“… dopo la nascita di Cristo non ci saranno più altri eventi di portata universale, perché la storia ha raggiunto il suo culmine”.

in ipso vita erat, et vita erat lux hominum, et lux in tenebris lucet et tenebrae eam non comprehenderunt” (Gv 1, 4 – 5).

Ad hunc finem beatitudinis / homines reducuntur per humanitatem Christi” (Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, III q. 9 a. 2)

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Il Natale del Signore ci invita tutti, cristiani e non cristiani, abitanti di qualunque continente di questo nostro pianeta ormai diventato così piccolo, a riflettere sul significato della nascita di quel Bambino destinato a cambiare la storia del mondo, a cominciare dal computo degli anni, diventato ormai lo stesso in tutti i paesi anche di civiltà non cristiana. Il Natale infatti determina un cesura nel tempo ponendo una divisione tra ciò che è accaduto prima e ciò che è accaduto dopo, smentendo i filosofi antichi e moderni che hanno creduto, o credono, nel mito dell’ “eterno ritorno”; dopo la nascita di Cristo non ci saranno più altri eventi di portata universale, perché la storia ha raggiunto il suo culmine.  La nascita di quel Bambino era, ed è tuttora, la “Buona Notizia” inviata da Dio all’umanità i cui esiti, nello svolgersi dei secoli, sono stati rilasciati completamente alla responsabilità dei destinatari. Quando gli “esiti”  sono buoni, perché gli uomini accolgono senza riserve la Parola di Dio fidandosi completamente di Lui, allora si comprende che ha ben ragione S. Tommaso d’Aquino quando, nella sua Summa Theologiae, asserisce che attraverso l’umanità di Cristo l’uomo raggiunge la salvezza e la felicità eterna.

Infatti in nessun paese, in nessuna civiltà, in nessuna età del mondo è mai comparso un uomo pari a quel giovane ebreo, nato in un angolo della terra sconosciuto alla maggior parte degli uomini e di nessuna importanza politica o  strategica, vissuto solo 33 anni che, con il messaggio. e con le azioni è andato incontro agli uomini di ogni epoca con le parole: “Conoscerete la Verità e la Verità vi farà liberi”. Infatti non c’è mai stato un essere umano che non abbia sentito la necessità di capire che cosa sia la Verità e se essa esista veramente, come condizione per beneficiare dell’autentica libertà. Quelle parole perciò interpellano tutti, sia coloro per i quali quell’Uomo è Gesù Cristo, il Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra redenzione, il Messia promesso dalla Parola indefettibile di Dio all’umanità smarrita, sia coloro che non riescono a ripetere: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, come fece un umile  pescatore ispirato dallo Spirito Santo.

Per questi ultimi Egli fu soltanto un uomo eccezionale, da stimare, da imitare, forse anche da amare (perché no?) al pari del Buddha, di Confucio, di Maometto, di Lao Tze, di tutti i fondatori delle pseudo chiese e delle correnti spirituali (soprattutto americane) che più o meno si rifanno al Cristianesimo, ma “uomini”, solo uomini che hanno creduto, più o meno in buona fede (non mi permetto di entrare nel merito del problema) di avere ricevuto un’illuminazione o un’ispirazione da parte di un Entità che alcuni chiamano Dio e altri lasciano nella nebbia. Ma Gesù – che, per le sue idee scandalose alle orecchie ebraiche, sembrò al mondo uno sconfitto, un perdente, un sognatore meritevole solo di finire crocifisso (“come è possibile che un Dio sia condannato a una morte ignominiosa … ?) – sbaragliò poi tutti quei suoi concorrenti  con un altro evento eccezionale, inaudito alle orecchie umane: la sua Resurrezione in un corpo materiale, fatto di carne e sangue, ma “glorioso”, ossia non più soggetto alle leggi fisiche e temporali conosciute dagli esseri umani. Questi due avvenimenti – la morte in croce di un Dio e la Sua Resurrezione, accettabili solo per fede – sono sempre risultati indigesti a molti pseudo sapienti sia antichi che moderni, tanto che gli esegeti italiani hanno tradotto pudicamente con  i sostantivi “stoltezza”  o “sciocchezza” il termine “μωρία”, che S. Paolo, che non ha mai peli sulla lingua, invece non esita  a usare pur essendo, nella lingua greca parlata al suo tempo, una vera parolaccia dal significato volgare (1Cor 1, 22 ss).

