La (grande) Storia nei (piccoli) Canti popolari/XI

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Signor lo Re a j’ha bin dije…

 

Canzone nr. 145: I giacobini di Torino (1799/1800)

 

I GIACOBINI DI TORINO

 

Sti Giacobin ’s fasìo rason, vorèivo ’lvé la religion.

Lor i fasìo na gran festa a prèive e fra copé la testa.

La libërtà l’é andà a la fin a confusion dij Giacobin.

’L general Russ a l’é rivà, sot a Turin as je fërmà;

As je fërmà na gran batarìa, bombe e granade e artijerìa;

A n’un batìa a bala afoà, la sitadela é stàita pijà.

I-i son sti sgnori Giacobin, i vorìo esse padron ’d Turin.

“Ò Giacobin, l’hèi ’vù na rota, i l’hèi pijave na bela bòta;

E Giacobin e patriòt, i ve butroma tuti al cròt”.

 

[La Morra. Alba. Trasmessa da Tommaso Borgogno]

 

In questa canzone notiamo in particolare l’avversione popolare (propria specialmente delle campagne) nei confronti dei giacobini, la cui colpa principale, messa in evidenza nel testo, era considerata l’avversione per la religione ed i religiosi. Fin dal titolo, poi, si nota la volontà di sottolineare, il distacco, che potremmo definire morale, tra la città (Torino, a cui appartengono i giacobini) e la campagna tradizionalista e fedele al passato, e per di più non sanguinaria come gli avversari: i giacobini volevano ghigliottinare preti e frati, mentre i lealisti si limiteranno a mettere in prigione i colpevoli. Alcune immagini, ed alcuni versi, relative all’arrivo del Suvorov a Torino o alle intenzioni violente dei giacobini si ritrovano pressoché identiche – come vedremo tra poco – in un’altra canzone dello stesso periodo, non anonima ma scritta dal monregalese Giuseppe Bertolino.

 

Questi Giacobini si facevano forti, volevano eliminare la religione./ Essi ritenevano una gran festa tagliare la testa a preti e frati./ La libertà è arrivata infine a confusione dei Giacobini./ Il generale Russo è arrivato, sotto Torino si è fermato;/ Si è fermata una gran batteria, bombe e granate e artiglieria;/ Batteva a palla infuocata, la cittadella è stata presa./ Ci sono questi signori Giacobini, volevano essere padroni di Torino./ “O Giacobini, avete subito una grande sconfitta, vi siete presi una bella botta;/ E Giacobini e patrioti, vi metteremo tutti in prigione”.

 

Testo

Il testo, sicuramente coevo ai fatti narrati (1798/99), non presenta elementi troppo arcaici, dissimili quindi rispetto all’uso linguistico odierno. Possiamo comunque rilevare il termine copé (“tagliare”; v. 2), francesismo di uso raro, ma non peregrino in piemontese: si usa in genere nel senso specifico di “tagliare il mazzo di carte” (copé ’l mass). Non è tuttavia da escludere, qui, la volontà di sottolineare con l’impiego di questo vocabolo l’origine gallo-ghigliottinesca del “tagliare la testa”, mentre in Piemonte si usava impiccare i condannati a morte.

Un’altra osservazione interessante è sull’uso (v. 9) del vocabolo patriòt (patriota), un uso che potremmo definire “rivoluzionario” di questo termine, qui inteso quasi come sinonimo di Giacobin. A questo proposito possiamo ricordare come il termine patriòt venisse usato tanto dai lealisti che dai giacobini: ciascuno dei due partiti lo usava ovviamente in modo serio riferendolo a sé e in modo, invece, ironico se agli avversari.

Dal punto di vista più strettamente morfologico osserviamo alcune forme non torinesi ma provinciali, dovute evidentemente all’informatore originario del contado di Alba: vorèivo (v. 1) per vorìo (“volevano”), anche se al v. 7 troviamo di contro il torinese vorìo; lor i fasìo per lor a fasìo (v. 2); l’hèi (v. 8) per l’eve (“avete”).

