IL RISCATTO/X – romanzo di Piero Nicola

 

IL RISCATTO

di Piero Nicola

romanzo

Capitolo decimo

 

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Il nodo del papa che figurava regnante e della dismessa adesione alla Fraternità lefebvriana li attendeva al varco. Erano stati costretti a ripudiare il magistero del Vaticano per i suoi errori marchiani, comprensibili da qualsiasi intelletto che lo confrontasse con la Rivelazione e con i dogmi.

La chiesa disautorata, non più Chiesa, li metteva nella straordinaria condizione di dover scegliere i loro pastori. Dai sedevacantisti sperarono lo sbocco dal pelago in cui i seguaci di monsignor Lefebvre si erano cacciati salvando la Cattedra di San Pietro a un signore che, amico dei luterani, accordava benemerenze teologiche all’apostata Lutero, uno dei massimi eresiarchi della storia e acerrimo nemico dell’Ovile.

L’Istituto dei negatori del papa fellone aveva sede in un villaggio collinare, a un tiro di schioppo dal Po. Il Direttore che, a suo tempo, era stato ordinato nella Fraternità, diede loro udienza ed espose la tesi teologica che definiva la posizione di quei sacerdoti. Essi non si qualificavano sedevacantisti. La tesi, elaborata da un Vescovo trapassato, coevo di monsignor Lefebvre, stabiliva la perdita dell’autorità degli usurpatori del Soglio pontificio, ma ammetteva la sussistente investitura materiale, per cui una loro emendazione, in fatto di dottrina, li avrebbe riabilitarli.

Gli scrupolosi del vero chiesero di essere presi sotto l’ala dell’Istituto, dei loro direttori spirituali e curatori di anime. Avrebbero santificato le feste religiose e praticato i Sacramenti nella cappella di Torino. A prescindere dalle differenze, lo zelo di entrambe le Istituzioni si equivaleva. La preparazione religiosa già ricevuta dai nuovi arrivati li avvantaggiò. Dunque avevano accomodato l’ultimo disagio della coscienza.

 

Le piogge agostane e settembrine evitarono la stretta della linfa, il ritardo della maturazione. Le tempeste equinoziali gentilmente comparvero di volata. I giorni ottobrini della vendemmia subirono spruzzate da nuvole insistenti. Non appena la bella uva era asciutta, si dava un colpo di mano senza badare al fango, ricuperando le forzate inoperosità. Più fatica e più tempo, ma il raccolto andò a buon fine.

Michela si era prodigata nel consolidare l’organizzazione, nella fornitura delle cibarie. Non risparmiandosi, né dando ascolto, aveva preso i forbicioni e trascinato lungo il filare la cesta che riempiva, sempre più piena e zavorrata di fango. La sera del pranzo a base di bagna cauda col quale si festeggiava la chiusura d’una campagna agricola, le si erano imporporati i pomelli. Non si sarebbe detta eccitata. Alle undici, sul campo di battaglia della tavola giacevano stoviglie di plastica, bottiglie e bicchieri vuoti, macchiati, semivuoti, tozzi di pane, tovagliolini. Sfumava nel buio l’eco sonante dei tipi rurali, giovani e maturi, un maschio e le femmine, che avevano partecipato alla mangiata.

«Signora, è stanca, vada a riposare,» Santina la pregò. «Qui ci penso io a mettere a posto. Domani, finiamo tutto.»

Fabio era in cantina con Pinin. Ne avrebbero avuto per un pezzo. Michela, a conferma dell’inquietante impressione che aveva dato, salutò e si ritirò nella camera del pianterreno. Misurata la temperatura, il termometro segnava trentotto. Spogliatasi, fece la toeletta per la notte e andò a letto, dolendosi di non avere la televisione in camera. L’avrebbe distratta e tenuta sveglia fino a quando suo marito fosse risalito dalla cantina. Spense il lampadario, accese la lampada col paralume. Dal piano inferiore del comodino prese il romanzo dell’inesauribile scrittrice Liala. Non riuscì a leggere. In ogni posizione le doleva il petto e aveva la nausea. Scese a prendere una compressa di paracetamolo.

