Racconti e leggende della nostra tradizione

 

Storie di Revenent, Framasson e Gianpitadé.

 

La cultura popolare di ogni parte d’Italia è intessuta di una quantità di racconti, di miti, di leggende, di fiabe e favole in cui si può intravedere, oltre alla saggezza quotidiana (soprattutto contadina) dei nostri Avi, anche la storia, e la microstoria, delle nostre terre, in cui i temi religiosi avevano una larghissima parte.

Nella parte occidentale della provincia di Cuneo, sia nella sua parte alpina che in quella collinare e pianeggiante – così come in varie altre parti del Piemonte – correvano, soprattutto durante le vijà (le “veglie”) che si tenevano d’inverno nelle stalle e d’estate sulle aie delle cascine, parecchie leggende che avevano come protagonisti figure di fantasia, sotto le quali tuttavia non era difficile scorgere sia più o meno importanti personaggi storici (o almeno realmente esistiti) legati alla storia del territorio, sia personaggi che provenivano da culture di terre lontane e della cui esistenza reale in un tempo passato non si dubitava minimamente.

Alla prima categoria appartenevano personaggi come i Revenent ed i Framasson, mentre della seconda faceva parte la figura di Gianpitadé.

I revenent, “parenti” evidentemente dei “revenant” francesi, sono – come suggerisce il loro nome – dei fantasmi, degli spiriti che “ritornano” (revenir) dal mondo dei morti al nostro. Le leggende che li riguardano sono caratteristiche della zona intorno a Saluzzo, alle sue campagne ed alle sue valli settentrionali (Po, Bronda ed Infernotto), ed in alcune località si mescolano alla tradizione religiosa del “cors”, cioè la processione delle anime del Purgatorio nella notte della vigilia dei Santi. Seguendo questa tradizione, le castagne bollite lasciate alle finestre servirebbero non solo per le anime dei propri parenti, che tornano a vistare la loro casa, ma anche per ingraziarsi queste anime in pena.

In queste zone, dunque, in cui religiosità e culto (e timore) dei morti sono sempre stati legati non stupisce la presenza della seguente leggenda, quella del Vandom.

La figura del Vandòm (italianizzato in Vandomo[1]) ci è presentata dal romanziere torinese Edoardo Calandra (1852-1911) nella sua novella postuma Il gran forestiero (edita a Torino solamente nel 2003), anche se da questo testo non si riesce a capire del tutto se tale leggenda (non avendo di essa altre fonti né orali né scritte) sia realmente una leggenda popolare raccolta dal Calandra stesso nelle campagne circostanti la sua residenza campestre di Murello (Cuneo), dove è ambientata – pur con lo pseudonimo di Torre Bronda – la vicenda della novella, oppure una invenzione (sulla base magari di notizie, anche storiche, sparse e frammentarie) dell’Autore. Anche in questo secondo caso, tuttavia, resterebbe valida la nascita di una leggenda che scaturisce, sulla falsariga della narrativa orale popolare, da fatti storicamente avvenuti e di personaggi realmente esistiti.

Nei capitoli 14 e 15 della novella citata Calandra ci narra direttamente (egli è infatti anche il narratore interno della novella stessa) i fatti che costituiscono la leggenda del Vandomo.

Siamo nel settembre del 1706, nei giorni della battaglia di Torino[2] nelle campagne settentrionali del saluzzese (cornice geografica consueta di novelle e romanzi di Calandra): ad un certo punto nel paesino di Torre Bronda fa la sua comparsa un ufficiale francese in fuga dopo la sconfitta. Costui, di cui la gente del luogo dirà che poteva essere, vista la sua ricca uniforme, un grande ufficiale di quelli partecipanti alle operazioni militari in Piemonte, quale il La Feuillade o il Vendôme o addirittura il duca di Orléans[3], si rifugia in una torre disabitata. Tre giovanotti del paese, su istigazione di una bella e giovane vedova di cui essi sono innamorati e che, avendo visto l’ufficiale nascondersi nella torre, sperava di ricevere in dono qualche prezioso appartenente all’ufficiale, lo uccidono tagliandogli poi la testa, sperando così di ottenere, oltre al favore della bella, anche qualche ricompensa da parte del Duca di Savoia.

