Sant’Agostino. Un esempio edificante e affascinante di ricerca e di incontro con la Verità

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“O amore che ardi sempre, che non ti estingui mai, o Carità, o mio Dio, infiammami Tu! … Dammi quello che comandi, comandami quello che vuoi” (Sant’Agostino, Confessioni, X, 29)

 

Io amo i miei due cognomi. Amo il primo – quello della mia famiglia, un tipico e molto comune patronimico di origine meridionale – perché mi sono sempre lusingata di pensare che coloro che lo portano (e sono tanti!) siano sotto la speciale protezione di S. Agostino; amo il secondo, quello acquisito col matrimonio, perché mi ricorda un poeta moderno particolarmente vicino alle corde della mia sensibilità.

Ma ora non è del poeta che voglio parlare, bensì del Santo. Mi è sempre piaciuto sentirmi protetta da quel grandissimo filosofo, teologo, scrittore e Santo dall’animo di poeta che fu il Vescovo di Ippona, ma preciso subito che non sono una specialista di studi agostiniani, né sarebbe per me molto semplice diventarlo ora, data la mia età non più molto verde e dato che le sue opere complete in italiano e in latino, edite da CITTA’ NUOVA, occupano una sessantina di volumi per un totale di circa 40.000 pagine. Tuttavia le sue “Confessionum libri tredecim“, insieme alla Bibbia, sono il mio “livre de chevet” che ogni tanto apro a caso e sempre vi trovo un pensiero, una frase, un episodio che mi suscitano commozione e desiderio di approfondimento spirituale. Infatti questo libro meraviglioso non è soltanto il prototipo di un genere letterario, l’autobiografia, che si sarebbe sviluppato molti secoli dopo, ma la testimonianza umanissima di un’anima in subbuglio, divisa tra il Bene e il Male, che non trova pace nelle cose del mondo, perché queste non possono soddisfare le sue domande “ultime” sull’amore, sulla carriera, sul prossimo e infine su Dio. Proprio recentemente, durante una notte insonne, ho riaperto per l’ennesima volta questo libro; mi sono imbattuta nell’invocazione meravigliosa che ho citato in epigrafe e non sono riuscita a lasciarlo fino al mattino, ripromettendomi di dedicargli una riflessione[1].

Perché amo tanto S. Agostino quale appare nelle “Confessioni”? Perché, pur nella sua sconfinata intelligenza umana, egli si presenta come un uomo qualunque, debole e irresoluto, incapace di scelta che, tuttavia, attraverso un cammino spirituale faticoso e non privo di suspense, arriva alla fine (come a un’esplosione finale) alla Fede e all’abbandono totale a Dio. Ecco la meravigliosa testimonianza che egli presenta e propone a tutti noi attraverso questo libro immortale.

Aurelio Agostino, futuro Vescovo di Ippona Regia e Dottore della Chiesa, come tutti sanno era nato nel 354 a Tagaste, nella Numidia romana imbevuta di cultura latina e visse solo cinque anni in Italia ma, ciò nonostante, è diventato un santo molto venerato da noi, tanto è vero che innumerevoli sono le chiese italiane a lui dedicate e le raffigurazioni artistiche che lo rappresentano in veste di Vescovo o di monaco con il saio nero e la cintura di cuoio. L’immagine invece che a me è più cara, oltre ad essere la più antica, è un affresco del VI secolo che si trova nel Sancta Sanctorum della Basilica Lateranense e lo raffigura come Dottore della Chiesa, seduto a uno scrittoio dove campeggia un libro aperto. I suoi genitori furono il pagano Patrizio, funzionario dell’amministrazione imperiale che ricevette il Battesimo solo in prossimità della morte, e Monica, fervente cristiana la quale, pur avendo educato cristianamente i suoi figli (Confessioni, III, 4), non aveva fatto impartire loro il Battesimo da neonati, come era costume dell’epoca.