Fabio la trovò addormentata. Non volle svegliarla, sebbene respirasse con affanno e con qualche sibilo. Le tastò la fronte. Sembrava fresca. Lei non s’era accorta di nulla. Era la prima volta che le vedeva il sonno pesante, che fosse normale o che fosse affaticata.

La febbre durò alcuni giorni. Il vecchio dottor Rebora visitava a pagamento nei dintorni, volentieri chi gli piaceva; dagli altri, per malanni di poco conto, si faceva desiderare. Chiamato alla cascina, aveva diagnosticato un’influenza in anticipo sulla stagione e prescritto i rimedi convenzionali.

Siccome la temperatura era calata ma la febbricola non scompariva, auscultò minuziosamente il torace e consigliò un esame radiologico o una TC. Da alcuni indizi, dedusse l’opportunità d’una verifica sulla gravidanza, che era già nell’aria. Gli accertamenti rivelarono un sospetto principio di tubercolosi e Michela incinta. I trasferimenti nel freddo uggioso e gli sbalzi di temperatura nelle stanze degli ambulatori cagionarono la bronchite all’inferma, ormai rientrata nell’alloggio cittadino.

Nulla di eccezionale. Le cure non avrebbero tardato a provare la loro efficacia. Da parte sua, lei doveva riguardarsi, nutrirsi bene, combattere l’inappetenza, che di certo aveva un’origine nervosa.

L’annuncio di un figlio in arrivo l’aveva colmata di tenera, debole felicità, e riscontrava nel marito un’incondizionata contentezza. Si proiettarono nel raggiungimento della completa guarigione.

Fabio le stava vicino più che poteva. Elisa divenne assidua da loro, sistemandosi nella stanza adibita ad ufficio per le pause di riposo e per dormirvi qualche notte. L’affettuoso padre e aspirante nonno in questa famigliola estese le sue cure al contenimento delle visite, al contrario della sua energica consorte. Fabio vigilò, misurando fin dove era bene lasciar fare. Amorevolezze e premure avviluppavano Michela in una bambagia che necessitava di antidoto, di stimolo. Soppesarne le dosi, nei momenti indicati, richiedeva oculatezza. Il bisogno di raffrenare la suocera era ancor più problematico da soddisfare.

Le foglie morte scheletrirono gli alberi, nel freddo secco il sole disperse le brume diurne e, come Dio volle, Michela sfebbrata, riposata e fresca, parve il ritratto della guarigione. Le proibirono di chiudersi nelle quattro mura. La passeggiata alla luce solare, lontano dai fumi, le giovava. Un’alta pressione s’installò sull’Alta Italia. Le polveri e i gas dei riscaldamenti, dei ronzanti tubi di scarico stagnavano nella bassa atmosfera. Borgospina, a mala pena tenuta viva dai suoi quattro gatti della stagione morta, li chiamò con i muri della canonica e delle case decrepite rivolti a solatio, con l’etere cristallino. Al passeggio notturno tenuto a distanza dai riverberi delle superfici cotte durante il giorno, succedette un andare a ridosso di mattoni e intonachi screpolati, tepidi, vividi sotto i raggi spioventi. Le colline scurite dalle ragnatele dei vigneti conservavano la grazia del loro andamento ondulato, della rada, sapiente distribuzione delle cascine, delle sparse macchie d’alberi spogli, in letargo nelle pieghe dei rivi. Prolungando il giro, prendendo la viottola sotto la prima e bassa cinta di mura, si stringevano addosso i giacconi passando nei tratti all’ombra degli abituri, qua e là occupati dagli stranieri. Alle dodici, o alle cinque, se erano usciti di pomeriggio, ritornavano ad Acqui.