Concludiamo le nostre osservazioni sul testo riportando alcuni passi tratti da una canzone, non anonima, che circolava in Piemonte in quei giorni[1]. Essa era opera di cotal Giuseppe Bertolino, cantastorie cieco di cui altro non si sa se non che fosse originario di Mondovì Breo, in provincia di Cuneo.

Dalle note introduttive al testo, edito in foglio volante, apprendiamo – come detto – che l’autore doveva essere un cieco cantastorie popolare che girava per la città cantando le sue canzoni probabilmente accompagnandosi, come era abitudine, con la viòla, vale a dire non il violino, ma la viòla dij bòrgno (“viola dei ciechi”, appunto perché caratteristica dei ciechi suonatori ambulanti), cioè la ghironda[2].

Notiamo infine che la lingua della canzone è il piemontese cosiddetto “comune” (koinè), a base torinese, con l’inserimento di forme del Piemonte meridionale, quali vàivo (“volevano”) e, pur non presente nei versi riportati, dvèive (“dovevate”).

 

Canteroma tuti ampò

Che la guèra a l’é finìa:

Ij Fransèis l’han tuti ij tòrt,

Si cantomlo pura fòrt.

Ch’ampacheto pur soe male,

Ch’Bonaparte ha voltaje le spale,

 

[Rit.] Rije Patriòt, rije Giacobin,

Che so-sì l’é andàit al fin.

 

Che gran fastidi dij Giacobin

Che coste bastonade son a la fin.

Voi Giacobin ch’i avé la rota

Lassé ’l fat vòstr, e andevne a l’oca[3];

Giacobin e Patriòt

Si butomje tuti al cròt.

 

[…]

 

Ël General Russ a n’é rivà,

Sot a Turin as é fërmà,

A l’ha piantane na gran batarìa,

Bombe e granade, che gran maravija,

E ancor ëd pì a bale anfocà

La Sitadela n’é stàita pijà.

 

Ah col bel di dla Consolà[4]!

La bela grassia ch’a l’é stà!

As é rendù la Sitadela,

Ancor ’nsem ’l General Fiorella[5],

Ancor ’d pì tuti ij Giacobin,

Òh la bela grassia ch’n’ha avù Turin!

 

[…]

 

Sti Giacobin j’ero tuti l’ocasion,

Ch’i vàivo levé la Religion,

I vàivo fé d’una gran festa,

A Prèive e Frà [i vàivo] fé copé la testa,

E lo-lì n’é pa andàit bin,

Ch’avìo ant la testa ij Giacobin.

 

Canteremo tutti un po’/ Che la guerra è finita:/ I Francesi hanno tutti i torti,/ Sì cantiamolo pure forte./ Impacchettino pure le loro valigie,/ Che Bonaparte ha voltato loro le spalle,/ Ridete Patrioti, ridete Giacobini,/ Che questo è andato alla fine.// Che gran fastidio per i Giacobini/ Che queste bastonate sono alla fine./ Voi Giacobini che avete la disfatta/ Lasciate il fatto vostro, e andatevene all’inferno (lett. all’oca);/ Giacobini e Patrioti/ Sì mettiamoli tutti in prigione.// […] Il Generale Russo è arrivato,/ Sotto Torino si è fermato,/ Vi ha piantato una gran batteria,/ Bombe e granate, che gran meraviglia,/ E ancor di più a palle infuocate/ La Cittadella è stata presa.// Ah quel bel giorno della Consolata!/ La bella grazia che è stata!/ Si è arresa la Cittadella,/ Ancora insieme al Generale Fiorella,/ Ancora di più tutti i Giacobini,/ Oh la bella grazia che ha avuto Torino! […] Sti Giacobini con le loro invenzioni/ Ci hanno fatto andar via un Re così buono,/ Essi ne hanno fatto una gran festa,/ In tutto il Piemonte, oh che gran tempesta!/ Prima che il Re torni a Torino/ Facciano ben attenzione i Giacobini.

