Ponte Morandi – Il bambino e i titani

 

Tutti gli anni, in autunno, andavamo a visitare il Salone Nautico di Genova. Ero bambino, e mi piaceva tanto andare a vedere tutte quelle barche. Mi piaceva anche la strada per arrivarci. Mio padre si metteva al volante e affrontavamo la Milano-Genova. Il cielo lo ricordo sempre grigio, chiuso da quelle nuvole compatte del pieno autunno, talvolta plumbeo. Guardavo scorrere fuori dal finestrino la tormentata strada, tutta curve e controcurve, tutta ponti, gallerie, viadotti, che si snodavano tra vallate, paesini, boschi, fabbriche, ferrovie. Guardavo affascinato quell’affastellarsi di opera dell’uomo e opera della natura, come una lotta di colpi e controcolpi, parate e risposte dell’uno e dell’altra. Avvicinandosi a Genova la lotta diveniva via via più serrata, con le montagne sempre più aspre e incombenti e le opere dell’uomo sempre più dense e tenacemente avvinghiate ai pendii. Sapevo già che al termine di tutto si spalancava davanti il mare, che ci saremmo finiti dentro, dritti dritti, se quella grande strada, lunga e ostinata, a un certo punto non avesse curvato. A destra o a sinistra, per non tuffarsi nel mare di cobalto che iniziava a intravedersi. Dal sedile posteriore intravedevo il gesto sicuro di mio padre che conduceva con tranquillità la vettura tra le volute di cemento della strada. Ecco che poco prima di giungere alla meta, poco prima del bivio, che noi avremmo preso voltando a sinistra, tra i mille manufatti ed edifici si apriva a destra la valle. Inchiodavo i miei occhietti al finestrino gelato e mio padre diceva: “Ecco… il viadotto sul Polcevera!”. Non vi inseriva aggettivi, ché sempre egli era scevro da retorica, e non usava un tono magniloquente, ma nell’inflessione della voce io vi percepivo l’aggettivo “grande”.

Il muso inchiodato al finestrino destro, dietro il sedile di mia madre, guardavo scorrere rapido quello strabiliante spettacolo. Le antenne dei piloni, immense, si stagliavano candide sul cielo grigio. Vedevo che la strada scavalcava aerea una moltitudine di case sotto di sé, per poi perdersi misteriosamente in lontananza. Coi miei occhi da fanciullo, mi stupiva e mi affascinava che potesse essere ancora più grande, molto più grande delle case sotto di sé. Era grande, dovevo alzare la testa per vederlo tutto mentre vi passavo accanto, ma era al contempo leggero, poche semplici linee, somigliava un po’ a certe costruzioni che assemblavo coi mattoncini. Eppure capivo, intuivo che esso era una grande macchina, che per far stare in piedi un oggetto così immenso, in grado di far volare una corrente di automobili sopra le case, vi dovesse essere racchiusa una sapienza, una complessità profonde. Qualche volta mio padre aggiungeva: “Ne parlavano, quando l’hanno costruito… questa grande opera di ingegneria italiana…”. Ancora non sapevo bene che cosa fosse l’ingegneria, ma capivo che c’entrava con le costruzioni, e con le costruzioni grandi. Capivo che aveva a che fare con quella complessità che portava a toccare il cielo quelle linee, travi, piloni, tiranti. Mi figuravo il tempo mitico della costruzione, quel tempo vissuto da mio padre giovane. Quel tempo, immaginavo, in cui il mondo non era come lo stavo vivendo, come l’avevo trovato, perché c’erano meno cose, perché alcune cose dovevano essere costruite. Ogni anno che ripassavamo e rivedevo il grande “viadotto sul Polcevera”, fantasticavo che c’era stato un tempo in cui quel gigante ancora non esisteva, mi sembrava incredibile, c’era stato un tempo di slancio, di sforzo, di costruzione in cui un titano era stato eretto. L’epoca dei titani, l’epoca mitologica, un’epoca, iniziavo a capire, in cui l’Italia, il mio paese, aveva fatto cose immense, aveva plasmato il mondo come lo vedevo, era arrivata a costruire dei giganti. Un’epoca di favola, certo, ma pur sempre un’epoca che mio padre aveva vissuto. E dunque un’epoca anche un po’ mia, un’epoca di cui anch’io forse facevo un pochino parte… allora, in fondo – avevo la sensazione – ero un po’ mitico anch’io, se io padre c’era mentre tutti insieme costruivano i giganti, anch’io ero un piccolo gigante, anch’io ero un po’ una creatura mitologica… A ogni nuovo passaggio sotto quel cielo autunnale, accanto alla Val Polcevera, mio padre aggiungeva un particolare di quell’epoca mitologica. Io iniziai a prepararmi per tempo, per essere sicuro di non perdermi lo spettacolo quando il gigante sarebbe comparso. Adulto, anni dopo, me conducente, mi sarebbe rimasta questa attitudine, passando ogni volta accanto agli immensi, altissimi piloni con un misto di stupore, timore reverenziale e fierezza. Ecco che cosa il mio paese era stato in grado di fare un tempo, un tempo mitologico.

Rammento vagamente la comparsa dei tiranti neri sopra quelli chiari sul primo pilone. Crescendo ne notai la bruttezza, rispetto a quelli chiari e puliti sugli altri due piloni. Già ragazzino arrivai a domandarmi la funzione: non potevano servire alla struttura, pensavo, perché, essendo i tre piloni identici, li avrebbero posti anche sugli altri due… forse erano cavi elettrici, forse condotte d’acqua…Tante volte avevo visto il grande viadotto sul Polcevera, ma pochissime volte lo avevo attraversato, dovendo quasi sempre andare verso il Levante. Rammento vagamente un ritorno da Nizza, sempre in autunno, sempre con mio padre al volante, in cui il passaggio del ponte era stato un preludio al definitivo abbandono di un mare di cobalto e oro dietro di noi…

L’ultima volta che varcai il viadotto sul Polcevera fu sabato 14 luglio. Stavolta, stranamente, non era autunno. Era una splendida, scintillante giornata d’estate. Dal Levante dovevo andare sul Lago Maggiore e, al volante dell’auto di mia moglie, presi la direzione. Ricordo di aver pensato con una certa soddisfazione: “Oh, farà il viadotto sul Polcevera!”. Presi lo svincolo, contento di percorrere il grande ponte. Rammento il passaggio sotto le enormi pile, che si stagliavano chiare su uno spudorato cielo azzurrissimo. Nuovamente mi incutevano quello stupore di sempre, come a varcare le porte di un regno, come presenziare a un immenso monumento di re. In una manciata di secondi attraversai il ponte, gli occhi alla strada e alle grandi antenne sopra di me, il pensiero al fatto che stessi letteralmente volando sopra la città senza accorgermene… poi continuai per la mia strada.

Esattamente un mese dopo vi fu il crollo. Così tanti vi perirono, trascinati nell’immane caduta. Con il grande viadotto i miei occhi videro inabissarsi quello slancio che aveva portato il mio paese a fare grandi cose, a costruire i giganti. Vidi morire per sempre l’epoca mitica dei titani.

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