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“… avete ucciso l’autore della vita. Ma Dio l’ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni” (At 3, 15) 

“Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4, 20).

Cristo è risorto ed ora vive col Padre e con lo Spirito Santo nella sfera più assoluta dell’Essere, perché Egli è Dio e Dio “E’“(Es 3, 14). Non fu facile per i Suoi contemporanei – e tanto meno lo è per noi, uomini e donne del XXI secolo – accettare questa Verità unica nella storia umana, vale a dire i fatti narrati nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli, senza l’aiuto dello Spirito Santo. D’altra parte, Gesù aveva detto chiaramente che non avremmo potuto fare nulla senza il Suo aiuto, che Lui non ci avrebbe mai fatto mancare, perciò sia i quattro Vangeli che gli Atti degli Apostoli attribuiscono una grande importanza ai fatti straordinari che si verificarono dopo la Resurrezione di Gesù: le Sue apparizioni ai discepoli e a molti altri personaggi. Lo stesso S. Paolo riassume la tradizione ricevuta dagli Apostoli e la trasmette riferendo tutta una serie di apparizioni del Risorto avvenute dopo la Passione, la sepoltura e la Resurrezione e descrivendole non come esperienze allucinatorie, ma come fatti materiali e sperimentati con i loro stessi sensi dalle varie persone che li vissero.

Tuttavia, vi sono incontestabili divergenze di ordine cronologico e di localizzazione degli eventi miracolosi che meritano un approfondimento. Nel Vangelo secondo Luca sembrerebbe che le apparizioni siano avvenute tutte il giorno di Pasqua, mentre lo stesso Luca, negli Atti degli Apostoli, asserisce invece che si sarebbero protratte per quaranta giorni (At 1, 3). Inoltre, secondo Marco e Luca si sarebbero verificate solo a Gerusalemme, mentre Matteo e Giovanni le collocano anche in Galilea e il solo Giovanni parla di quella avvenuta sul lago di Tiberiade (Gv 21, 1 ss.). Gli esegeti, pur rilevando queste discordanze, non le ritengono causa di contraddizione perché riguarderebbero soltanto lo stile letterario e la finalità che ciascun Evangelista si propone. Matteo, che scrive per Israele, fa iniziare e terminare il suo Vangelo su una montagna della Galilea per mostrare che Gesù è il nuovo Mosè. Marco, il cui Vangelo è destinato ai Romani, preferisce al titolo di Messia – troppo carico di gloria umana e incomprensibile da parte della cultura greco – ellenistica – quello che gli esegeti hanno chiamato “il silenzio messianico”, cioè il titolo più umile e più misterioso di “Figlio dell’Uomo”. Luca presenta Gesù come il nuovo “Tempio” di Gerusalemme e, secondo Giovanni (7, 37) nell’ultimo giorno della festa delle Capanne Gesù promette “fiumi di acqua viva”, alludendo alla prossima venuta dello Spirito Santo e riprendendo il tema del profeta Ezechiele (47, 1ss) sull’effusione escatologica del “fons vivus”.

Quindi quelle discordanze non devono essere considerate causa di contraddizione perché, in un’ottica di fede, esse rivelerebbero che il Cristo Risorto è sempre presente tra i suoi discepoli, e quindi anche tra noi.

Le apparizioni più importanti sono quelle agli apostoli perché la loro testimonianza costituisce il fondamento della fede. “Questo Gesù Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni“ (At 2, 32) proclama Pietro davanti ai Giudei; Luca (24, 36 – 42) parla dell’apparizione ai discepoli di Emmaus, avvenuta lo stesso giorno della Resurrezione, vale a dire quello stesso giorno, “il primo dopo il sabato”, in cui secondo Giovanni (20, 19 – 29), Gesù apparve ai discepoli, nascosti “per timore dei Giudei”, apparendo loro di nuovo, otto giorni dopo, mentre era presente anche il diffidente Tommaso.

Paolo descrive anche la singola apparizione “a Cefa (Pietro) e quindi ai Dodici”, espressione che designerebbe gli Apostoli in genere (1 Cor 15, 5), precisando che “in seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta”, ma essendo lui testimone del primitivo kérigma, attribuisce a Pietro un’autorità personale e un ruolo particolare distinto da quello degli altri apostoli. Anche Giovanni sottolinea questa singolare importanza attribuita a Pietro quando riferisce che, in occasione dell’apparizione sul mare di Tiberiade, “si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli”, i quali seguirono subito Pietro quando questi disse: “Io vado a pescare” (Gv 21, 2 – 3), preannunciando così la sequela dovuta al Vicario di Cristo.  Secondo questo passo ci troviamo in Galilea, ma mentre le apparizioni avvenute a Gerusalemme hanno lo scopo di convincere della Resurrezione sia gli apostoli che i discepoli – come, del resto, quella dei discepoli di Emmaus – quelle avvenute in Galilea, a causa della rilevanza attribuita alla figura di Pietro, sono finalizzate a gettare il primo seme della fondazione della Chiesa. Inoltre, Paolo rafforza la sua testimonianza asserendo che di quei cinquecento fratelli “la maggior parte di essi vive ancora (e quindi possono essere interpellati al riguardo) mentre alcuni sono morti”. Tuttavia, non bisogna dimenticare che, secondo Luca (10, 1), Gesù aveva designato, oltre ai Dodici, anche altri settantadue discepoli con lo scopo di andare “in missione a due a due avanti a sé in ogni città e luogo ove stava per recarsi”, quindi è lecito pensare che anche essi abbiano vissuto l’incontro con il Risorto.

