Santi e feste nelle tradizioni popolari (piemontesi, ma non solo)/III

 

La tarda Estate e l’Autunno

 

Col mese di agosto l’estate comincia a declinare (specie in collina ed in montagna) e anche nelle giornate serene, dopo calato il sole, il fresco inizia a farsi sentire: Aost, giù ’l sol e ’l cel a resta fosch (“Ad agosto, il sole cala presto ed il cielo è meno chiaro”). Si inizia a pensare alla vendemmia ed agli ultimi lavori agricoli autunnali, prima che il mese di novembre (e quindi l’inverno) porti un momento di stasi nelle attività della campagna. a questo punto si torna al principio e la ruota dell’anno lavorativo si conclude, per riprendere il suo giro verso nuovamente le stagioni successive[1].

Siamo dunque ad agosto, ed il primo Santo che incontriamo è il Santo proverbialmente ricordato quando si voleva indicare un tormento, un affanno, specie psicologico-morale, che consuma lentamente: San Lorenzo sulla graticola (“Parla: non farmi stare come San Lorenzo…”). E di San Lorenzo, ricordato il 10 del mese, giorno anche delle “stelle cadenti” (ancora una volta ci torna in mente un poeta “pseudo contadino” per antonomasia come il massone Giovanni Pascoli), si dice che San Lorens, l’uva a tenz (“A San Lorenzo l’uva si tinge”, cioè comincia a prendere colore, a maturare), ma anche S’a pieuv a San Lorens l’é ’ncora ’n temp, cioè anche se piove in questo giorno non fa danno alle viti. Il giorno di questo Santo tuttavia è anche messo in relazione con quello di Sant’Antonio (17/1), in una sorta di rapporto di relazione antitetica estate/inverno: A San Lorens la gran caudura, a Sant Antòni la gran freidura: l’un-a e l’àutra pòch a dura (“A San Lorenzo il gran caldo, a Sant’Antonio il gran freddo: l’uno e l’altro poco durano”). Due giorni: il più caldo ed il più freddo, ma entrambi sono già quasi sulla soglia, rispettivamente, dell’autunno e della primavera…

Alla metà del mese si colloca una delle feste più “sentite” della tradizione cattolica in Italia: l’Assunzione in cielo, in anima e corpo, di Maria Vergine: Maria Assunta o il giorno del “Ferragosto” (le Feriae Augusti della Roma imperiale, cioè i giorni festivi, feriae, dedicati all’imperatore Augusto); più semplicemente, da noi, la Madòna d’Aost o, con ancora maggior intima familiarità con la Vergine, ël di dla Madòna: “il giorno della Madonna” per antonomasia, quasi fosse l’unico (o comunque il più importante) dei giorni festivi a Lei dedicati.

La Madòna d’aost a arfrësca ’l bòsch (“La Madonna d’agosto rinfresca il bosco”): l’arietta comincia a farsi già più frizzantina e in più S’a pieuv al 15 d’aost tanta melia e tant most (“Se piove al 15 d’agosto tanta meliga e tanto mosto”): la pioggia è utile sia al granturco che all’uva.

Ancora due Santi giustamente ricordati sia nell’onomastica che nelle tradizioni delle nostre terre: San Rocco (16) e San Bartolomeo (24). Del primo quasi in ogni paese o borgata si trova una chiesa, una cappella o almeno un’edicola votiva (pilon) in ricordo del suo intervento benefico durante le epidemie di peste, abbastanza ricorrenti un tempo nelle nostre terre. Il Santo veniva invocato contro, appunto, il contagio e la presenza di così tanti edifici religiosi (piccoli e grandi) in suo onore data in particolare alla peste del 1630 (quella ricordata anche da Manzoni nei Promessi Sposi). Oltre alla devozione terapeutica il Santo era ricordato anche perché i primi freschi quasi autunnali facevano sì che le rondini iniziassero a partire per paesi più caldi, per poi ritornate verso la fine del marzo successivo: A San Ròch la róndola a fà fagòt (“A San Rocco la rondine fa fagotto”). Per quanto riguarda l’iconografia, poi, San Rocco era raffigurato in compagnia del suo cane e quindi (come per Sant’Antonio e il porcellino, Sant’Antòni dël porchèt o dël crinèt) nasce il modo di dire San Ròch e sò can (“San Rocco e il suo cane”) quando si incontrano due persone che stanno sempre insieme, vicine, quasi in simbiosi.