Ma per coloro che hanno accettato in toto la “Buona Notizia”, Gesù è “potenza e sapienza di Dio”, perché (ed ecco il paradosso cristiano) “ciò che è “morìa” di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza degli uomini è più forte di Dio”. Queste parole di Paolo sono sconvolgenti, se ci fermiamo a riflettere su di esse, perché la “stoltezza” o la “sciocchezza” non riguardano solo la morte per crocifissione di Dio e la sua Resurrezione, ma iniziano ben 33 anni prima, quando i tempi stabiliti da Dio per la nostra salvezza divennero maturi, ossia raggiunsero la “pienezza”.

Secondo la Bibbia di Gerusalemme “questa espressione designa la venuta dei tempi messianici o escatologici che colmano la lunga attesa dei secoli come una misura finalmente piena” e in questa venuta la Madre di Gesù ha un ruolo molto importante perché Dio, diventando nostro fratello come uomo in carne e ossa, dovette nascere da una donna, sotto la Legge di Mosè, perché l’eterno amore del Padre ha dato il figlio “perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la Vita eterna” (Gv 1, 1 – 14).

L’evento “Gesù” è storicamente accertato anche dalle testimonianze extrabibliche degli scrittori latini Plinio il Giovane, Tacito e Svetonio, ma dall’indagine storico – critica emerge anche il carattere teologico dei racconti evangelici di Matteo, di Luca e, più in particolare, di Giovanni che presenta il Natale come contemplazione del Verbo “che si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14) .

I Vangeli dell’Infanzia secondo Matteo e Luca ci si presentano come un grande coro polifonico le cui voci sono anzitutto quella del Padre che parla attraverso la voce dell’Arcangelo Gabriele, il Messaggero di Dio, che annuncia a un’umile ragazza ebrea l’imminente verificarsi di un evento eccezionale e inaudito; quella di Maria, che pronuncia il suo Fiat; quella di Elisabetta, la prima a capire che un grande Mistero si sta realizzando; poi c’è Giuseppe, “uomo giusto”, che non parla, ma agisce concretamente per proteggere la sua fidanzata e il Bambino che sta per nascere; poi c’è la voce dei pastori, i personaggi più umili in questo contesto, incolti e analfabeti, senza cultura mondana, disprezzati dai ricchi aristocratici, ma ben più di loro ricchi di “sapientia cordis” perché pronti ad ascoltare la Parola di Dio e ad  accorrere per adorare il Figlio di Lui appena nato. E infine ecco i Magi: scienziati ricchi e sapienti ma non superbi, come tanti loro colleghi antichi e moderni, pronti a studiare senza preconcetti i libri sacri del popolo ebraico (per loro straniero), probabilmente astrologi perché capaci di interpretare i segni celesti. Grazie alla loro disponibilità ad accogliere il Mistero, anch’essi troveranno il Signore e la salvezza.

Se ci caliamo per un momento in quella che doveva essere la realtà di questo dramma a più voci, ci rendiamo conto della stupida inutilità di tutti gli ammennicoli e degli sciocchi fronzoli anticristiani – cominciando dall’ “albero” e da Babbo Natale, che a me sono sempre stati antipatici per il loro significato pagano, e proseguendo con tutte le costose luminarie, le strenne e le pantagrueliche scorpacciate – con i quali nell’ultimo secolo l’Occidente scristianizzato ha ammantato il Natale, impadronendosene e influenzando anche l’Oriente non cristiano per i lauti profitti che esso comporta. Invece la realtà fu molto diversa per quell’umile famiglia di Nazareth.