Ma che cosa hanno voluto dire i testimoni delle apparizioni? Che cosa è accaduto realmente? I Vangeli e gli Atti vogliono anzitutto rendere conto di fatti concreti.  Questa, infatti, è l’intenzione di Pietro quando propone la scelta di Mattia, quale “Dodicesimo” al posto di Giuda, perché anche Mattia era stato testimone della Resurrezione nel senso più rigoroso del termine, cioè di una realtà constatabile e sensibile, dato che anche lui era stato un fedele seguace di Gesù dal momento del Battesimo nel Giordano fino all’Ascensione (At 4, 20). Questo significa che si vuole testimoniare un’esperienza sensibile, avvenuta anzitutto attraverso il senso della vista: Maria di Magdala “vide Gesù che stava lì in piedi” (Gv 20, 14) e anche Paolo (1 Cor 15, 3 – 8) e Luca (Lc 24, 34) usano l’espressione “fu visto”, dove il verbo “vedere” indica contemplazione, l’attenzione di chi ancora non comprende fino in fondo.

In un altro momento l’esperienza del Risorto avviene anche con gli altri sensi del tatto, dell’udito e addirittura del gusto: lo stesso Gesù, apparendo agli Apostoli la sera di Pasqua nel cenacolo dice loro, sconvolti e turbati per lo shock: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate …  Chi di noi, poveri peccatori, non si sarebbe precipitato piangendo ad abbracciare Gesù, prima di cadere ai Suoi piedi per adorarLo? L’incontro con Dio è sempre foriero di gioia, ma è una gioia talmente inaudita e inesprimibile con parole umane che può quasi rasentare il dubbio: infatti i poveretti sono quasi sul punto di dubitare che Colui che hanno davanti si trovi davvero lì. Non capita anche a noi, quando la vita ci riserba, oltre ai dolori, anche una grande gioia, domandarci se sia proprio vero quello che ci sta accadendo? Allora Gesù li soccorre e: “poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: Avete qui qualche cosa da mangiare? Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro” (Lc 24, 36 ss)

Giovanni fa seguire questo episodio da quello di Tommaso: otto giorni dopo, nella medesima circostanza Gesù invita l’incredulo Didimo a “toccarlo” mettendo la sua mano nel costato di Lui ferito dal colpo di lancia. Il Caravaggio, nel dipinto “Incredulità di Tommaso” conservato a Berlino, ha rappresentato questa scena con un sorprendente realismo, veramente capace di scuotere le coscienze di chi medita l’episodio evangelico con animo sgombro di pregiudizi. Gesù, con gesto deciso, si scopre il torace e afferra la mano destra dell’Apostolo, quasi obbligando il poveretto, sconvolto, a inserire tutta la prima falange del suo dito indice nella piaga ancora aperta.

Ma a ben guardare la stessa espressione “apparizione” è impropria, perché fa pensare a una manifestazione occasionale che colpisce solo gli occhi. In realtà il Risorto visse con gli Apostoli per quaranta giorni dopo la Passione (Lc 1, 3). “Noi abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua resurrezione dai morti” (At 10, 41) dice Pietro al centurione Cornelio; infatti, sono molti gli accenni ai pasti consumati dal Risorto insieme ai suoi discepoli e cosa c’è di più materiale e fisico, nella vita dell’uomo, del mangiare e del bere, funzioni essenziali alla vita? E Gesù, nonostante sia passato a una vita gloriosa, non più soggetta alle leggi fisiche dello spazio e del tempo, non disdegna di mangiare e bere con i discepoli di Emmaus, con gli apostoli nel cenacolo, ancora con loro sulla riva del lago di Tiberiade e perfino subito prima dell’Ascensione quando, trovandosi “a tavola con essi ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme per attendere la venuta dello Spirito Santo, promessa dal Padre (At 1, 4) .  Quindi i discepoli sono veri “testimoni” della Resurrezione perché hanno “visto e udito” (At 4, 20). Questa ferrea consapevolezza pervade tutto il libro degli Atti.

Eppure, il significato salvifico della Resurrezione sarà ben compreso dagli Apostoli solo quando essi saranno illuminati dallo Spirito Santo. Le “apparizioni” di cui ho parlato si sono verificate tutte prima della Pentecoste, quando ad essi si poteva credere in quanto testimoni oculari, non in quanto illuminati dallo Spirito. È questo che, davanti al Sinedrio, risponde  Pietro al sommo sacerdote che gli contesta la sua disobbedienza all’ordine di non insegnare più nel nome di Gesù: “Di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a Lui” (At 5, 32). Questa affermazione di Pietro ha un profondo significato teologico valido, non solo per la primitiva comunità cristiana, ma anche per tutti noi dei secoli successivi. Vale a dire che la Resurrezione di Cristo può essere accettata, come realtà empirica, in base alla testimonianza degli Apostoli, ma sarà foriera di salvezza solo quando l’uomo, nella libertà che Dio gli ha donato, avrà accettato quell’illuminazione che lo Spirito Santo non nega mai a chi gliela chiede con cuore sincero.

La figura di Pietro si trova sempre in primo piano e ha un ruolo preminente rispetto agli altri apostoli. A lui Gesù Risorto affida il Suo gregge (Gv 21, 15 – 17), è lui che fissa la regola per l’elezione di Mattia (At 1, 21), è lui che, il giorno della Pentecoste, parla a nome dei suoi fratelli (At 2, 14) facendosi capire da tutta la folla cosmopolita che affollava Gerusalemme per la festa (At 2, 14). Lo Spirito Santo stava dando inizio alla Chiesa, riunendo ciò che la Torre di Babele aveva confuso e separato.

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