Circa un mese dopo compare in paese un misterioso giovane cacciatore che, chiesta ospitalità presso la bella vedova, con lei si intrattiene, così almeno si dice, mentre la testa mozzata della donna viene trovata la mattina successiva sul davanzale di una finestra. Di qui nasce la leggenda del Vandomo, che tornerebbe in paese ogni 60 anni scegliendo ogni volta una giovane vedova da amare ed uccidere. Il fatto, secondo gli archivi consultati dal narratore, si è ripetuto infatti nel 1766, nel 1826 e dovrebbe quindi avvenire nel 1886, anno in cui è ambientata la novella.

Leggenda realmente popolare o invenzione romanticamente popolareggiante dal Calandra? Chissà. Se non verranno reperiti documenti attendibili a favore della prima ipotesi, potrà valere ciò che la mia nonna materna – donna di non molta istruzione, ma di profondo buon senso – in parecchi casi era solita dire: “As capiss che, se a l’é nen vèra, a l’é tutun bin anventà” (“Certo che, se non è vera, è comunque ben inventata”).

Curiosa poi la leggenda legata alle figure dei Framasson (o Franchmasson o ancora Fraghmasson): una categoria di masche e mascon (fattucchiere e stregoni), presenti soprattutto nella zona pedemontana immediatamente a sud di Cuneo (Boves, Peveragno, Borgo San Dalmazzo), capaci di trasformarsi in vari tipi di animali (cavalli, gatti, lucertole…) per compiere le loro malie. Ma l’elemento interessante è che il loro nome sia chiaramente quello dei “massoni” (framassoni), a testimonianza della fama negativa che, presso i nostri Antenati, avevano gli appartenenti a sette sostenitrici di idee anticristiane ed anticlericali, evidentemente additati dal saggio clero del tempo come i colpevoli di ogni nequizia e malvagità. Ricordiamo inoltre che, nel parlato dei nostri Avi, dire di qualcuno A l’é ’n framasson significava tout court intendere una persona di cui non fidarsi, indipendentemente dal suo appartenere o meno alla setta; inoltre, con l’espressione idiomatica Le bale ’d Framass si indicavano “cose assolutamente incredibili, fuori da ogni possibile e realistica probabilità”.

Il personaggio di Gianpitadé (o anche Gianpetadé o ancora Gioann Pitadé)[4], in Piemonte conosciuto anche come Gioann dij sinch sòld, perché per quanto spenda gli resterebbero sempre 5 soldi in tasca, rappresenta, nella tradizione sia popolare che semi-colta, la figura, presente sostanzialmente in quasi tutto il continente europeo, del cosiddetto “Ebreo Errante”[5], conosciuto in Italia anche col nome di Giovanni Buttadeo/Botadeo[6] o di Malco (il servo del sinedrio cui Pietro mozzò l’orecchio nei Getsemani) o ancora di Assuero (o Aasvero), Isaac, Laqquedeo, in Inghilterra come Cartafilus (il portinaio del pretorio di Pilato) ed in Spagna come Juan Espera in Dios. La storia di quest’uomo – secondo almeno la maggioranza delle versioni – sarebbe questa: egli era un ciabattino che non concedette a Nostro Signore di riposare un momento, appoggiandosi alla sua casa, mentre saliva al Calvario. Nel dialogo che ne seguì l’ebreo avrebbe invitato Gesù a camminare, per cui Cristo lo avrebbe condannato a camminare per sempre e senza meta per tutto il mondo e fino alla fine dei tempi (“Io me ne vado, ma tu dovrai aspettarmi, finché non tornerò”). Ogni cento anni egli sarebbe tornato nel luogo dell’incontro col Cristo e, vedendo che il Redentore non era ancora ritornato, avrebbe dovuto riprendere il suo vagabondare.

Nelle varie leggende a lui riservate l’ebreo viene normalmente descritto come un individuo di aspetto triste e trasandato, poco socievole e che va sempre di fretta. Ricordiamo, a puro scopo esemplificativo, due di questi “stralci” locali della leggenda, riguardanti uno la città di Alba[7] e l’altro il campo di battaglia relativo all’ultimo assedio della rocca di Verrua, sul Po tra Chivasso e Casale Monferrato.

Racconta dunque l’Eusebio[8] che intorno al 1830 alcuni negozianti di contrada Maestra di Alba avrebbero visto un uomo “di strano aspetto, bislungo, allampanato, dai capelli e dalla barba prolissi, dall’abito patito” che, anche nelle botteghe in cui comprava poche cose coi suoi 5 soldi, non stava mai fermo[9], agitandosi e muovendosi in continuazione. Ipotizzando che si trattasse appunto dell’ebreo, essi lo seguirono senza però riuscire a raggiungerlo, riuscendo solamente a vederlo “passare in Tanaro a piedi asciutti e prendere poi la via verso Asti”.

