è forse più significativo un altro fatto. Fino all’alfabetizzazione di massa e alla rivoluzione dei mass media, e quindi, per i paesi più avanzati fino a circa un secolo fa o poco più, la parola aveva uno “spessore” ben diverso. Oggi non siamo più in grado di immaginare, a meno di compiere un grande sforzo, cosa doveva significare vivere in una società dove la parola scritta era rara, dove la maggioranza della popolazione era analfabeta, ma non per questo meno assetata di informazioni, e dove quindi colui che sapeva leggere aveva una sorta di obbligo morale a proclamare la parola scritta, non necessariamente la Parola di Dio, come avveniva nelle chiese, ma qualsiasi testo che potesse avere un certo interesse. Nei “Dolori del giovane Werther” vediamo il protagonista leggere la sera in piazza, ai contadini analfabeti, brani di Omero. Niente radio, niente televisione, ancora molto rari i giornali, ecco che la lettura ad alta voce, sebbene siamo ormai alla fine del Settecento, era fondamentale. La lettura ad alta voce dava fisicità, melodia, voce alla parola scritta, e quando si trattava di un testo armoniosamente poetico, non era difficile trovare il musicista che se ne sentisse ispirato. Si potrebbe chiamare ciò trasmissione melodica.

Nel Medioevo parola e musica erano legati in modo inestricabile. Il canto sacro non accompagnava la Messa, ma era esso stesso la Messa. Infatti è solo nel corso del sec. XIV, in una situazione culturale e morale già deteriorata, che prelude alla crisi della “riforma” protestante, che si cominciano ad avere Messe lette. Ma nel frattempo rinasce il canto secolare con i Minnesänger (in tedesco) e le canzoni dei “clerici vagantes” (in latino). Al di fuori delle chiese si sviluppano le sacre rappresentazioni (in latino o in volgare). In ambiente monastico nasce la mirabile armonia poetico-musicale della grande Santa renana Ildegarda von Bingen, consultata per la sua saggezza da papi e imperatori, e della quale abbiamo visto sopra i sacrosanti ammonimenti contro i prelati che attentavano alla libertà del canto sacro. Nella più famosa delle composizioni di S. Ildegarda, l’Ordo virtutum, alla dolce ed armonica melodia delle virtù personificate, che cantano la gloria di Dio, si contrappongono le urla del diavolo che cerca di strappare l’anima alla via della salvezza. Il demonio, infatti, tagliato fuori dall’armonia celeste e cosmica alla quale Dio invita le sue creature, a causa della sua invidia, superbia e ribellione, non può cantare, può solo urlare.

La “riforma” protestante spezzò l’unità dell’Europa e in particolare dell’area culturale germanica, ma condusse anche all’emergere della lingua tedesca come lingua colta, con la traduzione della Bibbia, le corali di cui dà l’esempio lo stesso Martin Lutero, oltre, naturalmente, al diffusissimo canto popolare. In area luterana ebbero enorme sviluppo le corali da chiesa e i cori polifonici a cappella. La Sacra Scrittura, Parola di Dio, tradotta in tedesco, da quell’altissima poesia che è in qualunque lingua, ma in particolare in una lingua stupenda quale è appunto il tedesco, ispirò molti fra i più grandi musicisti. Ed ecco quindi nascere capolavori poetici e musicali su testi dell’Antico e del Nuovo Testamento quali il Deutsches Magnificat SWV 494 di Heinrich Schütz (1585-1672), la Matthäus-Passion BWV 244 di Johann Sebastian Bach (1685-1750), l’oratorio Die Schöpfung di Franz Joseph Haydn (1732-1809), il Deutsches Requiem op. 45 e i Vier ernste Gesänge op. 121 di Johannes Bramhs (1833-1897).

Tra il grandissimo Bach e il sublime Brahms si colloca la fase classicheggiante mozartiana e beethoveniana, ispirata essenzialmente alla liturgia massonica. Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), massone, compose molta musica massonica per le diverse “liturgie” della setta, fra cui la “Musica funebre massonica” K 477, la “Piccola cantata massonica” K 623, “Per la chiusura della loggia massonica” K 623a, la cantata Die Maurerfreude (La gioia del massone) K 471. La celebre opera mozartiana Die Zauberflöte (Il flauto magico) altro non è che una iniziazione massonica, in cui la Chiesa cattolica è simboleggiata in chiave nemica e polemica come Die Königin der Nacht (La regina della Notte) e quindi portatrice di tenebre, oscurantismo e arretratezza, mentre Sarastro, il Gran Maestro massonico, è portatore di “luce” e “gioia”, un chiodo fisso dei settari massonici. Ludwig van Beethoven (1770-1827), nel quarto movimento della famosissima e fin troppo esaltata Nona Sinfonia in re minore op. 125, mette in musica l’ode massonica di Friederich Schiller An die Freude (Alla gioia). Perché tutta questa ossessione della gioia? Gioia di chi e perché? Ma del massone, naturalmente, perché, liberatosi del peso molesto della Croce e dei Comandamenti, fa quello che vuole (“Fa’ ciò che vuoi” è anche il motto di iniziazione delle sette sataniche).