Alla festa dell’Immacolata si ebbe un’imbiancatura di neve. Le auto produssero una sporca poltiglia. Le ruote inzaccheravano i bordi dei marciapiedi. Il disinganno per la privazione della nevicata copiosa diede una strizzatina a molti cuori. Michela era ad Alessandria. Lei e sua madre alla ricerca dei doni natalizi. Ma il tempo durava cupo. La sua assenza d’un paio di giorni diede uggia a Fabio, che approfittò d’essere solo per dedicarsi al primo travaso del vino. Il terzo giorno andò a prendere la mogliettina coinvolta nell’usanza alquanto artificiosa e stancante, da lui definita “la campagna regali”. Alla sera, la cagionevole aveva di nuovo qualche linea di febbre.

A Natale, sotto l’albero di coloro che si fregiavano dei titoli di genitori, suoceri e nonni, il monte di pacchi e pacchetti eccitò o solleticò la curiosità di ciascuno. Gli schivi bambini di Nora, maschietti di sei e otto anni, nonostante l’appartenenza all’illimitato, eterogeneo paese elettronico e dei blue-jeans per ogni occasione, guardavano curiosi e attoniti sulla soglia di un mondo trascorso. Nora denotava la tensione della madre e donna florida, presa nel complesso ingranaggio d’una relazione.

A tavola le sfuggirono due o tre parolacce, disse una spiritosaggine triviale, di cui nessuno mostrò di accorgersi. S’impermalì lanciando un’occhiata salace a sua sorella. La loro somiglianza si restringeva nei tratti somatici.

«Ma che avete?» sbottò indocile, «sembra che sia morto qualcuno.»

«Michela è stata poco bene, l’avrai saputo,» disse Armando.

«Lo so, lo so. Mi risulta che aspetta un figlio, che adesso è guarita, che… So tutto, anche se con me si fa viva ogni morte di papa. A proposito di papa, venite sempre a Torino alla cappella dei sedevacanstisti?»

«Abbiamo dovuto sospendere di andarci, alla Messa,» Fabio sottintese il motivo.

«Beh, quando ci verrete, fatemi un fischio. I bambini vi amano, siete gli zii del matrimonio top, con due preti sull’altare e una bella musica d’organo. Ne hanno visti degli altri… di parenti meno simpatici. Non è vero, Marietto?»

Il grandicello fece di sì, arrossendo.

«E le foto del viaggio in Sicilia… Eravate un mito… Sorry, non vi ho risposto. Era parecchio incasinata in quel periodo… Capita, capita… »

«Non a tutti,» Elisa mormorò. «Verrà il momento che ti sistemi per bene?»

«Per questo, a qualcuno succede anche di peggio.»

L’allusione non venne raccolta.

«Fortuna che hai un posto fisso,» disse ancora sua madre. «Tienti stretto almeno quello.»

«Oh, basta,» sospirò Armando; «Sono discorsi da farsi a Natale, davanti ai bambini?»

Nora alzò il gomito, se la rise raccontando di un tale, very polite, very religious, che la corteggiava, un lubrico che, a detta d’una beghina casigliana, andava sempre in chiesa a fare la comunione. «D’altronde, i preti adesso fanno cose da pazzi.»

«Che cose da pazzi fanno?» chiese il più piccolo.

«Eh, non si può dire,» gli rispose e, avendolo gratificato d’una materna espressione carezzevole, proseguì: «Anche di uno di loro, uno che assiste i diseredati, avrei da raccontarne delle belle… Ma siete nel giusto voi due, i puri, i religiosi integralisti. Questa vita è diventata una lurida frana, un filthy place. Non c’è scampo, a meno di non metterla alla porta, costi quel che costi,» aveva gli occhi lucidi.

«Non ho capito chi metti alla porta,» disse Elisa.

«Questa vita balorda.»

«Ah!»

«Esageri,» il padre eccepì, «ci sono tanti che se la cavano.»

«Storie,» asciugò la lacrima. Infervorandosi, tornava sobria ma ancora acida: «I tanti che dici, gente come voi genitori, che vi barcamenate sui binari, si credono fuori della cacca, al riparo nel vagone. Invece, prima o dopo, da fuori viene un accidente che spacca e smerda. Poi, se non si deraglia, ci manca poco.» Sporgendosi dalla seggiola abbracciò Michela: «La mia sorellina cara,» la baciò. «Perdonami, sì perdonami.»

