Omicidio Calabresi: dopo 49 anni, l’incredibile resa dei conti

Milano, via Cherubini, 17 maggio 1972. Sull’asfalto, il sangue del Commissario di PS Luigi Calabresi, vilmente assassinato dai terroristi rossi con due colpi sparati alle spalle. In abito scuro, il Questore di Milano, Ferruccio Allitto Bonanno. Sulla destra, Antonino Allegra, dirigente dell’Ufficio Politico della Questura.

 

Un ripensamento di portata storica

 

Il 28 aprile scorso, grazie al mandato di cattura (dieci mandati dei circa duecento richiesti dall’Italia) emanato dal presidente francese Emmanuel Macron, è stato arrestato a Parigi Giorgio Pietrostefani, mandante dell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato a Milano il 17 maggio 1972. Assieme a Pietrostefani, sono stati arrestati altri sei ex-brigatisti rossi italiani che avevano trovato rifugio in Francia. Altri due ricercati si sono costituiti e solo uno, per ora, è riuscito a sottrarsi alla cattura ed è braccato. L’operazione è stata condotta dall’Antiterrorismo della polizia francese in collaborazione con l’Antiterrorismo della polizia italiana. I dieci italiani ricercati sono accusati di crimini di terrorismo compiuti tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Pietrostefani deve scontare una pena di 14 anni, 2 mesi e 11 giorni. Inizialmente era stato condannato a 22 anni, ma la pena era stata poi ridotta. Esattamente come al leader di Lotta Continua Adriano Sofri, che però ha interamente saldato il suo conto con la giustizia.

L’evento è dovuto ad un “ripensamento” di portata storica del presidente francese Emmanuel Macron, il quale ha precisato di avere applicato la «dottrina Mitterrand»: accordare asilo ai ricercati per ragioni politiche “purché non responsabili di reati di sangue”. Curioso che ai francesi ci siano voluti 49 anni (tanti quanti sono trascorsi dall’assassinio Calabresi) per rendersene conto.

Il “Corriere della Sera” il 21 novembre scorso pubblicò in prima pagina un articolo di Ernesto Galli della Loggia dal significativo titolo: «Terrorismo e anni di piombo: le ragioni di una rimozione». Vi si poteva leggere: «Da molto tempo ci troviamo, in mezzo a noi, capi e sottocapi dei gruppi extraparlamentari i quali a suo tempo si fecero banditori di violenza o in vario modo non si tirarono indietro neppure davanti al terrorismo. Non solo indisturbati e magari con ruoli importanti in questo o quel settore (di preferenza giornalistico), ma magari anche pronti a farci lezioni di moralità e di civismo, a spiegarci le regole della democrazia. Naturalmente senza essere stati mai costretti a ricordare nulla, senza aver mai ammesso nulla, senza aver mai chiesto scusa di nulla».

Il giorno in cui fu ucciso il commissario Calabresi, vivevo a Genova ed ero caporedattore del Corriere Mercantile, quotidiano della sera del capoluogo ligure. Appena appresa la notizia dell’assassinio di Calabresi, scrissi  un articolo di fondo nel quale indicavo i responsabili (im)morali del delitto: tutti quei giornalisti che, dopo la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, avevano crocifisso Calabresi, indicandolo come responsabile della sua morte e accusandolo di averlo fatto scaraventare da una finestra del suo ufficio, al quarto piano della Questura.

I fatti, in estrema sintesi. Dodici dicembre 1969: bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana (Milano), 17 morti, 80 feriti. Giorno seguente: arresto dell’anarchico Pietro Valpreda quale presunto autore dell’attentato, e fermo di altri anarchici tra cui Giuseppe Pinelli. 14 dicembre: Pinelli precipita dalla finestra dell’ufficio di Calabresi (quarto piano della questura) e muore. In quel momento, Calabresi non è nel suo ufficio, ma vi sono quattro sottufficiali di PS e un sottotenente dei Carabinieri. La versione dei presenti è: suicidio. Ossia: Pinelli, un galantuomo alieno da ogni violenza, dopo che il commissario Calabresi gli aveva detto (ma non era vero) che il suo amico anarchico Pietro Valpreda “aveva parlato” (cioè aveva ammesso di aver collocato l’ordigno), preso dalla disperazione si era gettato nel vuoto.