Ma ora non voglio parlare di Agostino come filosofo o teologo, se non per qualche breve accenno, perché (come dicevo poc’anzi) ben altri e di ben altro spessore sono gli studi, i commenti, gli scritti su di lui che, nei secoli, hanno influenzato la storia della filosofia: vorrei solo rievocare alcuni episodi della sua vita, da lui narrati nelle Confessioni, che mi hanno sempre colpito in modo particolare e, direi quasi, intenerito per la loro straordinaria attualità e perché mi dimostrano che anche i grandi Santi, i Dottori della Chiesa, sono stati esseri umani come tutti noi, peccatori come noi finché non sono riusciti (come spesso, purtroppo, a noi non accade) ad “aprire le porte a Cristo”.

Non è solo Agostino che mi interessa: anche la sua santa madre Monica rappresenta per me un esempio perché – pur nella sua, a volte, insistente petulanza – è assurta nella Chiesa a modello e patrona delle madri cristiane, ragione per cui io la invoco spesso. Infatti non poco la fece piangere quel suo primogenito intelligentissimo, ma scavezzacollo; eccelso negli studi, ma anche vivacissimo ed esuberante nella ricerca dei piaceri mondani, tanto è vero che a diciotto anni aveva già messo incinta una ragazza di condizione sociale inferiore alla sua – della quale egli non ci rivela il nome e che, pertanto (come fa Carlo Cremona nella bella biografia che gli ha dedicato) io chiamerò “l’Innominata”[2] – e che, nel 372, gli dette l’amatissimo figlio Adeodato. E tanto è vero che un Vescovo – al quale Monica si era rivolta perché la aiutasse a distogliere dalla vita disordinata quel suo figliolo che oggi definiremmo “problematico”, (“così ella faceva ogni qualvolta trovasse persone adatte a quello scopo”) – la consolò dicendo: “E’ certo che il figlio di codeste lagrime non può andare perduto” (Confessioni, III, 12). Questa frase mi ha sempre commosso ed io la rammento sempre alle madri preoccupate per il comportamento dei loro figlioli.

Agostino non esita a descrivere una delle sue marachelle: era adolescente quando, con una combriccola di ladruncoli non certo indigenti, si divertì un mondo a scuotere, di notte, un albero di pere appartenente al suo vicino di casa, non per saziare la fame, che di certo non aveva, ma per darle in pasto ai maiali; “nostro unico piacere fu quello di fare ciò che non era lecito, perché ciò ci piaceva” (Confessioni, II, 4). Questo episodio non ci ricorda le prodezze di certi adolescenti moderni che trovano divertentissimo fracassare i lampioni stradali o imbrattare i muri delle nostre città? Credo che sia importante rievocarlo, perché Agostino non ci parla della morte di suo padre o dell’incontro con l’Innominata, ma di una bravata adolescenziale che molti genitori moderni tratterebbero con indulgenza invece di infliggere punizioni esemplari ai loro indisciplinati rampolli che, in questo modo, potrebbero avviarsi a diventare degli autentici teppisti. Invece il commento e il pentimento di Agostino per la sua bravata sono commoventi: “Che cosa muovesse il mio cuore ad essere cattivo senza alcun vantaggio … torbida malizia: ed io l’amai, amai la mia rovina, amai la mia caduta; non ciò per cui cadevo, ma proprio la caduta … non correndo dietro ad alcunché con disonestà, ma alla disonestà per se stessa”[3].

Ma Agostino non esita neppure a riferire un peccatuccio di sua madre giovinetta: incaricata dai suoi genitori di andare ad attingere dalla botticella  il vino per il pranzo, Monica “immergeva la tazza nell’apertura superiore, poi, prima di versare il vino nella caraffa, ne sorbiva qualche goccia a fior di labbro, poco poco, perché ripugnava al suo gusto: difatti non lo faceva per amore del vino, ma per una di quelle bravate fanciullesche che si sfogano in impeti di gioco e vengono represse nei giovanetti dall’autorità delle persone anziane” (Confessioni, IX, 8). Chi di noi non ha mai provato la tentazione irresistibile di disobbedire ai propri genitori? Il fascino esercitato dalla trasgressione è eterno e lo hanno provato anche i Santi!

