La (grande) Storia nei (piccoli) Canti popolari/IV

 

Signor lo Re a j’ha bin dije…

 

Canzone nr. 138: La marchesa di Cavour (sec. XVII)

 

Soa Autëssa l’é montà an caròssa,

An caròssa l’é bin monté,

Che a la Venarìa a veul andé.

Quand a l’é stàit a la Venarìa,

L’ha butà le guardie tut antorn

Për la marchèisa de Cavour.

Bela Madamin monta an caròssa,

An caròssa l’é bin monté,

A la Venarìa la veul ’dcò andé.

Quand a l’é stàita a la Venarìa,             10

L’ha trovà le guardie tut antorn

Për la marchèisa de Cavour.

Bela Madamin sfòrsa le guardie,

E le guardie l’ha bin sforsé;

Për cole stansie la veul andé.

Quand a l’é stàita ant cole stansie,

La marchèisa l’ha trovà cogià

E soa Autëssa da l’àutër là.

– Mi ve ringrassio, sora marchèisa,

Sora marchèisa, ’v ringrassio tan’,        20

Che ve sie fàit un sì bel aman. –

Sora marchèisa a j’ha ben dije:

– So-sì l’é pa dël me piasì;

L’é soa Autëssa ch’a veul così. –

Soa Autëssa a j’ha ben dije:

– Bela Madamin, sté chieta voi,

La marchèisa l’é pì bela ch’voi. –

Bela Madamin monta an caròssa,

An caròssa l’é bin monté,

Che an la Fransa la veul torné.             30

Quand l’é stàita a mità strada,

Bela Madamin ’s vòlta andaré,

A l’ha vist ëvnì doi valé ’d pié.

– Ò fërma, fërma, ti dla caròssa,

Fërma, fërma, che ’t fareu fërmé,

E drenta na tor ’t fareu buté. –

Bela Madamin ch’a j’ha ben dije:

– S’a fussa nen dël me fiolin

Già mai, già mai torneré a Turin. –

Quand l’é stàita pr’antré ant le pòrte                40

Tuti fasìo solenità;

Bela Madamin a l’é tornà.

L’ha mandà ciamé sora marchèisa:

– Mi ve dagh temp solament tre di,

An sël me stat fërmeve pa pì. –

 

[Valfenera. Asti. Trasmessa da Nicolò Bianco]

 

Sua Altezza è salito in carrozza,/ In carrozza è certo salito,/ Che alla Venaria vuole andare./ Quando è stato alla Venaria,/ Ha messo le guardie tutto intorno/ Per la marchesa di Cavour./ La bella Madamina (cioè, la Regina) sale in carrozza,/ In carrozza è certo salita,/ Alla Venaria la vuole anche lei andare./ Quando è stata alla Venaria,/ Ha trovato le guardie tutto intorno/ Per la marchesa di Cavour./ Bella Madamina forza le guardie,/ E le guardie certo le ha forzate;/ Per quelle stanze la vuole andare./ Quando è stata in quelle stanze,/ La marchesa ha trovato coricata/ E sua Altezza dall’altra parte./ – Io vi ringrazio, signora marchesa, Signora marchesa, vi ringrazio tanto,/ Che vi siete fatta un così bell’amante. –/ La signora marchesa le ha ben detto:/ – Ciò non è un mio piacere;/ È sua Altezza che vuole così. –/ Sua Altezza le ha ben detto:/ – Bella Madamina, state calma voi,/ La marchesa è più bella di voi. –/ Bella Madamina sale in carrozza,/ In carrozza è certo salita,/ Che in Francia la vuol tornare./ Quando è stata a metà strada,/ Bella Madamina si volta indietro,/ Ha visto arrivare due staffieri./ – O ferma, ferma, tu della carrozza,/ Ferma, ferma, che ti farò fermare,/ E dentro ad una torre ti farò mettere. –/ Bella Madamina che gli ha ben detto:/ – Se non fosse per il mio bambino,/ Giammai, giammai tornerei a Torino. –/ Quando è stata per entrare dalle porte/ Tutti le facevano omaggi;/ Bella Madamina è tornata./ Ha mandato a chiamare la signora marchesa:/ – Io vi do tempo solamente tre giorni,/ Sul mio stato non restate più. –

 

Testo

Come già osservato in altre occasioni, il testo, anche se non coevo ai fatti narrati (per la datazione degli avvenimenti: cfr. infra), dovrebbe comunque risalire almeno al secolo XVIII, poiché presenta alcuni tratti arcaici, il più evidente dei quali è il termine aman (v. 21), francesismo che riproduce anche graficamente la pronuncia gallica senza la presenza della -t finale (perciò vediamo che, per necessità di rima, anche il termine tan’ del verso precedente si presenta privo della consonante finale che invece normalmente è presente sia nella pronuncia che nella grafia: tant)[1].

