Dopo la scoperta del sepolcro vuoto: come si rivela il Risorto?

“O stulti et tardi corde ad credendum in omnibus, quae locuti sunt Prophetae! Nonne haec oportuit pati Christum et intrare in gloriam suam?” (Lc 24, 25 – 26).

 

 

Lo storico evento della Resurrezione di Cristo appartiene a due diversi ambiti di riflessione: a quello umano e a quello della fede, così come la stessa figura di Gesù può essere vista sotto il profilo soltanto umano – considerando cioè il fatto oggettivo che Egli sia “nato da donna” (Gal 4, 4) –  oppure nella Sua realtà divina e allora per credere che Egli, per opera dello Spirito Santo, fu concepito nel seno di una vergine, occorre la Rivelazione.

Altrettanto può dirsi per la Resurrezione. La scoperta del “sepolcro vuoto” ha avuto spiegazioni che alla prova dei fatti si sono rivelate inconsistenti, e infatti in un’ottica totalmente laica essa rimane senza alcuna spiegazione. Le donne, dal canto loro, constatando la sparizione della salma non pensarono affatto alla Resurrezione, anche se la conoscenza della Scrittura avrebbe dovuto illuminarle, e così pure i discepoli di Emmaus, che ebbero bisogno, per  raggiungere la Fede, dell’affettuoso rimprovero di Gesù: “O insensati e tardi di cuore a credere tutto ciò che hanno detto i profeti! Non doveva forse il Messia patire tali cose e così entrare nella gloria?”.

Secondo i tre Vangeli sinottici, oltre alla vista della tomba vuota, fu necessaria la testimonianza degli angeli mentre, secondo Giovanni, il “discepolo amato” accorso al sepolcro assieme a Pietro, “credette” non solo vedendo che il cadavere era sparito, ma che le bende che lo avevano avvolto non erano state sciolte, ma si erano afflosciate su se stesse perché quel corpo, risorgendo ad una condizione non più soggetta alle leggi fisiche naturali, le aveva semplicemente attraversate (Gv 20, 8).

E’ l’ “Anàstasis”. Questo termine – che, secondo il vocabolario greco/italiano di Lorenzo Rocci, può significare sia l’atto di elevare, di costruire (un edificio) che il rialzarsi, il risollevarsi (dopo una caduta o dopo una malattia) – nel Nuovo Testamento indica la Resurrezione, ossia il potere di Dio sulla vita e sulla morte. Il termine era conosciuto anche nel mondo giudaico e i farisei credevano che, nei tempi messianici, Dio avrebbe richiamato dallo sheol i santi di Israele. A questo allude Matteo (27, 52) – il quale, come è noto, scriveva il suo Vangelo per gli Ebrei seguendo il genere letterario dell’apocalittica giudaica – quando riferisce che, alla morte di Gesù, “i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua resurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti”. Quindi se per i Giudei del tempo quel termine aveva il significato del sicuro intervento di Dio nel mondo, nel caso di Gesù significa invece che l’umanità del Cristo è liberata non solo dalla morte, ma anche dalla condizione mortale, è passata cioè a una vita incorruttibile per opera dello Spirito e così ha superato infinitamente la semplice realizzazione della speranza messianica, rivelandosi come l’opera di Dio per eccellenza e l’avvenimento chiave della storia dell’uomo[1].

Quindi, la fede nella Resurrezione si fonda sulla Parola di Dio, così come la fede nell’Incarnazione si fonda sulla rivelazione a Giuseppe che “quel che in Maria è generato è opera dello Spirito Santo” (Mt 1, 20). Ma la Resurrezione era già stata annunciata apertamente, e molte volte, dallo stesso Gesù (per esempio, in Mc 8, 31), ma i discepoli non l’avevano compreso (come tanti ancora oggi stentano a comprendere e ad accettare questa realtà) e solo quando l’angelo ricorderà loro le parole di Gesù anche le donne se ne ricorderanno (Lc 24, 8). Anche le Scritture avevano profetizzato la Resurrezione e lo stesso Gesù dovette ricordarlo ai discepoli di Emmaus (Lc 24, 25 – 26). Neppure Pietro e Giovanni, accorsi insieme al sepolcro, pensarono inizialmente alle Scritture e alle parole di Gesù, ma a Giovanni (secondo una tradizione diversa da quella dei Vangeli sinottici) bastò la vista del sepolcro vuoto per credere nella resurrezione promessa nell’Antico Testamento, cioè nell’annuncio dell’intervento escatologico di Jahvè che suscita una nuova creazione per potenza dello Spirito.

