Byung-chul Han, filosofo per il ritorno alla sapienza nel quotidiano

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Pura lettura. Insieme al frinire delle cicale, al fiorire d’inciviltà e a un finire di civiltà, il torridume mi ha portato l’opera pensante di Byung-chul Han. Il filosofo sudcoreano tra gli studi può vantare anche la Teologia cattolica e si è seduto in cattedra alla berlinese Universität der Künste. La sua produzione prolifica non manca di peccatucci (un certo indulgere nel citazionismo e nel compilatorio, una certa ripetitività di idee e contenuti) ma ha i meriti delle intuizioni ricche, della lettura agevole, della mancanza di pedanterie vane ed è a portata di ogni neurone, di ogni ventricolo, di tutte le tasche. Il professor Han si dimostra osservatore puntuale, abile di visione orientale e occidentale congiunta, interprete profondo di Zeitgeist: cioè dello spirito di un tempo fluido che ripugna la solidità, della linfa di una stagione smemorata che sega le radici, dell’anima del regresso nel progresso, della consapevolezza di un mondo che perde la bussola nonostante il navigatore satellitare.

Nella ricerca del vero Nord, i testi haniani soccorrono, sollevano, aiutano, aprono vie, spalancano orizzonti. Panoramica spicciola, non esaustiva, per materie grigie con curiosità, libertà, indipendenza. “La società della stanchezza” affronta il male di stagione: l’ansia da prestazione, il vincolo della competizione, la frenesia dell’iperattività, l’appello all’iperproduzione che alla lunga generano demotivazioni e depressioni. “L’espulsione dell’altro” evidenzia l’appiattimento che scaturisce dalle connessioni digitali, il proliferare di un Uguale che annulla differenze e specificità, la moltiplicazione di Io privi di Tu. “La salvezza del bello” origina da Dostoevskij per analizzare in maniera disincantata la deriva dell’esperienza estetica contemporanea, fondata su percezioni momentanee, su eccitazioni occasionali. “La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite” guarda ai miti del salutismo e del benessere interrogandosi sul terrore planetario per le malattie, su un dolore che sembra avere perso senso e significato pure per le grandi religioni tradizionali, sull’eliminazione sociale di quanto riguarda la fragilità, la caducità, la morte.

La società della trasparenza” è il modello esistenziale odierno costantemente sotto controllo, propugnatore di una finta privacy sempre violata. “La scomparsa dei riti. Una topologia del presente” considera il narcisismo, la mercificazione, il consumismo dei prodotti comprese le informazioni, la comunicazione senza comunità che si risolve in un continuo, opprimente, molesto, insistente e penetrante rumore di fondo. “Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale” afferma la perdita di contatto con la realtà, con il concreto modesto e quotidiano: “Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il Cloud. Il mondo si fa sempre più inafferrabile, nuvoloso e spettrale”. Ultimo “Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete” prende atto con amarezza che “nel regime dell’informazione essere liberi non significa agire, ma cliccare, mettere like e postare”.

In sintesi, l’ammaestramento che ci pare di estrapolare dalla sapienza saggistica di Byung-chul Han è il seguente: disconnettersi dal Falso, dal Brutto, dal Cattivo per connettersi con il Vero, il Bello, il Buono; mollare il Virtuale per sintonizzarsi sul Reale; rivalutare l’adæquatio rei et intellectus di tomistica memoria spazzando via l’uniformità e il conformismo, cacciando stimoli, suggestioni, condizionamenti, inganni impastati e impostati dal pensiero dominante e dalla dittatura del politicamente corretto, veicolati ossessivamente per ogni dove, in ogni campo. C’è salvezza nel rifiuto all’allineamento, nel distinguersi per non estinguersi.

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