«Certo, perdoniamoci,» la sorella restituì il bacio.

«Oh, questo è Natale!» esclamò il capo famiglia.

Dora scosse la testa biondo platino, si passò il dorso della mano sul viso come a scacciare un insetto:

«Voi pregate,» disse a Fabio e Michela, «per me e per voi, pregate di star bene, di aver poco bisogno della gente.»

«Dai, preghiamo tutti per tutti,» disse Elisa, scoprendo nel sorriso la dentatura fra le labbra sottili, poco disposte alla dolcezza.

Si alzò per tagliare le fette di panettone. Armando versava lo spumante.

«Poco, ai bambini,» Dora si raccomandava.

«Poco anche a te,» disse suo padre.

Brindarono alla loro salute e a giorni migliori.

 

I Rebuffo avevano sostituito il salotto e regalato alla figlia e al genero quello smesso, di ciliegio e in buono stato. Rimettendolo a nuovo, avrebbe fatto la sua figura. La bottega del tappezziere si apriva su una viuzza del centro storico. A un certo punto, da essa si dipartiva in salita un vicolo, malfamato per un commercio di prostitute. Sull’angolo del suo imbocco, Fabio vide scendere un nero che ebbe un’esitazione. Fabio si arrestò, colpito dall’indugio e da quella faccia che gli aveva sollecitato la memoria. Doveva essere Amir, andato oltre passando a un metro da lui. Si volse, fece in tempo a vedere il bandito girato per guardarsi alle spalle, prima di scomparire. L’agitazione lo trattenne, aspettò d’averla smaltita piantato davanti al cartello col menù d’una trattoria. Erano le sei pomeridiane.

Il tappezziere sospese il suo lavoro nel laboratorio stipato di mobilia, ascoltò, prese nota e promise di telefonare per un appuntamento entro la settimana. Procedendo alla volta della strada maestra, Fabio ebbe dietro di sé un uomo di colore che camminava nella stessa direzione. Era smilzo e dinoccolato. Frugando nel ricordo, non corrispondeva a uno della banda. Fabio si affacciò a una vetrina. Il nero, rallentando, accese una sigaretta, entrò nell’andito d’un passo carraio. Il guardingo rifletté sul modo di seminare il pedinatore, giacché non dubitava che lo fosse. Scartò l’idea di chiamare Argeri o il Commissariato. I secondi passavano lenti. La coda dell’occhio lo avvertì che allo sbocco del vicolo un tizio aveva un atteggiamento equivoco; diede una guardata all’orologio sul polso, ma simulava. Il passaggio delle persone rendeva improbabile un’aggressione o un omicidio.

Era un lavorare di fantasia, ma che lui fosse stato seguito, che ora fosse tenuto d’occhio, era verosimile e lo scopo, oscuro. Finì per allontanarsi voltandosi indietro a ogni tratto. Il tizio lo seguiva tangibilmente, si definì la sua grinta olivastra, patibolare. Fabio decise di prendere un’automobile di piazza. L’espediente lasciò lo scagnozzo disorientato.

Nel breve tragitto in tassì, l’accaduto si esplicava nella sua gravità. Per qualsiasi verso lo prendessero di mira, aveva scarse risorse per uscirne indenne. Quale provvedimento lo avrebbe salvaguardato? Chi era disposto a dare peso al suo racconto? Argeri era rimasto incredulo sull’identificazione di Amir mediante la fotografia provveduta dall’investigatore privato. Però valeva la pena tentare, avendo appurato de visu  il volto e la corporatura del bandito. Erano le sei e mezza, non volle mettere in pensiero Michela con un ritardo. “La notte porta consiglio” si disse. La tranquillità era di là da venire.