 

Fatti

La canzone risale al periodo compreso tra la fine della cosiddetta 1a Nazione Piemontese (dicembre 1798-maggio 1799) e la Restaurazione avvenuta grazie all’arrivo in Piemonte dell’esercito austro-russo (maggio 1799-maggio 1800).

Nel dicembre del 1798, dunque, dopo una serie di rivolte “popolari”, ma in realtà orchestrate dai pochi giacobini piemontesi sostenuti dalla Francia[6], venne occupata di forza la capitale, mentre il re Carlo Emanuele IV si ritirava con la corte in Sardegna. Fu poi costituito il governo della “Nazione Piemontese” (Nation piémontaise) con, sul modello rivoluzionario francese, 4 dipartimenti (Eridano, Sesia, Stura e Tanaro) e la bandiera tricolore, coi colori rosso, blu ed arancione. Napoleone vietò l’unione con altre repubbliche giacobine dell’Italia settentrionale, lasciando la scelta tra indipendenza o unione con la Francia, che fu votata dal governo (23 gennaio 1799) e proclamata nell’aprile[7]. Come in ogni rivoluzione che si rispetti, molti contrari furono incarcerati. Tra la fine del ’98 e il gennaio ’99 scoppiarono però le prime rivolte contadine anti-giacobine, queste sì veramente popolari, nei dintorni di Asti, Alba ed Acqui, stroncate dal governo con l’aiuto dei francesi. Altre seguirono dopo la ratifica dell’annessione alla Francia: ancora ad Acqui, nelle Langhe, nel Monferrato (a Strevi), al grido di “viva il re, viva l’indipendenza, viva noi” (cfr. la “Relazione del cittadino Colla” del 12 ventoso anno VII = 2 marzo 1799). Queste rivolte vennero stroncate dal generale francese Grouchy, che si era già “distinto” in Vandea, con un totale di oltre 400 morti. Nacquero poi altre rivolte sulle montagne cuneesi, dove già ne erano scoppiate dopo il passaggio di Nizza alla Francia nel 1792/93, ancora nelle Langhe ed in valle d’Aosta (Champorcher, Donnas e Verrès)[8], con la presa da parte dei rivoltosi del forte di Bard. Nei mesi di aprile e maggio del ’99, poi, queste ribellioni si unirono all’arrivo delle truppe austro-russe. Il 28 aprile del 1799, in seguito alla sconfitta napoleonica del giorno precedente a Cassano d’Adda ad opera degli eserciti alleati austro-russi comandati dal Suvorov, questi entra a Milano, insieme con il maggiore Branda de’ Lucioni e la sua “massa cristiana”[9]. Nel maggio successivo Branda coi suoi ussari entra a Novara ed a Biella, donde lancia il suo proclama ai cattolici. A Chivasso, quindi ormai nei pressi di Torino, ordina l’arruolamento obbligatorio ed il 25 dello stesso mese entra, insieme agli austro-russi, a Torino, abbandonata dal governo repubblicano e dai francesi, che fuggono prima a Pinerolo e poi a Grenoble. Infine il 16 di giugno gli Austro-Russi smobilitano la “massa cristiana” forte di circa 10.000 uomini[10].

Il governo austro-russo sul Piemonte durerà circa un anno, fino cioè alla vittoria napoleonica di Marengo (giugno 1800), durante il quale i Savoia non tornarono dall’esilio poiché, pur volendolo il Suvorov, gli austriaci vi si opposero[11].

 

Personaggi

La canzone si caratterizza per non presentare, in sostanza, nessun personaggio singolo come protagonista (positivo o negativo) delle vicende narrate, ma solamente due entità “collettive”: i narratori, cioè gli anti-rivoluzionari, che attaccano violentemente le azioni compiute (o quanto meno progettate) dai rivoluzionari, ed i loro avversari, cioè i giacobin ed i patriòt, intendendo con questi due termini – rispettivamente – i repubblicani francesi ed i loro manutengoli piemontesi.