Con la fine del mese si entra, ormai, nel clima (almeno spirituale) dell’autunno: San Bertromé a l’é pare dl’otogn (“San Bartolomeo è il padre dell’autunno”) e ormai Braje ’d tèila e mlon a stèmber a son pì nen bon: “Pantaloni di tela e meloni a settembre non vanno più bene”.

Alla metà circa del mese di settembre abbiamo la festa della Santa Croce (rectius: Esaltazione della Santa Croce), celebrata il 14 di questo mese in ricordo della inventio Crucis, cioè il ritrovamento a Gerusalemme della vera croce di Cristo da parte di Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino.

Parecchi sono i proverbi relativi a questo giorno, ed in particolare riferiti alla raccolta delle noci: A Santa Cros sopata le nos (“A Santa Croce scuoti le noci”: sono da raccogliere), Santa Cros pan e nos (“A Santa Croce pane e noci”: le noci vengono bacchiate e possono sostituire il companatico) e infine S’a pieuv a Santa Cros a-i robata tute le nos (“Se piove a Santa Croce cadono tutte le noci”). A proposito comunque del mangiare “pane e noci” (o, secondo alcuni, pane in cui la farina è mista con le noci) abbiamo due proverbi che sottolineano la apparente paradossalità della sapienza popolare: Pan e nos mangé da spos; nos e pan mangé da can (o da vilan) (“Pane e noci mangiare da sposi, noci e pane mangiare da cani/villani”), da alcuni spiegato appunto col fatto che il pane fatto con farina mescolata a noci è buono (da spos), mentre mangiare le noci insieme col pane, come companatico, non lo è (da can/vilan): chi avrà ragione? Ricordiamo poi che A Santa Cros sëmna l’òrdi, che a San Gotard a l’é già tròp tard: “A Santa Croce semina l’orzo, ché a San Gottardo è già troppo tardi”. Il giorno di San Gottardo cade, in realtà, il 5 di maggio: c’è da pensare, dunque, che la scelta di questo Santo sia dovuta esclusivamente al nome, che permette la rima con “tard”. O ci possono essere altre spiegazioni? Si conclude con El di ’d Santa Cros nì as taja nì as cus, nì as fan de spos (“Il giorno di Santa Croce non si taglia né si cuce, né ci si fa sposi”): giorno infausto fino a tal punto? Chissà quale tradizione ancestrale può aver dettato una simile (terribile) avvertenza.

Ancora in settembre, ma già nella seconda parte del mese, abbiamo San Matteo (21): Se San Maté a piora nopà ’d rije, al pòst dël vin as farà asil (“Se San Matteo piange invece di ridere, al posto del vino si farà aceto”): la pioggia di questo giorno può rovinare la vendemmia; San Maurizio[2] (22): Sëmna ij pòis a San Morissi e ’t n’avras a tò caprissi (“Semina i piselli a San Maurizio e ne avrai a tuo capriccio”) e infine San Michele Arcangelo (29): Se la primalba a l’é bruta a San Michel, otóber a sarà pì brut che bel (“Se l’alba è brutta a San Michele, ottobre sarà più brutto che bello”); Cand it vëdde le rondole a San Michél l’invern a ven nen fin-a dòp Natal (“Quando vedi le rondini a San Michele l’inverno non arriva fin dopo Natale”: l’autunno è più tiepido del solito ed il freddo arriverà più tardi); Se l’Arcàngel as bagna j’ale a piovrà fin-a a Natal (“Se l’Arcangelo si bagna le ali pioverà fino a Natale”: meglio dunque che non piova il giorno di San Michele). Sempre a proposito di pioggia si può citare Pieuva dossa a San Michel, invern doss; pieuva fòrta, invern cru: “Pioggia leggera a San Michele, inverno mite; pioggia forte, inverno rigido”. San Michele chiama anche in causa San Luca (18/10), dato che Da San Michel a San Luch ij còj a fan sò but (“Da San Michele a San Luca i cavoli crescono”): non tanto un proverbio di previsione meteorologica quanto una affermazione fondata sull’esperienza di anni ed anni di vita contadina.

La citazione di San Luca ci porta così al mese di ottobre e quindi, come detto, alla conclusione del giro annuale delle stagioni, in quella dimensione ciclica del tempo che caratterizzava la civiltà contadina di tutta Europa.