Nel 1704, durante quindi la guerra di Successione spagnola, la rocca di Verrua, posta (come detto) sul Po ed ultimo baluardo difensivo a nord-est di Torino, era assediata dalle forze gallo-ispane. Tra i reggimenti imperiali, alleati del Duca di Savoia[10], si trovava anche il 51° di fanteria ungherese, di stanza normalmente a Mantova, comandato dal suo “proprietario”, il tenente colonnello Francesco Gyulai (1674-1728). Il Gyulai tenne un diario, scritto in ungherese, in cui si racconta che il giorno 24 di giugno del 1704, nelle campagne di Crescentino, dove era trincerato il suo reggimento, fece la sua comparsa un ebreo, voci riguardo al quale asserivano essere proprio l’ebreo errante: desideroso di parlare con lui, Gyulai lo cercò il giorno seguente, ma costui era misteriosamente sparito. Resta da ricordare che queste notizie riportate dal colonnello sono le prime scritte in ungherese sulla leggenda dell’ebreo errante.

 

[1] Questa figura è chiaramente esemplata su quella storica di Louis Joseph di Borbone duca di Vendôme (1654-1712), generale francese soprannominato Le Grand Vendôme.

[2] Combattuta il 7 settembre tra l’esercito sabaudo-austriaco, guidato dal duca di Savoia Vittorio Amedeo II e da suo cugino Eugenio, generale del Sacro Romano Impero, e quello franco-ispano che stava assediando la città. La vittoria sabauda portò alla liberazione di Torino ed alle successive vittorie austriache in Italia. Siamo durante la guerra di Successione spagnola (1701-1714), che terminò anche con vantaggi per il ducato di Savoia, tra cui, più importante, la sua trasformazione in regno con l’acquisizione della Sardegna.

[3] Del Vendôme già si è detto. Gli altri due generali sono, rispettivamente, Louis François d’Aubusson de la Feuillade (1673-1725), comandante delle truppe francesi durante l’assedio e la battaglia di Torino, in sostituzione del Vendôme inviato nelle Fiandre, e Luigi di Borbone, secondo duca d’Orléans (1674-1723), nipote di Luigi XIV (suo padre, Filippo I, era fratello minore del Re) e reggente del trono di Francia durante la minore età di Luigi XV (1715-1723).

[4] Probabilmente, però, il suo nome andrebbe scandito come Gioann (o Gian) Pe Tadé, cioè Giovanni Pietro Taddeo.

[5] Sulla figura dell’Ebreo Errante in Italia si può vedere l’antico, ma ancora utile, S. Morpurgo, L’Ebreo Errante in Italia (Prato 1891), o il moderno R. Calimani, Storia dell’ebreo errante. Dalla distruzione del Tempio al Novecento (Milano 2002), mentre per il Piemonte: M. Centini,  “Tra Alba e le Alpi sulle tracce dell’Ebreo errante”, in Sui sentieri della leggenda (Cuneo 1998), pp. 53-56.

[6] Così chiamato anche dal poeta senese Cecco Angiolieri (1260ca-1313) nel suo sonetto Il pessimo e ’l crudele odio, ch’i’ porto (nr. 94).

[7] Notiamo per inciso che queste leggende sull’ebreo sono presenti soprattutto nel Piemonte meridionale, segno – forse – della loro derivazione provenzale, regione dove le comunità ebraiche erano un tempo molto numerose.

[8] E. Eusebio, L’Ebreo errante di passaggio nell’Albese, in “Alba Pompeia”, nr. 1, 1908, pp. 33sg.

[9] Ricorda ancora l’Eusebio che in piemontese, quando passa una persona sempre di fretta, si dice che “A l’é passaje Suifran”, ipotizzando quindi che il nome proprio, inesistente nell’onomastica, Suifran sia l’adattamento piemontese del francese Juif Errant.

[10] Ricordiamo poi che, in tutte le guerre da esso sostenute nel corso del Settecento (Successione spagnola ed austriaca, Guerra dei sette anni), il Ducato (poi Regno) sabaudo fu alleato degli Imperiali contro i Francesi. La fama negativa degli Austriaci, nemici “naturali” degli italiani, nascerà (antistoricamente) solamente in età risorgimentale, come conseguenza della diffusione delle idee illuministiche, prima, e romantiche, poi, in Piemonte ed in Italia.

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