Con Brahms, l’ultimo, e forse il più grande fra tutti i giganti della musica nell’età moderna, si può dire che il cerchio si chiuda. La melodia ondulante, di cui aveva dato l’esempio già Franz Schubert, attinge con Brahms vette non più raggiungibili. Se confrontiamo l’andamento delle melodie gregoriane (ad esempio l’Introito della Messa di Natale, Puer natus est), segnate dai neumi, con il tipico moto ondulante brahmsiano (ad esempio la Alt-Rhapsodie op. 53, sul testo del Winterreise di Goethe), è impossibile non notare significative convergenze. E le convergenze non mancano anche in fatto di sentimento religioso, come si conviene ad una religione come quella cristiana, che non conosce confini di spazio o di tempo.

Poesia e musica restano strettamente legate per tutto lo svolgersi della civiltà tedesca, ma questi legami si sciolgono disastrosamente all’inizio del Novecento. L’armonia della musica si disintegra con la “rivoluzione” dodecafonica, anticipata da Wagner in Tristan und Isolde. Parallelamente si dissolve l’armonia della poesia, e non solo sul piano tecnico che vede la scomparsa di metro e rima; no, la decomposizione colpisce più in profondità, rivelando il caos mentale, al quale non sono estranee le atrocità del secolo scorso.

I risultati concreti delle “magnifiche sorti e progressive” parlano chiaro. Nel profetizzare l’avvento dei falsi profeti, Nostro Signore non ha mai raccomandato il “dialogo”, ma la semplice valutazione dei risultati che scaturiscono dalle loro idee. Dalle opere, infatti, si riconoscono i falsi profeti, né può l’albero buono dare frutti cattivi, né quello cattivo frutti buoni. E quali sono stati i frutti del Novecento? Su settanta milioni di martiri cristiani che si contano finora nella storia del mondo, quarantacinque milioni hanno testimoniato col sangue durante il solo Novecento: un secolo che rivela il suo volto diabolico nella violenza, nell’intensificarsi delle guerre, nelle bestiali tirannie, negli spaventosi olocausti, nella perdita del senso del peccato, nella negazione della vita. Non stupisce se il Novecento è anche un secolo artisticamente disastroso, permeato di deliranti dottrine esoteriche miranti a sfigurare l’umanità tentando di cancellarne, se fosse possibile, l’immagine di Dio. La disarmonia, l’imperversante bruttezza in ogni espressione artistica non è che uno dei tanti segni del peggior secolo di tutti i tempi.

La Parola, nella liturgia, usava la musica come veicolo, come strumento per comunicare le verità della Fede e le esperienze mistiche della teologia monastica. Ed era tanto importante che, nella “Lettera ai prelati di Magonza”, i quali, per una sciocca ripicca avevano vietato i canti religiosi nel monastero di S. Ildegarda von Bingen (1098-1179), la santa stessa scrisse queste parole ammonitrici, ancor oggi pienamente valide: “voi e tutti i prelati, dovete sempre stare ben attenti prima di chiudere con un decreto la bocca ai cori cantano lodi di Dio (…….) come il corpo di Gesù Cristo nacque per mezzo dello Spirito Santo dalla verginità di Maria, così anche il canto di lode, che segue l’armonia celeste, è radicato attraverso lo Spirito Santo nella Chiesa. Il corpo è in realtà il vestito dell’anima, che ha una viva voce, e perciò è giusto che il corpo attraverso la voce canti con l’anima lodi a Dio. (…….) Talvolta gli uomini ascoltano un canto, sospirano e gemono, ed è come se si rammentassero (…….) della celeste armonia dell’anima (…….). Coloro che, senza ragioni sicure, impongono il silenzio ad un’assemblea nei canti di lode a Dio, se non si saranno purificati per mezzo di una vera penitenza e di un’umile richiesta di perdono, in cielo saranno privati della partecipazione alle lodi degli angeli, poiché in terra privarono ingiustamente Dio dell’ornamento della Sua lode.”

