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Se gli evangelisti non riportano le attività mate­riali di Giuseppe, parlano però delle sue attività nella storia della salvezza. Nel primo capitolo di Matteo la sua figura viene registrata alla luce del suo agire come «uomo giusto», del giusto che vivrà per fede (cf. Rm 1, 1), così dichiarato dall’alto per assumersi le responsabilità di discendente davidico (Mt 1, 21-25) e quelle del compito di essere guida, sostegno, difen­sore di Gesù e della Vergine Maria.

Per spiegare questo essere «giusto» di Giuseppe, Matteo riporta infatti la lunga genealogia, mostrando che Giuseppe, generato da Giacobbe, è diventato sposo di Maria, dalla quale nacque Gesù, chiamato Cristo. Di quest’affermazione si incontrano interpretazioni bibliche e teologiche già negli scritti degli antichi Padri della Chiesa, fatte con una profonda valutazione del testo, però non senza osservazioni storiche e cul­turali. Soprattutto si cercava di distinguere la diffe­renza dell’essere padre naturale, come fu Giacobbe per Giuseppe, e del padre legale, come lo è Giuseppe. Pur discendendo «dalla dinastia del re Davide, motivo perché Gesù può essere chiamato figlio di Davide, e in forza di Giuseppe, che si presentò allo stato civile per denunciarne la nascita come fosse suo figlio, non si poteva denunciare Gesù semplicemente come figlio di Maria, perché in una genealogia le donne non pote­vano figurare».

E’ una constatazione importante, raramente ricor­data negli studi esegetici, che esprime come ai tempi di Matteo fu conferita alla discendenza davidica una grande stima, considerandola come una non comune investitura di grazie divine. Qui va ricordato che pro­prio per questo fatto gli evangelisti non hanno potuto dimenticare messaggi ed eventi in cui appare avvolta la figura di Giuseppe. Se riceve nel Nuovo Testa­mento, dove viene chiamata figlio di Davide (Mt 1, 20), un appellativo messo dallo Spirito Santo in bocca del­l’angelo, ciò avviene per riconoscere in lui un perso­naggio grande e «giusto». Per questo titolo prezioso e significativo egli è stato scelto, come gli ebrei inten­devano la discendenza davidica, a restaurare il regno di Dio, avendo la missione di introdurre l’umanità nella pienezza dei tempi. Matteo fa vedere così che con Giuseppe «inizia un nuovo corso storico con la restaurazione del regno progettato da Dio e affidato ad Adamo il quale verrà ripristinato in forza del nuovo patto nel sangue di Cristo». Attraverso questo com­pito Giuseppe è l’uomo giusto, direttamente da Dio scelto tramite il messaggio dell’angelo. Giuseppe riceve così la grande sicurezza, spiegata nel lamento davidico. Dio rafforza l’uomo giusto, salva i retti di cuore che in lui trovano difesa in ogni momento dif­ficile (cf: Sal 7, 10-11).

Come si manifesta la giustizia di Giuseppe? I teo­logi antichi preferirono interpretarla nel suo rapporto con Maria. Egli agisce segretamente nei confronti di Maria, perché non vuole diffamarla. Ma agisce vera­mente come uomo giusto e retto di cuore. Questa sua giustizia può essere considerata come un sentirsi legato al suo compito di accettare la nascita di Gesù e può anche essere vista nel senso di un suo opporsi ai persecutori, per salvare il Salvatore promesso.

Soprattutto la prima prospettiva fa entrare nel suo volere di essere sposo di Maria, nel senso di un vero matrimonio, come veniva celebrato ai suoi tempi. La cerimonia si svolgeva in casa, non al tempio, alla pre­senza di due testimoni, per garantire la validità del matrimonio. Erano due tempi e due atti distinti. In un primo tempo si celebrava il «fidanzamento», nel secondo tempo le «nozze», ma la cerimonia pratica­mente non aggiungeva nulla in più a quanto si era fis­sato tra gli sposi: erano marito e moglie, e se il marito moriva, la moglie diventava vedova a tutti gli effetti.

Le «nozze» erano però una solenne festa che poteva durare anche una settimana. Giuseppe si chie­deva come si sarebbe potuto celebrarle accorgendosi che Maria aspettava un bambino. Ciò fa nascere in Giuseppe l’angoscia del futuro. Che cosa fare per deci­dere «giustamente» dinanzi a Dio il destino suo e quello di Maria? Questa Vergine-madre sarebbe stata giudicata molto male se fosse diventata madre senza essere sposata con lui. La gente, non sapendo, e nem­meno potendo pensare che il figlio da lei portato in grembo era opera dello Spirito Santo, avrebbe cre­duto che Maria avesse concepito un figlio illegittimo. Giuseppe non voleva accettare un tale giudizio. Nes­suno l’avrebbe fatto nel saperla sposata con lui.

E allora, che cosa fare? Dio gli aveva affidato la cura di Maria e del figlio suo. Una missione grande, voluta da Dio, come non era mai capitato a un altro uomo, una missione che poteva svolgere soltanto un uomo giusto. L’accettò, ma non passivamente. Con coraggio la condivise, vi si gettò anima e corpo, con tutta la generosità di cui può essere capace l’uomo retto e giusto.