Per tutta la sera si sforzò d’essere il solito uomo. Il rimedio stava nella carica virile, nel piglio rivolto a fronteggiare gli eventi; ma frenò la suggestione, che poteva tradirlo agli occhi di lei.

 

L’energia suscitata abbisognava d’una applicazione. Avendola trovata, avrebbe dovuto badare alla prudenza. “Ricordati che tieni famiglia”, si ammonì, sdrammatizzando con quel motto meridionale.

Al buio, il ceffo del persecutore lo trattenne togliendogli il sonno.

 

«Stamani sei mattiniero,» Michela osservò a colazione, «hai un impegno?»

«Faccio un salto al Greppo,» la bugia si era di nuovo insinuata fra loro. «Il travaso di gennaio. Ti chiamo io quando parto dalla cascina.»

«Vieni a pranzo?»

«Certo, al solito… Se ritardo, ti avverto.»

Il Commissario lo ricevette senza indugi.

«Mi fa piacere rivederla, Gentili,» gli porse la mano calda, «che c’è di nuovo?»

Fabio gli narrò dettagliatamente l’incontro inaspettato avuto con Amir, alias Abdul Kassel, e il pedinamento di quelli che dovevano essere i suoi complici. Calcò la mano sui loro comportamenti, avanzando ipotesi fosche sul fine perseguito. Disse d’essersi sposato, che Michela era incinta, e dove risiedevano.

«Dunque lei è sicuro che sia lo stesso soggetto del delitto perpetrato alla cascina… Interessante. Le dirò che lo abbiamo cercato con ogni mezzo: irreperibile, uccel di bosco. Mi meraviglia che ronzi ancora qui intorno… Le intenzioni da lei sospettate sono poco plausibili. Non vedo perché dovrebbe aggravare la sua posizione e rischiare di essere preso mentre prepara un altro delitto. Sapendo che lei l’ha riconosciuto, prevederà che venga a riferire alla Polizia. Se voleva, mi scusi, spacciarla perché non parlasse, o se voleva intimidirla per lo stesso motivo, lo avrebbe fatto, non le pare?»

«Dottore, forse dimentica che ho eluso il loro tentativo di seguirmi fino a casa.»

«Non li sottovaluti, se vogliono ci mettono niente a procurarsi l’indirizzo o il numero di telefono.»

«Mi scusi, dev’essere mia moglie,» aperta la custodia del cellulare, infatti era lei.

«Fabio, ti prego, vieni subito… è successa una cosa tremenda.»

«Calmati, cara, stai bene?»

«Io sto bene,» disse in affanno, «hanno messo davanti alla porta d’ingresso un pacco… c’è dentro un gatto con la testa tagliata… Straziante… povera bestia… »

«Ascolta, fa quello che ti raccomando e sta tranquilla. Chiuditi dentro. Non aprire a nessuno. Adesso avverto il Commissario e saprò le misure che prende…. Sì, ti tengo informata… Sarò lì tra poco…. Sono per strada… Poi ti spiego tutto. Ma tranquillizzati.»

Aveva messo la viva voce e Argeri aveva sentito.

 

«Ecco che l’intimazione di cucirsi la bocca è arrivata,» il Commissario costatò. «Prenderemo i provvedimenti del caso. Stia sicuro.»

«Ma ci fa avere una protezione?»

«Oggi mando un agente a prelevare il gatto, e chiamo la Scientifica per i rilevamenti. Un nostro uomo starà nei paraggi. Avrà la sorveglianza.»

«Per quanto tempo?»

«Pazienza, signor Gentili. Stiamo a vedere come va l’indagine. Però lo capisca: la Polizia non ha i mezzi per proteggere ventiquattr’ore su ventiquattro tutti quelli che ricevono intimidazioni. Ci siamo?» E davanti alla perplessità del minacciato: «Mi rincresce, è così. Ma non vi fasciate la testa prima del tempo.»

«Me lo date un porto d’armi?»

«Dalli!, non precipitiamo. Mi ascolti, eviti di cacciarsi nei guai. E sa quanto ci vuole per avere il porto d’armi? Occorrono mesi, se tutto torna.»