Da quel momento, iniziò una serie di insinuazioni di stampa che culminò in una vera e propria campagna diffamatoria e si allargò sulle piazze ad opera di movimenti di estrema sinistra come Lotta Continua. Obiettivo: Luigi Calabresi, indicato come l’assassino di Pinelli. In quel mio articolo, pubblicato sul “Corriere Mercantile” il giorno dell’omicidio Calabresi, feci nomi e cognomi e intitolai il pezzo “I mandanti morali”, cioè tutti quei giornalisti che avevano sbeffeggiato Calabresi, chiamandolo “il commissario Cavalcioni”. Fui forse il primo a parlare durissimamente di quella campagna mediatica che era stata la vera matrice del delitto Calabresi. Per anni Gemma Capra, la vedova del commissario, non rilasciò interviste. Lo fece con me nel 1980, quando ero redattore capo del settimanale “Gente”. Fui il primo a convincerla a parlare. Mi disse che suo marito sospettava che, per quanto riguardava la strage di piazza Fontana, i manovali fossero “di sinistra”, ma i cervelli “di destra”, i quali avevano insomma tutto l’interesse ad impressionare l’opinione pubblica, per togliere così voti al PCI.

Questa strategia i comunisti la capirono in  ritardo, poi Berlinguer intervenne e diede praticamente carta bianca al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. E la “pulizia” incominciò quando i carabinieri sgominarono, in un conflitto a fuoco in via Fracchia a Genova nel 1979, la colonna genovese, con il brigatista Riccardo Dura ed altri.

Ma, per tornare alla campagna di stampa che si trasformò in un autentico calvario per Calabresi, ricorderò che – valutazione fatta da Indro Montanelli – il 90 per cento della stampa italiana era schierato per la colpevolezza del commissario. E non solo la stampa. Libri di grande successo, come «Una finestra sulla strage», di Camilla Cederna, e opere teatrali che facevano il pieno, come «Morte accidentale di un anarchico», di Dario Fo, continuavano a gettare fango sul giovane funzionario di polizia, che invano chiedeva ai suoi superiori l’autorizzazione a querelare non soltanto «Lotta Continua» (che lo chiamava sistematicamente “assassino” e gli augurava apertamente la morte), ma anche – come scrissi in quell’articolo poche ore dopo il suo omicidio – «coloro che, subdolamente e con più veleno, lo indicavano quale assassino di Pinelli con abili giri di parole. Giornalisti e scrittori ultrasinistri che, anziché essere perseguiti dalla giustizia per la gravissima opera di sobillazione morale che andavano compiendo, ricevevano l’insperata pubblicità di eleganti e leziose presentazioni, in una nauseante atmosfera di salottiera civetteria e di parrucchini settecenteschi, tra dame con ventagli e tirabaci, e volterriani scrittori dalla toscana arguzia sempre pronta sul labbro nobilmente increspato da un sussiegoso sorriso di superiorità».

Quando la vedova di Pinelli, Licia, denunciò per omicidio del marito tutta la dirigenza dell’Ufficio politico della Questura milanese, la grande maggioranza della stampa presentò l’iniziativa con un tale rilievo (titoli a nove colonne in prima pagina) da orientare l’opinione pubblica in senso decisamente colpevolista.

Ai cronisti politici, agli editorialisti, agli elzeviristi, si aggiunsero le incessanti iniziative del «Movimento nazionale giornalisti democratici», sorto in seguito ai fatti di piazza Fontana, e del «Comitato dei giornalisti per la libertà di stampa e la lotta contro la repressione», che divenne editore del «BDID» (Bollettino di informazione democratica), fonte inesauribile, in quei mesi, di autentica disinformazione, come dimostra questa sua fantasiosa versione della morte di Pinelli, sbrigativamente quanto anonimamente attribuita a «uno dei presenti»: «Pinelli intuisce che qualcuno, infiltratosi fra gli anarchici, ha fornito nomi, fatti e date a chi lo sta interrogando. Invece di tacere, parla, s’indigna, chiede che tutto quanto si sta dicendo sia verbalizzato. Fra i poliziotti interroganti, chi doveva capire la stessa cosa che Pinelli aveva capito, la capì. Poi partì un colpo (di karaté, come hanno scritto l’ “Avanti!” e “Vie Nuove”, oppure d’altra natura) che fece stramazzare Pinelli sulla sedia, provocandogli la lesione bulbare. Fu affacciato alla finestra forse per fargli prendere aria. Probabilmente il corpo fu appoggiato, dato che non si reggeva da solo. E così scivolò giù».