Ma ancora più grossa del furto delle pere, Agostino la combinò al momento di partire per Roma. Scontento della sua condizione di insegnante di retorica (anche allora si verificavano turbolenze negli ambienti studenteschi, Confessioni, III, 4) aveva deciso di venire a studiare e insegnare in Italia contro il parere di sua madre che temeva per lui, come esito di questa decisione, il rafforzamento delle dottrine eretiche manichee di cui era diventato seguace e che in Italia dilagavano. “Ella fu atrocemente addolorata della mia partenza; mi seguì fino al mare, mi si aggrappava a forza, voleva farmi tornare indietro o partire con me. Ed io la ingannai fingendo di non volermi staccare da un amico finché, levatosi il vento, egli intraprendesse la navigazione … Dovetti convincerla a passare la notte in una cappella … molto vicina alla nave. E, in quella notte, mentre ella piangendo stava assorta in preghiera, io me ne partii di nascosto …   A mia madre mentii, a quella madre!” (Confessioni, V,8).             

Ma bisogna anche riconoscere che Monica, in quel caso, aveva torto. Infatti, se la permanenza a Roma non fu particolarmente foriera di buoni frutti spirituali (se non per fargli capire l’inconsistenza delle dottrine scettiche e manichee, allora in gran voga) fu la permanenza a Milano, che in quell’epoca era diventata la capitale dell’Impero, a segnare la svolta decisiva nella vita di Agostino. Abbandonata definitivamente la dottrina manichea – perché negatrice sia della libertà che della responsabilità umane, e respinto definitivamente anche lo scetticismo, perché negatore della Verità assoluta che Agostino andava cercando come ineludibile esigenza interiore – l’insoddisfazione spirituale che egli provava da anni e che lo aveva spinto a lasciare la sua patria andava aumentando. Finché un giorno, mentre si trovava nel suo giardino in preda ad una “amarissima contritio cordis“, che noi oggi probabilmente chiameremmo “una profonda crisi depressiva”, udì una voce infantile proveniente da una casa vicina che, a mo’ di filastrocca, ripeteva: “Prendileggi; prendi, leggi”. Aperto a caso il Corpus paolino, si imbatté nel passo della lettera ai Romani (XIII, 13 – 14) in cui Paolo esorta: “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Confessioni, VIII, 12). Quelle parole in quel momento erano rivolte a lui, venivano da Dio e gli indicavano il cammino futuro. Così sentì dileguarsi il dubbio e si ritrovò finalmente libero di donarsi interamente a Cristo.

Monica, nel frattempo, non era restata inerte. Rimasta vedova e “resa da Dio sicura in ogni pericolo” non aveva esitato lei, donna senza più un marito accanto e non più giovanissima – in un’epoca in cui i collegamenti marini e terrestri non erano facili come oggi – a imbarcarsi per l’Italia con l’Innominata e con il giovanissimo nipote Adeodato alla ricerca del loro congiunto (Confessioni, VI, 1). Lo trovarono a Milano dove Agostino, ormai trentaduenne, godeva di grande prestigio scientifico e mondano come professore di retorica e lei fu felice di sapere che suo figlio non era più manicheo, anche se non era ancora cristiano. Ora la famiglia era riunita, ma Agostino non era sereno perché tutto il suo entourage premeva perché si sposasse (Confessioni, VI, 13) ed egli non poteva sposare la madre di suo figlio, benché l’amasse, perché (come mette in risalto Carlo Cremona) “la legislazione imperiale proibiva a uno di classe elevata di sposare una donna di bassa condizione. E questo, senza dubbio, era il caso della madre di Adeodato”[4].