Così i discepoli di Gesù arriveranno alla Fede nella Resurrezione attraverso una triplice rivelazione: attraverso la Parola di Dio, che fa capire loro che la tomba è vuota perché Gesù è vivo nell’anima e nel corpo; attraverso il ricordo di quanto aveva detto a chiare parole il Maestro stesso a questo proposito; attraverso il richiamo alle Scritture, secondo le quali l’azione escatologica dell’opera dello Spirito si è concretizzata con la Resurrezione.

Ma gli angeli che ruolo hanno nell’evento chiave della storia della Salvezza? Tutti e quattro i Vangeli ne parlano ma in modo un po’ diverso l’uno dall’altro. Secondo Matteo (28, 2 – 3) l’angelo sceso dal cielo aveva fatto rotolar via la pietra e vi si era seduto sopra: “Era folgore l’aspetto, era neve il vestimento”.  Secondo Marco (15, 16) appare “un giovane, seduto sulla destra, vestito di una candida veste”. Luca (24, 4) parla di “due uomini … in vesti sfolgoranti” ma più avanti (24, 23) accenna anche ad angeli. Giovanni (20, 12) parla di “due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi dove era stato posto il corpo di Gesù”.  Le differenze sono poco importanti: ciò che conta è capire che gli angeli, cioè “la corte celeste”, sono sempre accanto a Dio quando Egli è presente. Come sono presenti, glorificandoLo, alla nascita di Gesù, così sono presenti al momento della Resurrezione. Gli angeli testimoniano l’intervento di Dio: la Resurrezione e le loro “vesti bianche” e l’ “aspetto di folgore” rivelano la Sua gloria, così come la rivelarono al momento della trasfigurazione di Gesù (Mt 17, 2) e la riveleranno al momento della parusìa (Mt 24, 27). Anche se Dio non ha voluto che la Resurrezione avesse testimoni diretti, lo splendore degli angeli, che fa perdere i sensi alle guardie e spaventa le donne riempiendole di stupore, è la Rivelazione che il Cristo, non solo è stato sottratto alla morte, ma è anche entrato nella gloria di Dio.

Secondo Matteo (28, 7) l’angelo, da vero “ànghelos”, ossia “messaggero” di Dio secondo il significato del termine greco, annuncia alle donne la buona novella e trasmette loro le Sue istruzioni: “Presto, andate a dire ai suoi discepoli: E’ risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto”. Questo è il ruolo degli angeli e altrettanto riferiscono Marco e Luca; solo Giovanni (20, 13) limita il loro ruolo a consolare Maria di Màgdala in lacrime, ma subito dopo Gesù le si mostra, anche se inizialmente lei non Lo riconosce e ha bisogno dell’intervento di Lui che, chiamandola per nome, le consente di superare l’ultimo ostacolo umano nella conquista della Fede pasquale.

A questo punto sorge in me, cattolica “bambina”, il problema (o meglio, io direi, la curiosità umana) di definire meglio la natura e la figura degli angeli secondo la nostra possibilità di comprensione. Essi non sono di natura divina, sebbene appartengano al mondo celeste; sono creature pure, ma non paragonabili alle anime umane, come hanno pensato alcuni filosofi greci e giudaici. Spiega Jean Daniélou, al quale questa mia riflessione deve molto[2], che “gli angeli costituiscono un ordine di realtà personali al di qua di Dio e al di là dell’uomo” e la tradizione cristiana, da S. Tommaso d’Aquino all’ enciclica Humani Generis  di Pio XII (Par. II),  ha confermato che essi sono una realtà spirituale, dalla consistenza propria, che non si lascia assimilare ne a Dio, né all’uomo.

L’uomo non riesce a sopportare il loro splendore perché  la loro bellezza è intollerabile, ma è pur sempre nulla in confronto allo splendore della gloria di Dio. Solo gli spiriti limitati ed ottusi che affollano questa nostra triste epoca relativista e nichilista potranno pensare che la loro esistenza sia una favola, così come pensano che Dio sia solo frutto dell’illusione umana. Ma gli angeli sono nostri compagni quotidiani, dei quali dovremmo tutti ricordarci più spesso per invocarne la protezione, secondo il compito affidato loro da Dio, perché sono loro che ci accompagneranno davanti a Lui nel momento supremo della morte.

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[1] Questo, a giudizio di un’umile cattolica “bambina”, significa che la Resurrezione di Cristo, evento chiave nella storia umana e nella storia della  salvezza, fa sì che il Cristianesimo non può essere assimilato o messo sullo stesso piano di nessuna altra religione o fede. Eppure è proprio questo che in questa epoca di relativismo, di sincretismo, di “buonismo” spirituale spinti ad oltranza, si vuole far credere alle giovani generazioni nella catechesi e nelle scuole di tutto il mondo.

[2] J. Daniélou, LA RESURREZIONE, Cantagalli, Siena 208.

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