L’unica figura storica citata è quella del “general Russ”, vale a dire il principe Aleksandr Vasil’evič Suvorov (Mosca, 1729-San Pietroburgo, 1800), conte di Suvorov di Rymnik, principe ed eroe nazionale russo, famoso comandante in capo d’esercito, l’ultimo nella storia del suo Paese. Considerato uno fra i più grandi generali dei suoi tempi, vinse diverse battaglie contro i turchi e i polacchi, ottenendo prestigio e fama e passando alla storia come uno dei pochi generali a non essere mai stato sconfitto in una battaglia campale.

Egli combatté contro i turchi, in Crimea, Caucaso e Bessarabia, dal 1777 al 1783 e poi di nuovo dal 1787 al 1791, in Finlandia e sul mar Nero (1792-1794), succedendo nel comando al Potëmkin, e successivamente contro i polacchi (1794-1795). Caduto quindi in disgrazia presso il nuovo zar Paolo I (1754-1801; imperatore dal 1796), fu richiamato – su insistenza degli inglesi – come comandante dell’esercito d’Italia (1799), alla guida del quale e con gli alleati austriaci sconfisse i francesi sulla Trebbia ed a Novi, liberando così tutta l’Italia settentrionale dal dominio francese. Fallita la sua intenzione di attaccare direttamente la Francia dal Piemonte, dovette ripiegare in Svizzera e poi in Austria, da dove, pur senza mai essere stato sconfitto, dovette rientrare in patria.

Personalità in grado di galvanizzare le sue truppe con le quali amava intrattenere rapporti molto diretti, morì nel 1800 poco dopo il suo ritorno in Russia.

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[1] Conservata, col titolo di Canzonetta nuova sopra l’aria buffa data alla luce dal cieco Giuseppe Bertolino in Mondovì Breo, nell’Archivio Storico della Città di Torino, coll. Simeom, nr. 10169.

[2] Strumento molto diffuso in tutta Europa fin dal medioevo. Il suo nome è vielle a roue, in francese, e hurdy-gurdy, in inglese.

[3] Il testo presenta in realtà la forma agglutinata alòca, di significato ignoto e non riconducibile ad alcunché di interpretabile. Gia Gustavo Buratti, primo editore moderno del testo, proponeva – e la sua congettura è stata da noi accettata – di scrivere a l’òca, ricordando come in piemontese ël Paradis ëd j’òche (il Paradiso delle oche) è una forma popolare semi-gergale per indicare “l’inferno”. Non escludiamo, tuttavia, che, essendo Occa (piem. Òca), una piccola borgata del comune di Envie (Saluzzo), la formula andé a l’Òca possa voler significare “andare in un luogo remoto e sconosciuto”.

[4] La festa della Consolata, patrona dell’Arcidiocesi di Torino, si celebra il 20 giugno e la Cittadella fu presa dagli Austro-Russi, entrati in città già nella notte tra il 25 e 26 maggio, proprio in quel giorno del mese di giugno.

[5] Il generale francese conte Pasquale Antonio Fiorella (Ajaccio, 1752-1818) era il responsabile della difesa della città di Torino all’arrivo degli austro-russi.

[6] A proposito dei giacobini piemontesi possiamo leggere ciò che riporta lo storico pinerolese Francesco Cognasso (1886-1986) «Quando nel 1799 nella breve occupazione austro-russa si indagò sul movimento giacobino del 1798 si constatò come fossero pochi i responsabili della rivoluzione. Anche a Torino come nelle altre città piemontesi si trattava di poche decine di individui: nobili declassati, borghesi, professionisti senza lavoro, preti e frati in rotta con la chiesa. Molti gli ingenui ubriacati dalla retorica rivoluzionaria. Pochi certo partecipavano a questa ondata con sincerità: i più erano spinti dal desiderio di piacere ai nuovi dominatori, molti da leggerezza impulsiva. Liberté, Egalité, Fraternité era scritto dovunque, ma l’arguzia del popolo commentava: ij Fransèis an caròssa e noi a pe». F. Cognasso, Storia di Torino; Torino, 1934 (rist. anast. Firenze 1978), p. 391.