Anzitutto per Maria, diventata inaspettatamente protagonista di un misterioso evento che, in termini puramente umani, avrebbe dovuto sconvolgere drammaticamente, nella severa società ebraica del tempo, la vita di una semplice adolescente come lei; poi per Giuseppe, uomo profondamente buono oltre che “giusto”. Infatti a me piace pensare che egli fosse anche profondamente innamorato di quella giovane donna, perché aveva capito – ispirato da Dio e come nei secoli successivi avrebbero cantato le Litanie Lauretane  –  che ella assommava in sé tutte le più perfette doti che una donna può avere ed era veramente “tota pulchra”, in quanto non era stata ferita dal peccato originale. Allora Giuseppe, venuto a conoscenza della misteriosa gravidanza della sua fidanzata, rinuncia all’idea di rompere il fidanzamento, sia pure in segreto come aveva progettato perché le vuol bene e non intende esporla all’infamia davanti a una società tutt’altro che caritatevole.

Infatti la situazione iniziale non era certo allegra, se la giudichiamo solo con gli occhi umani, ma Dio non avrebbe abbandonato questi suoi due figli che si erano affidati totalmente alla Sua volontà. Quando Giuseppe comprende che Dio ha assegnato anche a lui un ruolo nel Mistero di cui è stato messo a parte, non esita a sposare Maria, perché accanto a quella verginale maternità occorre una paternità legale che inserisca il Nascituro nella discendenza di Davide (che in quel mondo aveva il valore di un moderno documento di identità) e nella società del tempo.

E’ facile immaginare come dovette svolgersi la nascita del Salvatore. Maria, giunta al nono mese di gravidanza, deve affrontare insieme a suo marito un viaggio da Nazaret di Galilea a Betlemme di Giudea – città di origine di Giuseppe in quanto discendente di Davide – per farsi registrare insieme a lui in ottemperanza al decreto di Cesare Augusto che istituiva il censimento di tutti i sudditi dell’Impero. Questo viaggio non avvenne certo a bordo di una comoda carrozza scortata da servi pronti ad intervenire per ogni necessità della giovane madre, ma sicuramente a dorso di mulo, unico veicolo che poteva permettersi una famiglia povera.

Arrivati che furono a destinazione, “si compirono per lei i giorni del parto” che sicuramente è stato facilissimo, non solo per la giovane età di Maria, ma anche perché il suo “aver trovato grazia presso Dio”, esentandola dal peccato originale, le ha donato anche un parto totalmente verginale, “un parto stupendo” come lo definì Pio XII[1], non nella violenza del dolore, come siamo nati tutti noi, ma nello stupore del Mistero. Quale donna oggi non inorridirebbe all’idea di dover partorire in una stalla, in mezzo alla paglia e avendo vicino due animali, sia pure miti e non certo pericolosi? Infatti  Maria non trovò una comoda clinica dove partorire in piena sicurezza di igiene e di assistenza. Il ricovero delle carovane di Betlemme era affollato e i due poveri sposi dovettero rifugiarsi in una stalla o comunque in una grotta probabilmente adibita al riposo del bestiame, dato che  il Bambino appena nato trovò solo una mangiatoia come prima culla e, secondo una tenerissima tradizione non riportata nei Vangeli, ma nondimeno  molto credibile, nel suo primo sonno fu riscaldato dal respiro di un bue e di un asinello, invece che da calde coperte.

