Memorie di un’epoca – Il 4 novembre ritorni Festa Nazionale

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Le feste nazionali ufficialmente celebrate in Italia e non legate a richiami religiosi sono tre: 25 aprile (festa della Liberazione), 1 maggio (festa del Lavoro), 2 giugno (festa della Repubblica). Ne manca una, forse, anzi senza forse, più importante di tutte: il 4 novembre, anniversario della nostra vittoria nel 1918, a conclusione della Prima Guerra Mondiale, la “Grande Guerra”. Eppure, fino all’anno 1977 – anche se pochi lo ricordano – la giornata del 4 novembre era anch’essa festa nazionale. Poi – e non si comprende perché – fu declassata. Ora è giunto il momento di ridare al nostro Paese una festa nazionale che sia davvero condivisa da tutti. Una festa che ricordi il completamento della nostra unità nazionale, che celebri il valore e onori le sofferenze del nostro popolo e delle nostre Forze Armate e che – perfino – diventi un momento di abbraccio fraterno con quei popoli che un secolo fa erano nostri nemici ed ora invece sono alleati, i cui soldati scrissero, assieme ai nostri, pagine epiche e dolorose che non possono e non devono essere dimenticate.

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Ma vediamo, in rapida sintesi, che cosa fu e che cosa rappresentò il 4 novembre 1918. Partiamo dal crollo di Caporetto, autunno 1917. Per l’Italia fu un trauma: cadde il governo e i generali incapaci e sconfitti dovettero lasciare il comando. Caporetto, un nome, un marchio, un destino che ancora, dopo oltre un secolo, riemerge nella memoria collettiva di questo strano Paese, l’Italia, che, a differenza delle grandi potenze, sembra avere la memoria fresca più per i momenti di crisi che per i grandi trionfi.

Caporetto, la grande batosta inflittaci nell’ottobre-novembre 1917 dagli eserciti tedesco e austroungarico, giunse a un passo dal fare uscire prostrato il nostro Paese dalla Prima Guerra Mondiale, mutandone forse l’intero esito globale, e si fissò col tempo nella mitografia nazionale accanto ai drammatici momenti della catastrofe successiva, la Seconda Guerra Mondiale, quando nel 1943, dopo l’arresto di Benito Mussolini, il suo successore a capo del governo, il maresciallo Pietro Badoglio, combinò l’armistizio che fece da un giorno all’altro ribaltare l’alleanza dell’Italia con i tedeschi di Hitler per farci passare armi e bagagli dalla parte degli anglo-americani.

Ma torniamo a Caporetto. Quell’evento storico, che dopo oltre un secolo ancora proietta la sua ombra, fu però più complesso di quanto crede il grande pubblico. Caporetto ebbe certamente quella componente di “sciopero militare” che nasceva, nella truppa, dall’averne le tasche piene, almeno dal punto di vista del fantaccino che, oltre al rischio di finire sbudellato dalle schegge di granata, doveva sempre combattere una non meno importante guerra personale contro il fango, le malattie e i pidocchi. Ma lo sbandamento della truppa ebbe origine, prima di tutto, dalla sconfitta militare, dalla constatazione che il nemico avanzava, si infiltrava dappertutto e nel frattempo non giungevano ordini superiori a cui conformarsi.

Lo sfacelo dell’esercito russo, seguìto alla rivoluzione di Lenin, aveva liberato la Germania da ogni impegno sul fronte orientale e le aveva consentito di inviare consistenti rinforzi alla sempre più provata armata imperiale austro-ungarica sul fronte italiano. Tra i giovani ufficiali tedeschi dell’Alpenkorps ce n’era uno destinato a diventare famoso: Erwin Rommel, che comandava i battaglioni alpini del Württenberg. E c’era la 14.a Armata di Otto von Below, appena costituita, forte di 15 Divisioni.