Sempre San Luca dava giuste indicazioni per gli ultimi lavori di semina. A San Luch un bon boé a l’ha sëmnà tut (“A San Luca un buon bovaro ha seminato tutto”): poi ci si riposerà, anche se per breve tempo, in attesa della primavera. Queste ultime semine comunque devono avvenire, tassativamente, con qualsivoglia tempo, col fango o con la terra secca: A San Luch o mòl o sut sëmna për avèj bon frut (“A San Luca o molle o asciutto semina per avere buon frutto”). Prima di San Luca, e precisamente il 16 del mese, giorno di San Gallo, occorre guardare il tempo che fa, perché S’a fà bel a San Gal, a riva fin-a a Natal: “Se fa bello a San Gallo, dura fino a Natale”

Siamo alla fine del mese (il 28) e, in attesa dei Santi, si ricorda San Simone. Ormai il bel tempo, ed il tepore dell’aria, che qualche volta dura ancora ad ottobre, sono solamente un ricordo: A San Simon la vantajin-a ant ël canton (“A San Simone il ventaglio in un angolo”) e quindi si può cominciare a pensare al pranzo di Natale, preparando per tempo l’ingrasso del cappone. A San Simon, ël galèt as fà capon: “A San Simone il galletto diventa cappone”.

Vorrei ora chiudere questa breve carrellata “ciclica” sulla saggezza e le tradizioni popolari legate al calendario, alle stagioni, al lavoro e, soprattutto, ai Santi con una rapidissima, e molto incompleta, rivista di proverbi e modi di dire tratti dalla saggezza popolare da cui si ricava una particolare “familiarità” (condita talora con un pizzico di sana ironia, come si fa tra amici, coi quali l’atteggiamento scherzoso è sintomo di affetto, e non di malignità) con Nostro Signore ed i Santi, proprio perché un tempo i nostri Avi (i Rèire) in essi confidavano, sentendoli vicini, anche fisicamente, ma soprattutto moralmente.

I Santi di un calendario familiare e quotidiano, Santi non segnati sull’almanacco, ma che ricorrevano nelle chiacchierate (e a volte nelle invocazioni) dei nostri Antenati (i Grand antich):

Santa Bisòdia: nome nato dalla “interpretazione” in seguito all’ascolto (i nostri Vecchi, non sapendo il latino, prendevano le parole delle orazioni un po’ a “moda loro”) del versetto del Pater noster che recita Da nobis hodie, divenuto, nella suddivisione pedemontana, Dano bisodie, con conseguente nascita di questa taumaturgica Santa Bisodia.

San Trotin: era la passeggiata domenicale dei cittadini torinesi, fuori delle porte urbane (Nuova, Susa, di Po e Palazzo) nel Seicento/Settecento, dal verbo troté (trottare), non dei cavalli, ma delle persone, che non avevano altri mezzi di locomozione.

San Suvari: deformazione agiologica del termine Sansuvari (da sansùa, sanguisuga), cioè il cerusico che applicava, appunto, le sanguisughe per la cura di alcuni disturbi (in particolare l’ipertensione); allo stesso modo assistiamo alla deformazione di sambajon (zabaione) in San Bajon (provocando, involontariamente, una sorta di assonanza con San Pasquale Baylon) e sancràu (crauti, dal tedesco sauerkraut, “cavoli acidi”) in San Cràu.

Candlòra: è la festa della Candelora, personificata in una figura femminile di Santa.

La scritta DOM, che campeggiava sul frontone delle chiese (e ancora campeggia in alcune), acronimo di Deo Optimo Maximo (A Dio Ottimo Massimo), accompagnato poi dal nome del Santo a cui la chiesa stessa era intitolata, veniva ingenuamente sciolta in Dòne Òmo Marieve (Donne Uomini: Sposatevi), formula che ben si prestava ad incentivare matrimoni e prole, ma che ora, probabilmente, verrebbe tassativamente proibita dai padroni del NOM (Nuovo Ordine Mondiale).

Infine, lascio (per ora) i miei lettori con un altro proverbio delle mie parti, che tornerebbe molto utile ricordare da parte di chi (oltretutto di lontana origine piemontese, ahimè…) siede in cathedra Petri

 

A në san pì ’l Papa e ’n paisan che ’l Papa da sol

[Ne sanno di più il Papa ed un contadino che il Papa da solo]

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[1] Uno dei simboli più usati, nella tradizione contadina anche cristiana, era proprio quello del “re dei serpenti” (il basilisco: in piemontese lë scurs) che, arrotolato in cerchio, si morde la coda, a simboleggiare appunto il volgere del tempo – stagionale – che, dopo la fine, ritorna al suo inizio. Questo simbolo era presente un tempo – per esempio – negli stampi usati dai margari per preparare il burro.

[2] Sulla figura di San Maurizio, ed altri suoi compagni della cosiddetta “Legione Tebea”, torneremo ancora, a proposito di varie leggende popolari che riguardano questo gruppo di Santi.

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