«Mi rilasci almeno un nulla osta per comprare una rivoltella da tenere alla cascina.»

Ci volle del bello e del buono per strappargli quel permesso.

Raccolta la deposizione della parte offesa, disse che avrebbe riferito i fatti nuovi al PM e chiesto determinate autorizzazioni.

«Ci occorrerà la testimonianza della sua signora. La pregherei di passare di qui al più presto. Nel vostro interesse. E non toccate quel coso, quel corpo del reato, mi raccomando.»

Strada facendo, Fabio realizzò quanto la carne al fuoco fosse per lui aumentata nell’ultima ora. La loro difesa personale riceveva una temporanea assicurazione, la minaccia malavitosa gli era stata giurata. Comunicò a Michela d’aver incontrato il Commissario. Per questo ritardava. Si fermò da un armaiolo a comprare una rivoltella e una scatola di proiettili. Avrebbe dichiarato l’arma al prossimo incontro con il tutore dell’ordine.

Lei l’assalì a suon di domande, alle quali si premurò di dare risposta. La ricostruzione del misfatto, priva di lacune, richiese una ponderata riepilogazione.

«Hai fatto bene a dirmi tutto,» si era riavuta, esprimeva riconoscenza, «più si conosce, qualunque cosa sia, e meno l’ignoto ci minaccia.»

L’agente venuto a fare le fotografie, aveva portato via in un sacchetto trasparente il cartoccio col gatto morto, che era rimasto dov’era.

«Per qualche tempo siamo protetti, in seguito ci regoliamo sugli eventi.»

«Adesso Abdul Kassel si accorgerà che lo hai denunciato e che lo stanno cercando. Se tu avessi atteso… »

«Avremmo saputo che pesci prendere?» disse calmo. «Cara, è inutile ragionare coi se. Non ci fa tornare indietro nemmeno il Padre Eterno.»

«Hai ragione,» corrugò la fronte: «Ci conforta che il Padre Eterno può anche rimediare, pur avendo permesso che le cose andassero come sono andate.»

«Brava.»

Lui fece uno spuntino. Lei aveva lo stomaco chiuso, aveva bevuto soltanto acqua. Verso le sette si riprometteva di nutrirsi almeno con una tazza di latte e malto d’orzo.

Michela ogni tanto andava alla finestra; al riparo della tenda spiava chi fosse in strada.

«L’addetto alla nostra protezione non fa la sentinella. Passa inosservato a chicchessia.»

«Mi dispiace,» disse controllandosi, «ti sto innervosendo… Sai, ne ho passate di tutti i colori, inutile che te lo dica, ma ero sola al centro dei miei guai. Ero ormai perduta per tutti. Quando già avevo te, mi dicevo che se mi fosse capitato qualcosa, saresti stato libero. Tutto sommato, sarebbe stato meglio per te… »

«No, cara, avrei subito una perdita irreparabile, la mia esistenza sarebbe stata labile, sciupata… Credo che avrei perso anche Dio… Ma ti capisco: la maternità, una famiglia… Ora però, forza! smontiamo il dramma. Timore, preoccupazioni, è roba vana. Ragioniamo e affrontiamo la situazione con coraggio.»

«Parli bene, hai sempre parlato bene.»

Alle sette e mezza cenarono. Lei inzuppò biscotti nella tazza, mangiò uno jogurt, una banana e due datteri.

«L’appetito vien mangiando,» lui la canzonò.

Ultimato il pasto, riprese i consigli di igiene mentale: «È venuto il momento di sbarazzare il cervello. Quello che non dipende da noi buttiamolo dietro le spalle. Il rimanente lo tratteremo a mente riposata. Intanto vediamo un bel film, di quelli che ami rivedere. Dopo ci prendiamo una camomilla, e a nanna.»

Michela venne a gettargli le braccia al collo, ad aderire a lui.

«Non piangere, cara,» la baciò con tenera intensità.