Il gregoriano ci interessa non solo come esempio di priorità della Parola sulla melodia, ma anche perché nacque in ambiente germanico, a Metz, al confine con l’attuale Germania, nella Francia settentrionale profondamente germanizzata, sotto i regni di Pipino il Breve e di Carlo Magno, circa tra il 760 e l’810. Il vescovo di Metz Chrodegang, curò, su ordine del re Pipino, l’introduzione del canto romano nel regno franco, ma quando i cantori franchi udirono i cantori venuti da Roma (il canto si trasmetteva solo oralmente non essendo stata ancora inventata la notazione musicale), obiettarono che fra parola e musica, non vi era completo accordo, perché i testi erano in latino, ma la melodia derivava dall’ambiente greco-bizantino di Alessandria d’Egitto. Non vi era quindi omogeneità fra l’ispirazione verbale e quella melodica. I cantori franchi, che probabilmente non conoscevano neppure il greco, ma solo il latino, presero a modificare i canti romani sulla base della propria precedente esperienza del canto liturgico franco, che era naturalmente solo in latino, unica lingua della cultura nell’Occidente europeo presso tutti i popoli, neolatini, germanici o celti che fossero. Ne derivò una fusione fra canto romano e canto franco, che divenne il canto proprio della Chiesa, noto come “canto gregoriano”, in onore di papa Gregorio Magno, che però era vissuto due secoli prima. Un canto nato dunque, col preciso intento di far sì che fosse la Parola (e quindi, in questo caso, la lingua latina) a dettare la musica.

Dobbiamo chiederci in che modo la parola “detti” la melodia. Non è facile rispondere a questa domanda, ma alcune ipotesi possono senz’altro essere formulate. Anzitutto la parola crea uno stato d’animo, e questo tende a tradursi in musica. Perfino azioni mute creano stati d’animo, e basta pensare a questo proposito a certe sequenze cinematografiche. Si potrebbe chiamare questa trasmissione emotiva.

Ma al di là di ciò, è forse più significativo un altro fatto. Fino all’alfabetizzazione di massa e alla rivoluzione dei mass media, e quindi, per i paesi più avanzati fino a circa un secolo fa o poco più, la parola aveva uno “spessore” ben diverso. Oggi non siamo più in grado di immaginare, a meno di compiere un grande sforzo, cosa doveva significare vivere in una società dove la parola scritta era rara, dove la maggioranza della popolazione era analfabeta, ma non per questo meno assetata di informazioni, e dove quindi colui che sapeva leggere aveva una sorta di obbligo morale a proclamare la parola scritta, non necessariamente la Parola di Dio, come avveniva nelle chiese, ma qualsiasi testo che potesse avere un certo interesse. Nei “Dolori del giovane Werther” vediamo il protagonista leggere la sera in piazza, ai contadini analfabeti, brani di Omero. Niente radio, niente televisione, ancora molto rari i giornali, ecco che la lettura ad alta voce, sebbene siamo ormai alla fine del Settecento, era fondamentale. La lettura ad alta voce dava fisicità, melodia, voce alla parola scritta, e quando si trattava di un testo armoniosamente poetico, non era difficile trovare il musicista che se ne sentisse ispirato. Si potrebbe chiamare ciò trasmissione melodica.

Nel Medioevo parola e musica erano legati in modo inestricabile. Il canto sacro non accompagnava la Messa, ma era esso stesso la Messa. Infatti è solo nel corso del sec. XIV, in una situazione culturale e morale già deteriorata, che prelude alla crisi della “riforma” protestante, che si cominciano ad avere Messe lette. Ma nel frattempo rinasce il canto secolare con i Minnesänger (in tedesco) e le canzoni dei “clerici vagantes” (in latino). Al di fuori delle chiese si sviluppano le sacre rappresentazioni (in latino o in volgare). In ambiente monastico nasce la mirabile armonia poetico-musicale della grande Santa renana Ildegarda von Bingen, consultata per la sua saggezza da papi e imperatori, e della quale abbiamo visto sopra i sacrosanti ammonimenti contro i prelati che attentavano alla libertà del canto sacro. Nella più famosa delle composizioni di S. Ildegarda, l’Ordo virtutum, alla dolce ed armonica melodia delle virtù personificate, che cantano la gloria di Dio, si contrappongono le urla del diavolo che cerca di strappare l’anima alla via della salvezza. Il demonio, infatti, tagliato fuori dall’armonia celeste e cosmica alla quale Dio invita le sue creature, a causa della sua invidia, superbia e ribellione, non può cantare, può solo urlare.