Il 24 ottobre 1917 l’esercito italiano cedette di schianto. Accadde a Caporetto, sotto l’incalzare dell’offensiva austro-tedesca. La 2.a Armata si sfaldò e i suoi reparti ripiegarono in una fuga disordinata, alla «si salvi chi può», giù dalle valli alpine, fin quasi alle porte di Venezia, inseguiti dagli austriaci, ormai convinti di potersi godere la vittoria in gondola sul Canal Grande. La 3.a Armata arretrò invece ordinatamente, una sorta di ritirata strategica, che difatti si interruppe lungo il Piave e sul Monte Grappa, dove, tra il 10 e il 26 novembre 1917, si combatté quella che passò alla storia militare come la «battaglia d’arresto». Fu in quella circostanza, soprattutto, che si misero in luce i Corpi volontari come i «Caimani del Piave» e gli «Arditi», battaglioni formati per lo più da giovanissimi, in gran parte studenti che si batterono per orgoglio nazionale, oppure da profughi delle terre irredente i quali sapevano che, in caso di cattura da parte del nemico, li attendeva la forca.

A spingere questi ultimi era il sacrifico di tanti loro conterranei che avevano già immolato la vita, come i fratelli Carlo e Giovanni Stuparich, triestini; come Cesare Battisti, famoso giornalista di Trento, già deputato, quale rappresentante delle minoranze di lingua italiana, al Parlamento di Vienna, impiccato il 12 luglio 1916 nel castello del Buon Consiglio; come Fabio Filzi, istriano; come Nazario Sauro, sommergibilista; come Damiano Chiesa, ufficiale di artiglieria. In totale, 15 Medaglie d’Oro al valor militare alla memoria.

La rotta di Caporetto e la «battaglia d’arresto» sul Piave costarono agli italiani 40.000 morti e 300.000 tra feriti e prigionieri. Altri 300.000 soldati della 2.a Armata si erano volatilizzati, avevano gettato la divisa ed erano fuggiti verso le loro case, le mogli, i figli, i genitori, inseguiti e braccati dai carabinieri. Se ne troveranno persino in Abruzzo.

La disfatta era costata il posto al primo ministro, Paolo Boselli, dimessosi fin dal 26 ottobre, all’indomani del crollo di Caporetto, e stava spingendo gli alleati ad abbandonare l’Italia al suo destino. Nuovo premier fu nominato Vittorio Emanuele Orlando e nuovo comandante supremo il generale Armando Diaz.

E fu il Re d’Italia, Vittorio Emanuele III, ad imporsi al summit di Peschiera (8 novembre 1917), presenti il premier britannico Lloyd George e il capo di stato maggiore francese Nivelle. Il Re, mettendo in gioco il proprio prestigio personale, rifiutò di aderire alla proposta degli alleati di arretrare fino al Mincio, e convinse invece Lloyd George e Nivelle ad inviare rifornimenti di uomini, armi e aerei. Dopodiché chiese ed ottenne che spettasse a Diaz l’onore di comandare anche i rinforzi alleati: 6 Divisioni francesi e 4 britanniche.

Riassestato il fronte, gli italiani e gli alleati passarono al contrattacco. Nuove forze erano affluite al fronte: erano i «ragazzi del ’99», la leva dell’ultimo anno del precedente secolo: diciannovenni che si battevano senza paura. Anche la Marina italiana compì notevoli imprese: Luigi Rizzo, che combatteva sui mari con i Mas (motoscafi anti sommergibile, ribattezzati in latino da D’Annunzio «Memento audere semper», «Ricordati di osare sempre») e che con uno di essi aveva già colato a picco la corazzata «Wien», affondò, il 10 giugno 1918, la «Santo Stefano» (Szent Istvàn), orgoglio della Marina imperiale austriaca. Il tutto mentre Gabriele d’Annunzio, con una squadriglia aerea levatasi in volo dalla base di Aviano, sorvolava Vienna gettando sulla capitale nemica, anziché bombe, volantini tricolori che inneggiavano alla superiorità degli italiani e invitavano gli austriaci ad arrendersi. L’impresa suscitò una vasta eco in tutto in mondo.

Il 15 giugno ebbe inizio la decisiva battaglia del Piave. Gli austriaci attaccarono con 59 Divisioni, 7500 cannoni e 600 aerei. Diaz li fronteggiava con 40 Divisioni, 9500 cannoni e 900 aerei. Gli austriaci riuscirono a creare numerose teste di ponte sulla riva destra del fiume, ma il 19 giugno gli italiani contrattaccarono e, dopo quattro giorni di furiosi corpo a corpo, il 23 giugno gli austriaci furono costretti ad arretrare, mentre le passerelle e i ponti di barche venivano distrutti uno ad uno.