La povera donna, dopo quindici anni di convivenza, capì che il “mondo” che la circondava non era l’unico suo rivale; ce ne era anche un Altro, infinitamente più potente con il quale non poteva competere: Dio. Accettò di scomparire dalla vita di Agostino per non ostacolarne l’ascesa, così come la schiava egiziana Agar aveva accettato di scomparire, con suo figlio Ismaele, dalla vita di Abramo per non essere di ostacolo al progetto di Dio. L’Innominata tornò in Africa da sola e di lei non si seppe più nulla, anche se possiamo presumere che Dio non l’abbia abbandonata, come non aveva abbandonato Agar (Gn 21, 8 ss).

Infatti, l’evento decisivo nella vita di Agostino si era verificato nel 387, quando il giovane retore africano, dall’ingegno eccezionale, aveva incontrato un uomo altrettanto eccezionale: il santo Vescovo Ambrogio. Questi, di nobile famiglia romana ancorché nato a Treviri, aveva avuto appena un anno prima una visione che gli aveva rivelato il luogo in cui erano nascosti i corpi incorrotti dei santi martiri milanesi Gervasio e Protasio, riportando Milano alla fede cattolica dopo che l’Imperatrice Giustina, ariana, gli aveva ordinato l’edificazione di una basilica cristiana da dedicarsi al culto degli eretici. La netta opposizione del Vescovo “a rintuzzare quel femminile, ma regio furore” aveva portato ad una persecuzione contro Ambrogio e i cattolici; il popolo, nel timore che l’Imperatrice facesse occupare dai soldati la basilica contesa, vi passava le notti in preghiera cantando inni. “Anche io, non ancora riscaldato dalla fiamma del Tuo Spirito, partecipavo però dell’agitazione e del turbamento della città” (Confessioni IX, 7)[5].

Dopo l’incontro con Ambrogio la fede, cui Agostino era finalmente approdato dopo anni di dubbi e di errori, divenne un tutt’uno con la sua vita. La notte del Sabato Santo del 387, Monica ebbe la gioia di vedere suo figlio e suo nipote ricevere il Battesimo dalle mani dello stesso Ambrogio insieme al loro fraterno amico Alipio. Alla conquista di Dio, che sembrava lontano mentre in realtà era vicinissimo, Agostino arrivò grazie alla sua ansia di verità e finalmente la “fede” in Cristo, invece della semplice “ammirazione” che aveva provato in gioventù, gli fece capire che solo un Dio fattosi uomo, e perciò “toccabile” e “visibile”, era un Dio che si poteva pregare e per il quale era possibile vivere e morire.

Questa fu la prima tappa della “peregrinatio“, che Agostino aveva iniziato da giovinetto con la lettura dell’”Ortensio” del pagano Cicerone e che non si esaurì certo con il Battesimo, ma continuò per tutta la vita placandosi solo escatologicamente “perché ci hai creati per Te e il nostro cuore non ha pace fino a che non riposi in te” (Confessioni, I, 1)[6]. Non per nulla, infatti, l’uomo porta nel suo essere l’inquietudine che lo spinge verso Dio: guardandosi dentro (e proprio ad Agostino si deve la scoperta del valore dell’interiorità) ognuno si rende conto che è Dio ad averlo creato e che soltanto tornando a Lui potrà trovare la propria realizzazione più autentica.