«No, non piango,» disse nel suo sorriso più bello, «sono più forte di quel che credi.»

 

Il dottor Argeri fu affabile con Michela sino galanteria, riguardoso verso il suo stato interessante.

Quando lei accennò alla protezione, il gentiluomo imbruttì rientrando nei suoi panni, quasi avesse subodorato il raggiro, sebbene non avessero fatto niente per lusingarlo. La sorveglianza della casa non era revocata, ma la sua durata dipendeva dal PM e, in casi analoghi, dati i limiti di organico della Polizia Giudiziaria, bisognava essere avari.

Fabio celiò dicendo che si sarebbe immolato volentieri per un’economia delle Forze dell’ordine, che giovava al bene comune. Avrebbe potuto sperare d’essere annoverato, se non nell’albo degli eroi, almeno tra i benemeriti della Patria; purché tenessero Michela fuori dai pasticci. Lei fece una smorfia. Nemmeno il Commissario gradì l’arguzia; compatì, e la guardò nuovamente con un misto di bonomia paterna e di piacere.

«Andiamo, perché drammatizzare? Vedrete che l’intrigo si risolve. Mi sa che il criminale è in un vicolo cieco; sentendo odore di bruciato, se la squaglia. Magari fin da adesso si nasconde a casa del diavolo.»

In strada, usciti dagli uffici impregnati di sospetto e di contesa col crimine, ne riportarono tuttavia un alleviamento, un rasserenamento, rispecchiato dalla parvenza di normalità della vita attiva in circolazione, nonché dal sereno freddo e terso sopra la città nel tramonto.

«Sai che facciamo?» Fabio friggeva, «chiamiamo Guido e Mary… La loro bimba Ester avrà sei o sette mesi… Sono appena le cinque e mezza.»

«Dai.»

Guido fu felice di sentirli. Mary li volle subito a casa. Abitavano in una villetta del sobborgo collinare. La costruzione d’altri tempi, un parallelepipedo color ocra, era nobilitata dalla semplicità, dalla regolare disposizione delle finestre e della mediana porta d’ingresso. La circondava un giardino con alberi da frutta, recintato da una cancellata. Gli arrivati parcheggiarono su un belvedere minuto, coperto da un lastrico; prospettava sull’agglomerato urbano. Festevoli affettuosità e gentilezze del rincontrarsi. Fabio e Michela dilatarono alla casa i complimenti largiti alle persone, specie alla neomamma. Lei, stringendosi nelle spalle:

«Venite dentro, che fa freddo,» sollecitò.

L’interno, inalterato nella scala centrale che saliva al ballatoio, era ingrandito nel soggiorno diviso da un arco ampio e spesso. Di primo acchito l’arredamento, all’insegna della comodità, non aveva pretese. Inoltrandosi, lo schienale della poltrona scoprì la bimba seduta sul suo tappetino. Gli amici le fecero festa. Michela le diede l’orsacchiotto di pezza, rimediato in fretta e furia in una bottega.

 

Lei, occhietti svegli e faccina di bambola, emise versi d’un’allegria tesa a uguagliare quella dei grandi. Ma strapazzò l’orsacchiotto, i versi si convertirono in lagne, e queste in piagnucolii.

Sorpresa dalle attenzioni di cui era oggetto, si quietò. I genitori s’avvidero che occorreva cambiarla.

Mary la sollevò, s’involò, avendola presa in braccio.

«Fa effetto chiamarla Ester,» Guido si era seduto con gli amici, «una persona… e non sa fare nulla, connette a mala pena qualche sensazione. Non vorrei scioccarvi, ma caruccia com’è, a volte mi sembra una bestiolina. Eppure diventerà un essere completo, unico.»

«Le bestioline non ridono,» Michela osservò, «ha un’anima uguale a quella che avrà sempre.»

«Così dice la religione… Ci vuole pazienza coi bimbi, aspettando che compiano le fasi della crescita. E ci sono i ritardi. Si va a leggere gli articoli in Internet, si sente il pediatra… Abbiate pazienza anche voi: dovevamo cambiarla prima… Mary ha una commessa in negozio, è una brava figlia, ma va seguita; se la cava meglio nel mestiere della bambinaia.»