[7] Sul problema della indipendenza o della annessione alla Francia della 1a repubblica piemontese riportiamo quanto testimoniato dallo studioso di “antichità” piemontesi e torinesi Alberto Viriglio (Torino, 1851-1913): «Nell’inizio [1798] della nuova èra diversi erano i pareri e varie le aspirazioni circa la sorte del nostro paese. Gli Italici opinavano per lo stabilimento di una repubblica di tutta l’Italia; gli anelanti alla indipendenza dalla Francia pensavano ad una repubblica piemontese [Calvo]; alcuni patrocinavano l’unione colla Cisalpina, altri finalmente (ed era il partito ufficiale) volevano la riunione pura e semplice colla Francia». A. Viriglio, Vecchia Torino; Torino 1905 [rist. in Torino e i torinesi; Torino 1970], p. 15.

[8] Diverse le opinioni, date dagli storici, su queste rivolte popolari (specie quelle dei “montagnards”), sintetizzabili comunque in quattro categorie principali, di cui una di “destra”, due di “sinistra” ed una quarta che, elaborata dallo storico locale biellese Gustavo Buratti (1932-2009), cfr. «Ij Brandé, armanach ëd poesìa piemontèisa» 1997, pp. 57-59, si pone tra le tre classiche, e tra loro antitetiche o quantomeno divergenti, che vedono in queste rivolte contadine o la reazione conservatrice dei piccoli proprietari terrieri contro le idee rivoluzionarie che avevano preso il potere (origine di “destra” o “vandeana”) oppure, sì, la reazione alla rivoluzione da parte dei contadini, ma subornati, guidati ed in ultima analisi illusi e strumentalizzati dalle bieche forze della nobiltà e del clero (origine di “sinistra”, di orientamento “giacobino”), o ancora, al contrario, come l’azione diretta e violenta dei contadini più poveri che vedevano nell’istituzione del governo repubblicano una sorta di fallimento della rivoluzione radicalmente intesa (origine di “sinistra”, di orientamento “sanculotto”). Ci si ribella invece – secondo Buratti – per un’antica volontà di indipendenza montanara, o quanto meno campagnola, simboleggiata in qualche modo da uno dei gridi di ribellione più diffusi, cioè “viva noi”, in opposizione alle città.

[9] Di questa controversa figura di militare e di capo-popolo si sa che, di famiglia nobiliare originaria di Abbiate Guazzone (Varese), nacque o a Milano o a Winterberg, in Boemia, intorno al 1740; fu maggiore dell’esercito austriaco, venendo fatto prigioniero dai francesi nel 1796. Dopo le vicende piemontesi se ne hanno poche notizie fino alla morte, avvenuta a Vicenza nel 1803.

[10] Ancora Gustavo Buratti (op. cit.) esprime la sua opinione su questa smobilitazione forzata: essa sarebbe avvenuta per il timore che la “massa cristiana” potesse fomentare una rivolta anti-nobiliare.

[11] Di questo periodo sempre il Viriglio (op. cit., p. 37) ci riporta un interessante epigramma francese, relativo all’instabilità delle opinioni del tempo, opera del futuro re Carlo Felice: «Si Bonaparte approche/ Je suis de son parti,/ S’il reçoit la taloche/ Je ne suis pas pour lui./ Je porte dans ma poche/ L’aigle et les fleurs de lys» (Se Bonaparte si avvicina/ Io sono del suo partito,/ Se si prende una sberla/ Io non sono dalla sua parte./ Io porto in tasca/ L’aquila e i fiori del giglio).

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