«Ero convinto», scriverà Leonardo Marino nel suo libro «La verità di piombo», edito dall’Ares nel 1992, «che l’anarchico Pinelli fosse stato ucciso nella questura di Milano da Calabresi o comunque per ordine di Calabresi. Quanto all’attentato del 12 dicembre 1969, ero certo che non potevano averlo fatto gli anarchici. La campagna di stampa, poi, era tambureggiante e convincente, almeno per noi. Ora so che Calabresi era solo un poliziotto che faceva il suo mestiere. Ma allora, per noi, il poliziotto “buono” non esisteva. Tanto più Calabresi, che ci avevano insegnato a odiare non solo come l’assassino di Pinelli, ma anche come il persecutore dei compagni, l’organizzatore della repressione poliziesca contro la sinistra extraparlamentare di Milano, l’agente della Cia. Fondamentale e determinante, nel creare in noi questa convinzione, questo odio, fu l’atteggiamento dei grandi nomi della cultura e della stampa del tempo. Non passava settimana che “L’Espresso” non pubblicasse pagine intere su Calabresi, contro Calabresi. Lo attaccavano a fondo “l’Unità”, “Vie Nuove”, l’ “Avanti!”. Leggevamo quegli articoli, e non era come leggere “Lotta Continua”, di cui sapevamo che era un foglio di propaganda e che, per fare propaganda, poteva anche esagerare un po’. Ma il vedere le stesse cose scritte sui giornali borghesi, sui grandi quotidiani, ci faceva dire: “Ma allora è tutto vero!”».

«In sede, leggevamo le cronache del processo di Milano che Calabresi aveva intentato per diffamazione contro il direttore responsabile di “Lotta Continua”. L’impressione che si ricavava leggendo quelle cronache era di trovarsi di fronte non certo a un innocente, ma a un mascalzone in trappola. Quando poi uscì su “L’Espresso”, giornale che in sede leggevamo tutti, l’ “appello degli Ottocento”, firmato da grandi pensatori come il professor Norberto Bobbio, grandi registi come Federico Fellini, scrittori e poeti come Pier Paolo Pasolini, uomini politici e grandi combattenti antifascisti come Umberto Terracini, leggere quei nomi sotto un appello che chiedeva l’allontanamento di Calabresi dalla polizia (e dei giudici che lo avevano assolto in istruttoria dalla magistratura) e lo definiva apertamente “commissario torturatore” e “responsabile della morte di Pinelli”, ebbe per noi tutti un’importanza enorme. Nomi di quel calibro scendevano in piazza contro Calabresi? Era dunque lui l’obiettivo principale. Come se, togliendo di mezzo lui, si fosse fatta la massima operazione possibile di giustizia».

Ecco perché Leonardo Marino accettò di mettersi al volante della vettura che avrebbe condotto sul posto, ossia davanti all’abitazione di Calabresi, il killer Ovidio Bompressi su mandato di Giorgio Pietrostefani e “nihil obstat” di Adriano Sofri.

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3 commenti su “Omicidio Calabresi: dopo 49 anni, l’incredibile resa dei conti”

  1. Concetta gerardi

    Disamina perfetta, mi meraviglio che il figlio abbia accettato di diventare direttore di repubblica

  2. Lei ha sicuramente l’email del suo collega e figlio di Calabresi
    Dalla carriera giornalistica che ha sicuramente non è un suo lettore. L’e-mail lo leggerà di certo. Si ricorderà del “Tu quoque, Brute, fili mi!”.

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