Può la nostra presuntuosa  e saccente generazione, abituata alle comodità e al progresso sociale, scientifico e tecnologico raggiunti nel XXI secolo, immaginare una nascita più povera, umile e precaria di quella descritta in solo versetto dall’Evangelista Luca (2, 7)? La povertà era assoluta: altro che ostetrici, feste, pranzi, costosi regali, panettoni e abeti luccicanti per accogliere il Figlio di Dio che stava nascendo! Il parto di Maria avviene nel silenzio, nell’umiltà, nella povertà, nella solitudine della loro condizione umana, ma nella “ricchezza” immensa della totale e incondizionata fiducia in Dio, condivisa con Giuseppe, e nella consapevolezza che era stato Lui a dirigere gli eventi fino al quel momento e Dio non si contraddice mai. Infatti subito dopo la scena, in apparenza così buia, si illumina di splendore: quella della “gloria del Signore che avvolse di luce” i poveri pastori che sorvegliavano il loro gregge nei dintorni e risuona la voce dell’angelo che annuncia loro “una grande gioia” (Lc 1, 10).

Più tardi arrivano i Magi, i sapienti richiamati dal segno celeste che li aveva guidati dal loro  paese fino alla Giudea. La loro provenienza da “Oriente” (Mt 2, 1) fa pensare che venissero dalla Persia, dove i sacerdoti zoroastriani (detti magi) praticavano l’astrologia e la divinazione. Comunque l’interesse per i Magi nel racconto di Matteo è, come dicevo poc’anzi, soprattutto di carattere teologico: essi rappresentano gli stranieri pagani che diventano anch’essi destinatari della salvezza a causa della loro adorazione e della fede in Gesù. Infatti, vedendo che il segno celeste mandato da Dio non li aveva ingannati, anche essi  “provarono una grandissima gioia” (Mt 2, 10), quella consolazione, quel conforto, quell’incoraggiamento esistenziali che si provano quando si ha la fortuna di incontrare Dio sul proprio cammino.

L’Evangelista Giovanni pone l’accento sia sulle tenebre che sulla luce del Natale: “in Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta”. Il verbo greco che S. Girolamo, nella sua Vulgata, traduce con “comprehenderunt” significa “abbracciare”, “cingere” qualcuno o qualcosa con le braccia, sia come abbraccio amichevole, sia come intenzione ostile finalizzata a soffocare il nemico. Entrambi le interpretazioni possono essere valide: la prima è quella recepita nel testo; la seconda esprime piuttosto l’idea che le tenebre non hanno potuto spegnere o soffocare la luce. E in effetti vi sono momenti nella vita di ciascuno di noi in cui ci sembra davvero di essere immersi nelle tenebre, sia quando siamo colpiti da malattie o da disgrazie familiari, sia quando vediamo che il Male domina il mondo con le guerre, gli odii, le sopraffazioni. Ma sappiamo anche che le tenebre non riusciranno a spegnere la Luce perché Gesù ha detto: “Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 16, 33).  

Per di più Gesù “venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1, 11). A Betlemme quel giorno non c’era posto per Lui perché tutti aspettavano un Messia glorioso, potente, liberatore dai romani. Chi poteva immaginare che il Redentore di Israele si sarebbe incarnato in un bambino identico a tutti gli altri neonati e, per di più, figlio di persone qualunque, povere e prive di prestigio sociale? E invece Lui è venuto nella carne, si è fatto  vedere, udire, toccare, abbracciare per darci la salvezza e la felicità, come dice S. Agostino: “ Io sapevo che la felicità era Dio, ma non godevo di Te (perché non si gode del piacere, si gode quando si è abbracciati) finché, umile, non abbracciai il mio umile Dio Gesù” (Confessiones  VII, 18, 24).

Allora accogliamo nelle nostre vite quel Bambinello e abbracciamolo nel nostro cuore: Lui non desidera e non aspetta altro.

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[1] Lettera enciclica “Mystici corporis Christi” 29.6.1943.

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1 commento su “Natale: la “buona notizia””

  1. Sono devotissima al Bambino Gesù: tengo sempre addosso una piccolissima statua di LUI e tengo tutta l’anno in mostra su un mobile un piccolo PRESEPE: quindi l’abbraccio in continuazione.

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