Il 24 ottobre, a un anno esatto dalla rotta di Caporetto, Diaz lanciò l’offensiva finale. Mentre la 4.a Armata riceveva l’ordine di attaccare sul Grappa, la 7.a Armata attraversava il Piave stabilendo una testa di ponte a Valdobbiadene, e l’8.a Armata avanzava tra le colline di Conegliano. All’alba del 30 ottobre, una colonna di cavalleria e ciclisti occupava Vittorio Veneto spezzando in due tronconi l’esercito austriaco. La notte sul 31 ottobre crollavano le difese austriache sul Grappa e la 4.a Armata entrava a Feltre, avanzando poi sull’altopiano di Asiago e bloccando la ritirata al nemico. Il 3 novembre vide le trionfali entrate a Trento e Udine, e lo sbarco dal mare a Trieste. Il 4 novembre, alle ore 15, l’ultima carica di cavalleria del reggimento Aquila concludeva la battaglia. Poche ore dopo, i plenipotenziari italiani e austriaci firmavano l’armistizio a Villa Giusti (Padova).

La prima guerra mondiale costò all’Italia 680 mila morti, di cui 600.000 soldati e 80.000 civili, e oltre un milione tra feriti e mutilati, su 5 milioni e 200.000 soldati mobilitati. Una ragione più che valida per lanciare la proposta di tornare a fare del 4 Novembre la vera festa nazionale di tutti gli italiani.

Una festa nazionale che sia davvero condivisa da tutti, non come il 25 aprile e il 2 giugno, in cui non proprio tutti gli italiani vi si riconoscono. Una festa che ricordi il completamento della nostra unità nazionale, che celebri il valore e onori le sofferenze del nostro popolo e delle nostre Forze Armate e che –  come ho scritto iniziando questa ricostruzione storica – diventi un momento di pacificazione e di ritrovata fraternità con quei popoli che nel 1918 erano nostri nemici ed ora sono nostri alleati, e i cui soldati scrissero, assieme ai nostri, pagine epiche e dolorose che non possono e non devono essere dimenticate.

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Nota sull’Autore

Luciano Garibaldi è una delle firme più illustri del giornalismo italiano. Giornalista professionista dal 1957, ha collaborato, come redattore e poi come caporedattore, inviato e vice-direttore, a molte testate a diffusione nazionale: i settimanali Tempo e Gente, i quotidiani Corriere Mercantile, Roma, Il Giornale, La Notte, L’Indipendente. Inoltre ha pubblicato su Il Timone, Studi Cattolici, Il Sussidiario, Riscossa Cristiana e Il Nuovo Arengario.

Nel 1968 è stato il primo giornalista italiano a entrare in Cecoslovacchia, invasa dall’Armata Rossa dopo la sfortunata esperienza della “Primavera di Praga”.

All’attività giornalistica Garibaldi ha affiancato un intenso lavoro di saggistica, pubblicando una cinquantina di libri, incentrati soprattutto su Fascismo, Nazismo e sulla seconda Guerra Mondiale, nonché sugli “Anni di piombo” in Italia (da due suoi libri sul giudice Sossi e sul commissario Calabresi sono stati tratti gli sceneggiati televisivi “Gli anni spezzati”, mandati in onda da RaiUno nel gennaio 2014).

È stato il primo scrittore che ha affermato e documentato la “pista inglese” per l’uccisione di Mussolini; il suo contributo di storico è stato determinante anche per riaffermare la verità sull’operato del Venerabile Papa Pio XII a difesa degli ebrei nei tragici anni delle persecuzioni naziste.

Dalla vasta produzione di Luciano Garibaldi, indichiamo qui alcuni titoli tra i più recenti: “Un secolo di guerre” (White Star – De Agostini, ricostruzione delle guerre del Novecento, tradotto in otto lingue tra cui il cinese); “La pista inglese” (Ares, sulla fine di Mussolini e Claretta, ordinata da Churchill ed eseguita dal SOE britannico; il libro è stato pubblicato dalla Enigma Books negli Stati Uniti con il titolo “Mussolini: the secret of his death”); “2017: Fatima centro del mondo” (Mimep Docete, dedicato al centenario delle apparizioni mariane), “Uccidete lo Zar! Lo sterminio dei Romanov” (Gingko Edizioni, 2018).

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