La “riforma” protestante spezzò l’unità dell’Europa e in particolare dell’area culturale germanica, ma condusse anche all’emergere della lingua tedesca come lingua colta, con la traduzione della Bibbia, le corali di cui dà l’esempio lo stesso Martin Lutero, oltre, naturalmente, al diffusissimo canto popolare. In area luterana ebbero enorme sviluppo le corali da chiesa e i cori polifonici a cappella. La Sacra Scrittura, Parola di Dio, tradotta in tedesco, da quell’altissima poesia che è in qualunque lingua, ma in particolare in una lingua stupenda quale è appunto il tedesco, ispirò molti fra i più grandi musicisti. Ed ecco quindi nascere capolavori poetici e musicali su testi dell’Antico e del Nuovo Testamento quali il Deutsches Magnificat SWV 494 di Heinrich Schütz (1585-1672), la Matthäus-Passion BWV 244 di Johann Sebastian Bach (1685-1750), l’oratorio Die Schöpfung di Franz Joseph Haydn (1732-1809), il Deutsches Requiem op. 45 e i Vier ernste Gesänge op. 121 di Johannes Bramhs (1833-1897).

Tra il grandissimo Bach e il sublime Brahms si colloca la fase classicheggiante mozartiana e beethoveniana, ispirata essenzialmente alla liturgia massonica. Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), massone, compose molta musica massonica per le diverse “liturgie” della setta, fra cui la “Musica funebre massonica” K 477, la “Piccola cantata massonica” K 623, “Per la chiusura della loggia massonica” K 623a, la cantata Die Maurerfreude (La gioia del massone) K 471. La celebre opera mozartiana Die Zauberflöte (Il flauto magico) altro non è che una iniziazione massonica, in cui la Chiesa cattolica è simboleggiata in chiave nemica e polemica come Die Königin der Nacht (La regina della Notte) e quindi portatrice di tenebre, oscurantismo e arretratezza, mentre Sarastro, il Gran Maestro massonico, è portatore di “luce” e “gioia”, un chiodo fisso dei settari massonici. Ludwig van Beethoven (1770-1827), nel quarto movimento della famosissima e fin troppo esaltata Nona Sinfonia in re minore op. 125, mette in musica l’ode massonica di Friederich Schiller An die Freude (Alla gioia). Perché tutta questa ossessione della gioia? Gioia di chi e perché? Ma del massone, naturalmente, perché, liberatosi del peso molesto della Croce e dei Comandamenti, fa quello che vuole (“Fa’ ciò che vuoi” è anche il motto di iniziazione delle sette sataniche).

Con Brahms, l’ultimo, e forse il più grande fra tutti i giganti della musica nell’età moderna, si può dire che il cerchio si chiuda. La melodia ondulante, di cui aveva dato l’esempio già Franz Schubert, attinge con Brahms vette non più raggiungibili. Se confrontiamo l’andamento delle melodie gregoriane (ad esempio l’Introito della Messa di Natale, Puer natus est), segnate dai neumi, con il tipico moto ondulante brahmsiano (ad esempio la Alt-Rhapsodie op. 53, sul testo del Winterreise di Goethe), è impossibile non notare significative convergenze. E le convergenze non mancano anche in fatto di sentimento religioso, come si conviene ad una religione come quella cristiana, che non conosce confini di spazio o di tempo.

Poesia e musica restano strettamente legate per tutto lo svolgersi della civiltà tedesca, ma questi legami si sciolgono disastrosamente all’inizio del Novecento. L’armonia della musica si disintegra con la “rivoluzione” dodecafonica, anticipata da Wagner in Tristan und Isolde. Parallelamente si dissolve l’armonia della poesia, e non solo sul piano tecnico che vede la scomparsa di metro e rima; no, la decomposizione colpisce più in profondità, rivelando il caos mentale, al quale non sono estranee le atrocità del secolo scorso.

I risultati concreti delle “magnifiche sorti e progressive” parlano chiaro. Nel profetizzare l’avvento dei falsi profeti, Nostro Signore non ha mai raccomandato il “dialogo”, ma la semplice valutazione dei risultati che scaturiscono dalle loro idee. Dalle opere, infatti, si riconoscono i falsi profeti, né può l’albero buono dare frutti cattivi, né quello cattivo frutti buoni. E quali sono stati i frutti del Novecento? Su settanta milioni di martiri cristiani che si contano finora nella storia del mondo, quarantacinque milioni hanno testimoniato col sangue durante il solo Novecento: un secolo che rivela il suo volto diabolico nella violenza, nell’intensificarsi delle guerre, nelle bestiali tirannie, negli spaventosi olocausti, nella perdita del senso del peccato, nella negazione della vita. Non stupisce se il Novecento è anche un secolo artisticamente disastroso, permeato di deliranti dottrine esoteriche miranti a sfigurare l’umanità tentando di cancellarne, se fosse possibile, l’immagine di Dio. La disarmonia, l’imperversante bruttezza in ogni espressione artistica non è che uno dei tanti segni del peggior secolo di tutti i tempi.

(fine)

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