Il lessico è discretamente elevato (per essere un testo popolare) e presenta due forme degne di interesse: l’uso del sostantivo madamin, termine usato normalmente per indicare la donna sposata quando ancora la suocera (madama) è in vita, ma qui col valore tecnico di “sposa del Sovrano” e di solenità con valore giuridico-formale per indicare le forme di saluto richieste dall’etichetta.

 

Personaggi

Oltre al “coro”, costituito da guardie, staffieri, cocchiere ecc., i protagonisti sono tre (se vogliamo, un corrivo triangolo amoroso: lui, lei, l’altra…), vale a dire il duca di Savoia Carlo Emanuele II, la sua seconda moglie, Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, e la sua amante, Giovanna Maria di Trecesson, marchesa di Cavour.

Carlo Emanuele II, duca di Savoia e principe di Piemonte, nacque a Torino nel 1634, ed ivi morì nel 1675. Sposò in prime nozze Francesca Maddalena d’Orléans, morta nel 1664 senza che avesse potuto dargli figli. Pertanto, in seconde nozze, nel 1665 sposò Giovanna Battista di Savoia Nemours dalla quale ebbe Vittorio Amedeo (1666-1732), futuro Duca di Savoia dal 1675 con il nome di Vittorio Amedeo II, e successivamente Re di Sicilia, dal 1713 al 1720, e infine Re di Sardegna dal 1720. Proprio questi è il fiolin (bambino), citato al v. 38 della canzone. Il Duca ebbe poi altri figli naturali da Maria Giovanna di Trecesson, marchesa di Cavour, e cioè Cristina Ippolita (1655-1730), Luisa Adelaide (1662-1701) e Giuseppe di Trecesson (†1736); mentre da Gabriella di Mesmes de Marolles, contessa delle Lanze, ebbe Francesco Agostino e Carlo, detto il Cavalier Carlino.

Maria Giovanna Battista di Savoia (Parigi, 1644-Torino, 1724) fu l’ultima discendente dei conti del Genevese. Figlia di Carlo Amedeo di Savoia-Nemours e di Elisabetta di Borbone-Vendôme, sposò (come detto) il duca di Savoia Carlo Emanuele II, dopo la cui morte mantenne la reggenza dello stato sul giovane principe Vittorio Amedeo II. Essa fu detta la seconda Madama Reale dopo sua suocera Cristina di Francia, madre di Carlo Emanuele II.

Poche le notizie invece su Maria Giovanna di Trecesson, marchesa di Cavour: se ne ignora la data di nascita, mentre sappiamo che morì a Parigi nel 1677.

 

Vicenda

Secondo le fonti cronachistiche il fatto narrato nella canzone avvenne nel 1668 ed è stato anche raccontato, proprio sulla falsariga di questa canzone, dal poeta e scrittore torinese Guido Gozzano (1883-1916) nella sua novella intitolata La Marchesa di Cavour (nella raccolta L’altare del passato, uscita postuma nel 1918.).

Come si evince dunque dal testo della canzone, il Duca, appartatosi – con la scusa di una partita di caccia – nella reggia della Venaria Reale (allora non ancora del tutto terminata, poiché la sua costruzione andò dal 1658 al 1679) con la sua amante marchesa di Cavour, viene sorpreso dalla legittima moglie. A questo punto abbiamo un brevissimo “teatrino”, in cui una battuta sola viene pronunciata da ciascuno dei tre protagonisti: mentre il Duca mortifica la moglie sottolineando la maggiore bellezza dell’amante (La marchèisa l’é pì bela ch’voi), l’amante si giustifica adducendo come scusa una sorta di “violenza di stato” (So-sì l’é pa dël me piasì;/L’é soa Autëssa ch’a veul così) e infine la moglie tradita si mostra come la più pragmatica dei tre, poiché, seppure a distanza di breve tempo (quello necessario per tornare a Torino dalla Venaria ed elaborare, evidentemente, la propria vendetta), caccia sui due piedi la rivale dal proprio stato (Mi ve dagh temp solament tre di,/An sël me stat fërmeve pa pì).

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[1] Altri tratti arcaici sono: la desinenza -eu dei futuri indicativi (per -ai), quella -é del condizionale presente (per -ìa) e infine quella, sempre in -é, del participio passato (per -à).

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