Tutto ciò rivela in Giuseppe la giustizia, l’atteg­giamento di un uomo abbandonato a Dio. Ed egli era giusto anche nel suo generoso impegno a donarsi, come padre e come curatore, al bambino che Maria avrebbe dato alla luce, trattandolo come se fosse il figlio suo.

Questa prospettiva viene interpretata da un autore moderno in senso letterario. Giuseppe è: «Padre putativo, perché la gente credeva che fosse padre naturale di Gesù, mentre invece non era tale. E padre legale, perché fu riconosciuto come padre di Gesù allo stato civile. È padre nutrizio, perché dovette provvedere al sostentamento di Gesù, figlio di Maria. È padre edu­catore, perché ebbe l’incarico di accudire alla forma­zione Gesù. È padre adottivo, ma erroneamente, perché Gesù non è adottato. È padre verginale di Gesù, perché non cooperò alla generazione di lui. Ed è padre vicario di Dio Padre, perché esercitò il suo ufficio di padre come rappresentante di Dio. Tutti questi titoli hanno qual­cosa di vero. Però nessuno di essi è adatto ad espri­mere pienamente la paternità di Giuseppe».

In tutta la storia cristiana non si trova una figura caratterizzata da una simile paternità, unica nel suo genere. Ma nell’essere padre di Gesù si possono con­statare alcuni elementi che in Giuseppe aiutano a con­siderarlo veramente in un senso vero e giusto.

Il primo elemento è quello giuridico: «Lo Spirito Santo intervenendo personalmente con la sua onni­potenza a formare l’umanità di Gesù, non ne distrugge il fondamento giuridico della paternità di Giuseppe: manca il fondamento fisico e materiale, ma è presente quello giuridico, perché egli è vero marito di Maria, dalla quale nasce il Figlio di Dio fatto uomo. Questo fondamento giuridico è tanto più vero e reale, quando si pensa a quale intimità e totalità di donazione reci­proca lo Spirito Santo ha elevato il contratto naturale del matrimonio di questi due sposi, che portavano al loro matrimonio le migliori disposizioni»

Non meno importante di questo elemento è l’au­torità paterna, riconosciuta da Maria e anche da Dio. È l’autorità del suo essere capo di famiglia e ricono­sciuta da Gesù, che accettava in lui un padre buono e giusto, che sempre faceva la volontà di Dio Padre.

E un terzo elemento è l’affetto paterno, un affetto grande che esprime in lui la sua partecipazione all’af­fetto di Dio Padre per l’unico figlio. «Dio comunica agli uomini il potere di trasmettere la vita ad altri uomini servendosi di loro come strumenti e allo stesso tempo negli uomini, che diventano padri, accende nei loro cuori la fiamma dell’amore in modo che possono amare i propri figli con affetto paterno». Questo affetto era nato anche in Giuseppe, non in modo natu­rale, ma dalla grazia divina. Un affetto soprannatu­rale, nella sua espressione umana molto più profondo e ricco della forza divina per amare Gesù, più del­l’uomo terreno che vuole amare il proprio figlio.

Sotto tutti questi aspetti si comprende bene la dona­zione generosa di Giuseppe a suo figlio, la sua docilità di mettersi a disposizione di Dio, senza opporsi, senza fare limiti secondo il proprio parere. Dio gli dice attra­verso l’angelo di fuggire subito in Egitto per salvare il bambino. Lo fa come un semplice strumento di cui Dio può servirsi per compiere tutti i suoi disegni. Lascia la patria, lascia il proprio lavoro, chiude la pro­pria casa senza sapere fino a quando, tutto con umiltà e coraggio per affrontare nuove difficoltà.

Ciò spiega come Giuseppe ha praticato la giustizia. Anche di fronte a Maria, sua moglie, che sentiva cer­tamente l’amore del marito. Però, avendo deciso la verginità, rimaneva fedele e rispettava la madre di suo figlio. Certamente la circondava con affetto, affinché nulla le mancasse. Sapeva che Dio non l’avrebbe abbandonato, perché con i doni dello Spirito Santo gli aveva riempito l’anima, una forza straordinaria, che gli concedeva di vivere come uomo retto e giusto.

Una tale interpretazione letteraria, fatta dagli stu­diosi moderni, che è rivolta alla persona e all’atteg­giamento di Giuseppe, soprattutto alla sua decisione totale verso la volontà di Dio, aiuta a comprendere in Matteo l’aver riportato la genealogia vetero-testamentaria come punto di partenza per spiegare in Giu­seppe il senso e il significato dell’essere «uomo giusto». Per il suo essere chiamato «figlio di Davide» che con la rivelazione divina ha svolto la sua missione nei confronti del Figlio divino e Salvatore del mondo, Matteo lo considera degno di un tale titolo biblico, ricco di tradizione. Giuseppe è veramente «dikaios», un termine che invita ad esaminare i richiami veterotestamentari, presenti nel suo testo, i quali sono stati presi da Matteo dalla Genesi. Rispecchiano Noè giusto ed Abramo, persone che ricevono promesse da Dio e compiono la giustizia. Certamente, tali solu­zioni non hanno la medesima importanza come la deci­sione di Giuseppe di fronte al grande mistero del­l’Incarnazione. Ma costituiscono una base genealogica che non va ignorata.

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