Finalmente Agostino era diventato cristiano. Ma nelle Confessioni egli narra anche un episodio che non riguarda lui direttamente, perché gli fu riferito dal vecchio Simpliciano, padre spirituale di Ambrogio, episodio che io reputo importante perché andrebbe rammentato a tanti cristiani moderni, tali solo a parole. Dunque: Agostino, che non conosceva il greco, aveva studiato le grandi opere dei filosofi nella traduzione latina fatta da Vittorino, africano di origine, professore di eloquenza a Roma, studioso “coltissimo e versatissimo in ogni ramo di scienze liberali” al quale, per i suoi alti meriti scientifici, era stata eretta una statua sul Foro romano, onore totalmente pagano. Come raccontò Simpliciano, Vittorino conosceva bene la Sacra Scrittura, leggeva gli autori cristiani e “diceva a Simpliciano, non in pubblico, ma in segreto e amichevolmente: “Sappi che io sono ormai cristiano” E l’altro rispondeva: “Non potrò crederlo, né ti conterò tra i cristiani, se non quando ti avrò veduto nella Chiesa di Cristo”. E quello, motteggiando, diceva: “Son dunque i muri che fanno i cristiani?” E ripeteva spesso di essere cristiano e Simpliciano replicava allo steso modo, ma Vittorino ritornava sulla facezia dei muri”. (Confessioni, VIII, 2). In realtà il buon Vittorino era attratto dal Cristianesimo ma temeva, se si fosse fatto battezzare, di perdere il credito di cui godeva negli ambienti intellettuali pagani che lo stimavano e l’ammiravano, proprio come tanti politici moderni che si professano cattolici ma poi non esitano ad appoggiare progetti di legge anticristiani per non perdere voti e credibilità politica.

Ma quando … temette di essere rinnegato da Cristo davanti ai suoi santi angeli se temeva di confessarlo davanti agli uomini, si riconobbe grandemente colpevole di arrossire dei misteri del Tuo Verbo … cessò di vergognarsi di fronte alla vanità … e disse a Simpliciano: “Andiamo alla chiesa; voglio farmi cristiano” e ricevette il Battesimo facendo pubblicamente, come allora si usava a Roma, la sua solenne professione di fede tra la gioia di tutti[7]. Quanti politici nostrani sarebbero capaci di dichiarare in pieno Parlamento di votare contro il matrimonio degli omosessuali perché contrario alla legge di Dio?

Pochi mesi dopo il Battesimo, la famiglia decise di tornare a Tagaste. Fermatisi al porto di Ostia Tiberina in attesa di imbarcarsi, una sera Monica e Agostino, affacciati a una finestra aperta della casa dove alloggiavano, parlavano tra loro e si domandavano, “sempre al cospetto della Verità, ossia di Te, quale sarà mai quella vita eterna dei Beati “che nessun occhio vide, nessun orecchio udì, che rimane inaccessibile alla mente umana”. La bocca del nostro cuore si apriva fluida al fluire celeste della Tua fonte, della fonte di vita che è in Te, per esserne un poco, quanto era possibile alla nostra intelligenza, irrorati, sì da riuscire a formarci un’idea di tanta sublimità” (Confessioni IX, 10). Fu un meraviglioso momento di estasi e comunione in cui madre e figlio, raggiunta col Battesimo di lui la totale sintonia spirituale, poterono godere di un assaggio di Vita Eterna. Dopo pochi giorni Monica morì. Agostino la fece seppellire nella chiesa di Santa Aurea a Ostia Antica, ma nel 1430 i resti di lei furono traslati a Roma nella chiesa di S. Agostino.

A Tagaste Agostino conobbe una seconda tappa nella sua “peregrinatio”. Avrebbe voluto ritirarsi a vita monastica ma, per acclamazione del popolo, dovette assumere il sacerdozio che gli fu conferito dal Vescovo di Ippona Valerio. Qualche tempo dopo, alla morte di quest’ultimo, ricevette anche l’investitura a suo successore. E così lui, il grande intellettuale, retore, filosofo e teologo platonico, imparò a comunicare la sua fede alla gente semplice, svolgendo il suo ministero attraverso i “Sermones”, avendo compreso l’importanza della semplicità e dell’umiltà. Una terza tappa del suo cammino fu quella che lo portò a chiedere perdono a Dio ogni giorno della sua vita, attraverso le “Retractationes”, perché ogni esistenza credente e pensante compie un inesauribile processo di conversione a Dio, nello stupore di sentirsi amata da Lui, nel rendimento di grazie e nell’inno di lode che è sempre in ritardo rispetto all’amore di Dio che lo ha generato. “Tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ecco, Tu eri dentro di me, io stavo al di fuori: e qui ti cercavo, e deforme quale ero, mi buttavo su queste cose belle che Tu hai creato. Tu eri meco, ed io non ero teco, tenuto lontano da Te proprio da quelle creature che non esisterebbero se non fossero in Te” (Confessioni, X, 27).

