Memorie di un’epoca – La Destra tra passato e presente

 

 

 

Il superamento dell’antinomia Destra-Sinistra fu il leit-motiv dell’ultimo decennio del secolo scorso. Subito dopo la caduta incruenta del muro di Berlino, nel novembre 1989, le élites intellettuali dell’Occidente, comprese quelle italiane, lanciarono lo slogan della “trasversalità”: non le ideologie, ma le cose, la Realpolitik, dividono gli uomini. Era soltanto una moda o l’inizio di una nuova era nei rapporti politici? In verità, si trattò soprattutto di una parola d’ordine lanciata dalla Sinistra come comoda scappatoia dalle proprie responsabilità dopo il rovinoso crollo del comunismo, e non per nulla fu sostenuta da intellettuali, filosofi e politici che nella Sinistra avevano sempre sguazzato, gente che aveva, come si dice con un facile ma eloquente slogan, “il cuore a sinistra e il portafogli a destra”.

L’auspicio è che la Sinistra continui a restare tale: con tutto il peso dei suoi fallimenti, delle sue sconfitte e, soprattutto, dei suoi crimini. C’è stato un tempo in cui la Destra, in Italia, ha rappresentato valori concreti su cui costruire la società. Fu prima che iniziasse la sua demonizzazione. Parlo dei primi Anni Cinquanta del secolo scorso, quando tra i giovani, specialmente nelle Università, si verificò una sorprendente ondata di nazionalismo e di anticomunismo. Parlo con cognizione di causa perché di quella ondata fui testimone e, in parte, protagonista.

Nel 1953, quando il generale inglese Winterton fece sparare sulla folla a Trieste, uccidendo nove giovani che dimostravano per l’italianità della città, “requisita” dagli Alleati al termine del secondo conflitto mondiale, tutta la gioventù italiana scese in piazza. Io ero allora studente a Genova. Con amici come Domenico Fisichella, Piero Vassallo, Gianni Madeo, Giano Accame e molti altri, organizzammo cortei studenteschi, “occupammo” pacificamente le strade cittadine, fummo aggrediti dai comunisti, fuoriusciti dai bassifondi portuali, e ci scontrammo duramente con essi. A Genova, e nel resto del Paese, il nostro “nemico”, allora, come poi e come sempre, era il comunismo. L’atteggiamento del PCI sul dramma di Trieste era ripugnante: voleva consegnare la città ai banditi jugoslavi di Tito, che si erano macchiati del sangue di migliaia di nostri connazionali, gettati nelle foibe. Per questo assaltammo la Federazione genovese del PCI, che era allora in piazza Tommaseo. E fu in quell’occasione che nacque, in molti di noi, il cosiddetto “anticomunismo viscerale”.

Sì, il comunismo era l’antinazione, la personificazione dell’asservimento ad una potenza straniera e sopraffattrice della libertà, il ricordo di una intollerabile violenza fratricida. In noi diciottenni e ventenni di allora giocava pesantemente l’eco recentissima dell’ondata sanguinosa che aveva stravolto il Paese all’indomani della guerra civile. Decine di migliaia di fascisti – che pure avevano perduto la guerra, si erano arresi ed avevano consegnato le armi – erano stati poi assassinati vigliaccamente dai vincitori, anzi da una parte soltanto dei vincitori: appunto, dai comunisti. Era una vergogna unica nel mondo, che non riuscivamo a dimenticare, non potevamo perdonare e – credo proprio, ormai – non perdoneremo mai più, visto anche che, da parte dei comunisti e dei loro figli e nipoti, non c’è stato il minimo atto di contrizione.

Eravamo fascisti? Ma nemmeno per idea. Eravamo sinceramente democratici, credevamo nel valore delle elezioni, volevamo che i politici rispettassero la volontà della maggioranza, e si ponessero al servizio della nazione senza nulla pretendere in cambio, se non la gratitudine dei cittadini. Questa era ed è, essenzialmente, la Destra. C’erano, tra noi, molti che si ispiravano alle idee del fascismo, soprattutto del fascismo della RSI, ma l’amalgama, il cemento che ci teneva uniti era il desiderio di pacificazione, la voglia di farla finita con la stagione dell’odio che aveva visto tanti lutti e tante tragedie nelle nostre famiglie. Poi, si capisce, i nostri nemici, i comunisti, nell’intento di demonizzarci, ci definivano tutti “fascisti”. Facevano – è proprio il caso di dirlo – “di ogni erba un fascio”.

In realtà eravamo soprattutto cattolici, tradizionalisti, controrivoluzionari, cultori della legge e dell’ordine. Per noi, la proprietà privata e la libertà personale erano cose addirittura sacre. E incominciavamo a provare nausea per i partiti politici che, sempre più evidentemente – a cominciare dallo scandalo dell’INGIC – si impossessavano delle risorse pubbliche, facendo poi pagare sempre più tasse ai cittadini, senza che i servizi essenziali funzionassero. Se tutto questo, per i nostri nemici mortali, era “fascismo”, ebbene, ecco perché non potevamo non dirci “fascisti”.

Perché quella stagione non ebbe un seguito, ma rimase soltanto una ventata destinata ben presto a spegnersi? Giocarono potentemente le complicità ciellennistiche, cioé gli accordi spartitori tra le forze del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) che avevano dato vita alla Repubblica, quella che si suol chiamare “la Prima Repubblica”, ma che io preferisco chiamare la “Repubblica di Dongo”. I partiti si impadronirono dello Stato, agevolati da una Costituzione che era stata forgiata proprio per consentire loro di realizzare il più gigantesco bottino della storia millenaria del nostro Paese. Priva di un sicuro punto di riferimento come avrebbe potuto essere la Monarchia, la nazione divenne preda di bande che miravano a spartirsi la torta. Per gli ideali non c’era più posto. Socialcomunisti (come si chiamavano allora) e democristiani iniziarono quel gioco delle parti che poi si sarebbe chiamato “consociativismo” e che consisteva nel depredare le risorse del Paese. Fu allora che molti di noi si estraniarono dalla politica, trasformandosi in una specie di fiume carsico che, per decenni, ha continuato a scorrere da qualche parte, senza però più tornare in superficie. E lasciando così spazio a varie formazioni politiche (“Alleanza Nazionale”, poi “Fratelli d’Italia”; “Forza Italia”; “Lega Nord”, poi “Lega”; “Movimento Cinque Stelle”) che a tutt’oggi non riescono a trovare un netto, preciso e definitivo punto d’incontro.

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1 commento su “Memorie di un’epoca – La Destra tra passato e presente”

  1. Gaetano Fratangelo

    L’ ultima frase dell’articolo merita un’appendice, ove cita “Alleanza Nazionale”. Quel partito ebbe l’ultima occasione per contrapporre una cultura di destra all’egemonia culturale della Sinistra. Ma un tale Gianfranco Fini decise di svendere la Destra ed i suoi ideali, denigrando il concetto di Patria e sminuendo il concetto di clandestino. Fu, poi, punito dall’elettorato.

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