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Franco Pagliano (Genova 1914 – Milano 1969), ufficiale pilota nel 1936, partecipò alla guerra di Spagna e all’inizio del secondo conflitto mondiale, proseguendo a servire nell’Arma Aeronautica come giornalista; quindi, fu Capo Ufficio Stampa dell’Aviazione della RSI.

Egli volle colmare una lacuna nella storia delle belliche imprese aviatorie, e le riferì, inserite in compendiose biografie, scrivendo Aviatori italiani, edito da Longanesi nel 1964.

“Ricordate questi nomi? Graziani, che combatté per cinque anni con una pallottola nella spina dorsale; Buscaglia, che era andato all’attacco di navi nemiche per trentun volte; Erasi, che colpì i due incrociatori Liverpool e Glasgow; Gorrini, che abbatté due quadrimotori nella stessa azione; Botto, che volava e combatteva con una gamba amputata; i due paracadutisti Daprocida e Cargnel, che in una sola azione danneggiarono numerosi quadrimotori su un campo avversario. Forse sì, ma le loro vicende appassionanti non erano mai state finora narrate o, per altri motivi, venivano addirittura poste sotto silenzio”.

Questo inizio della presentazione, stampata sulla quarta di copertina del formato pocket (1969), promette ciò che è dal testo mantenuto.

Le memorabili “vicende” formano quasi tutti i 24 capitoli del libro, quasi tutte eroiche e idonee a fornire interessanti soggetti cinematografici. Le avventure di impavidi, le dimostrazioni di abnegazione, di carattere, di nobiltà e di abilità, sono tanto più autentiche data la ben nota inferiorità numerica e, non di rado, tecnica dei velivoli mandati contro il nemico.

Ogni reparto combatté valorosamente: i bombardieri, gli aerosiluranti, i caccia, i tuffatori (Stuka), i ricognitori, gli apparecchi adibiti ai trasporti e ai rifornimenti. Nel 2004, la lodevole Casa Editrice Mursia, specializzata nel rendere giustizia ai nostri militari impegnati sui vari fronti, ha curato la riedizione di questa panoramica sulle glorie delle nostre armi nei cieli di Libia, dell’A.O., di Albania e Grecia, di Francia, di Russia, di Tunisia e Algeria, dello Stivale e dell’intero Mediterraneo, dal Dodecaneso a Malta e a Gibilterra. Inoltre, dello stesso Autore, la Mursia ha pubblicato Storia di 10.000 aeroplani – L’Aeronautica Militare Italiana dal giugno 1940 al settembre 1943.

 

Il nostro cinema aveva pur rappresentato l’atmosfera in cui ebbe a svolgersi il nostro conflitto aereo, ma la diffidenza verso le trame di fantasia e il sospetto – in realtà infondato- della retorica diminuivano la testimonianza degli avvenimenti la quale, per gli atti di valore e per la sua estensione, era più importante delle storie cinematografiche. Tuttavia non si può dire che I tre aquilotti (1942), Un pilota ritorna (1942) protagonista Massimo Girotti, Gente dell’aria (1943) protagonista Gino Cervi, e Uomini e cieli (1943) dell’egregio regista Francesco De Robertis, siano state opere insincere o trascurabili.

Nel 1957 il regista Giuseppe Masini girò Il cielo brucia, lavoro di pregevole fattura, sebbene composito, interpretato da Amedeo Nazzari e Folco Lulli. Attraversate con ardimento, inclusa un’encomiabile impresa individuale, le successive fasi della guerra, comandante e sottufficiale devono prendere partito davanti alla resa (armistizio dell’8 settembre ’43), rientrando nei ranghi del Regno del Sud, oppure aderendo alla Repubblica del Nord. I due opteranno per la fedeltà giurata al re, senza però disconoscere la scelta dei loro compagni, che decidono di servire l’onore d’Italia sul fronte opposto. Forse per la prima ed ultima volta, nel dopoguerra, si osò portare così su uno schermo il dramma della Nazione spezzata in due e dei suoi militari schierati forzatamente con gli eserciti stranieri contrapposti.

Due battelli pneumatici alla deriva nella burrasca, non avvistati dai ricognitori del salvataggio, si incontrano recando a bordo, sfiniti, un pilota sudista e uno nordista. Il primo, abbattuto dalla caccia tedesca, rassicura il secondo, abbattuto dagli inglesi, circa la buona fede di entrambi. Gettati cadaveri sulla spiaggia, essi ricevono una stessa sepoltura, sulla quale il prete dice parole di pietà, auspicando che dal sacrificio che li ha accomunati nasca un germe di pacificazione nazionale.

 

Descrivendo le vite degli aviatori sopravvissuti alla comune sconfitta e la loro ripresa delle armi, in numero quasi pari dalla parte della monarchia e dall’altra parte, l’Autore di Aviatori italiani segue la medesima idea del trascendimento delle ragioni politiche. In effetti, lo spirito di sacrificio per la Patria e per la solidarietà con i compagni caduti pervadeva fin dall’inizio i comportamenti dei valorosi, al di là del puro senso del dovere e dell’onore, annullandosi qualsiasi orgoglio suicida, qualsiasi disperato romanticismo; nei diversi casi, si sente la bellezza della vita concepita per quello che è: un’occasione per spenderla bene, degnamente, nella sua ineludibile finitezza terrena. Al loro riguardo, non c’è retorica nel detto: Chi muore per la Patria è vissuto assai.

Purtroppo, l’alto tema del superamento degli odi e delle partigianerie, toccato con garbata semplicità da Franco Pagliano, non venne raccolto autorevolmente, cadde nel vuoto di un Paese avvilito dai rancori e dai bassi interessi. Neppure i piloti che, scampati alle raffiche e ai campi di prigionia, occuparono posti di rilievo nell’esercito della Repubblica democratica o altrove nella società, poterono fare qualcosa perché avessero fine gli ingiusti ostracismi e la triste eredità della disgraziata guerra civile.

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