L’oscillazione tra il bene e il male, di derivazione paolina, descritta da Agostino nelle Confessioni, tornerà in molti poeti e scrittori successivi, da Francesco Petrarca a Ugo Foscolo (“Conosco il meglio ed al peggior mi appiglio …) evidenziando un archetipo dell’anima umana che Agostino ha fissato una volta per tutte nella storia della letteratura, oltre che in quella della spiritualità. Il peccato non è trasgressione di una norma, ma un attentato alla felicità e all’equilibrio umani perpetrato dall’uomo stesso. Ma allora, come si spiega la persistenza del Male nella storia? Se la vita umana è un dono gratuito di Dio, la risposta deve essere rimessa a Lui in una prospettiva escatologica.

Come si potrebbe non amare e venerare con tutto il cuore un simile Santo?

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[1] L’edizione delle “Confessiones” che io tengo sul mio comodino è quella della BUR del 1992, tradotta da Carlo Vitali e da lì attingo le citazioni.

[2] Cfr. Carlo Cremona, “Agostino d’Ippona, la ragione e la fede” Rusconi, 1986.

[3] Ecco dimostrata, con molti secoli di anticipo, la “banalità del male”, di cui parla Hannah Harendt. Se scegliere il male è scegliere il nulla, il vuoto, la privazione, anziché l’Essere, la Pienezza, la Presenza, allora si capisce come la malizia primordiale abbia indotto Adamo ed  Eva al peccato originale. Nel Paradiso Terrestre a loro non mancava nulla e solo il piacere del Male per il Male, indotto dal serpente, li spinse a disobbedire al loro Creatore. Mi viene in mente anche la risposta, teologicamente ricchissima, data dall’umile e analfabeta piccola veggente di Lourdes, Bernadette, ai suoi esaminatori i quali, ansiosi di dimostrarne la malafede, le chiedevano chi fosse “il peccatore”: “Peccatore è colui che ama il male“.

[4] Cfr. Agostino d’Ippona. La ragione e la fede, pag. 91.

[5] Ha scritto in proposito Benedetto XVI: “Questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualche cosa andava muovendosi nell’intimo di Agostino”. Cfr. “Testimoni del messaggio cristiano”, Mondadori 2012, pag. 72.

[6] Mi vengono in mente le parole che, molti secoli dopo, Alessandro Manzoni, ne ”I Promessi Sposi”, avrebbe messo in bocca all’ Innominato e al Cardinale Federigo:

  • Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?
  • Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?” (Cap. XXIII). Anche la voce di S. Paolo sembra riecheggiare: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20).

[7] Un bellissimo commento a questo episodio l’ho trovato in Joseph Ratzinger, “Introduzione al Cristianesimo”, Libreria Editrice Vaticana, 2005, pag. 91. Vittorino, da buon filosofo platonico, non sentiva il bisogno di una chiesa “materiale”: gli bastava l“idea”. Quando capì che il Cristianesimo non è un’idea, ma una via che sta su un piano diverso da quello della pura “idea”, diventò veramente cristiano. Quest’opera giovanile di Benedetto XVI, che consiglio a tutti di leggere, ha avuto su di me l’effetto che ebbe il brano della lettera ai Romani su Agostino. Mi si perdoni l’immodestia del raffronto.

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