Preparando l’aperitivo, chiese quali nuove tenessero in serbo.

Fabio e Michela si scambiarono un’occhiata.

«Vedo che qualcosa c’è,» disse sornione. «Segreti?»

«Michela è in dolce attesa.»

«Allora, felicitazioni! E scusatemi lo sproloquio di poco fa.»

«Puoi immaginare… » lei lo scagionò.

Mary sopravvenne col suo incedere:

«Le ho dato la poppata e è cascata dal sonno,» riferì. Si mise a distribuire i calici dello spumante.

«La missione della mamma mi si adatta poco; la puericoltura richiede una costanza che non mi ritrovo… »

«Discorrevo prima di prole inetta,» Guido intervenne con un pizzico di fastidio, «non è che tu sia negata per l’allevamento, fai quello che occorre al tempo giusto… »

«Sì, e mi costa,» levò il bicchiere con gli altri. «Questo mi fa arrabbiare. Sono la mamma della mia creatura, guai all’idea che lei non ci sia, ma… Insomma, ho il dubbio d’essere abbastanza snaturata… Cose grosse, nevvero?»

«La donna è polivalente,» Guido si burlò di lei, «una specie di essere mitologico… »

«Un mostro, dillo pure,» stava allo scherzo, «ma è una vile esagerazione.»

«Ci sono ricascato!» Guido ammiccò agli amici: «Dire queste bestialità in presenza d’una madamin che aspetta un bambino… Me l’hanno annunciato un minuto fa,» disse alla sua compagna.

«Che bello, cara!» Mary si slanciò ad abbracciare Michela, «Mi sento rinata. Ci faremo compagnia, lo sai?» colse il consenso della gestante, «alleate per difenderci da ‘sti bruti.»

 

Suonò un telefonino. Il ragazzo del fornaio aveva potato le pizze.

Sulla tavola apparecchiata Mary distribuì le birre. Guido fu lesto a riempire i piattoni. La normalità della lieta occasione di trattenersi in spensierata compagnia urtò contro il problema irrisolto e tiranno che i perseguitati avevano dentro e che, ridestatosi, prese a molestarli.

Poco dopo aver cominciato a ritagliare i bocconi e a innaffiarli di birra:

«Ragazzi, mi sbaglierò. ma ho l’impressione che teniate per voi un pensiero nascosto,» disse Mary placidamente. «E allora?» insistette notando una titubanza.

«Macché… » rispose Fabio.

«Fabio, non credi che potremmo… » Michela era propensa a vuotare il sacco.

«Ritieni che sarebbe bene… »

Lei assentì due volte col capo.

«Via,» Guido lo spronò, «non siamo amici?»

«I soli amici che abbiamo,» lui asserì, gli occhi negli occhi. «E conosci bene l’incidente, la sciagura che è capitata alla cascina.»

Mise fuori l’incontro con Amir, alias Abdel Kassel, il pedinamento dei suoi scagnozzi, il riconoscimento riportato al Commissario, il gatto morto trovato da Michela davanti all’uscio, e la sua deposizione rilasciata quello stesso pomeriggio. Il Commissario aveva con sodi ragionamenti prospettato la cattura o la fuga del malvivente, ma erano supposizioni. Lo scudo della Polizia appariva temporaneo, forse precario. Le richieste di ragguagli avevano integrato il quadro della situazione. La malavita aveva un codice spietato, che prevedeva la severa punizione di quelli che contravvenivano alle sue diffide.

«Capisco il vostro assillo,» disse Mary immedesimandosi. «Vorrei potervi aiutare… » Non aveva usato il tono di chi esclude di farci qualcosa.

«Si capisce che li aiutiamo,» Guido affermò, «appoggiatevi a me per tutto quello che è nelle mie possibilità.»

«Per quello che posso… » Mary considerò, e la maschera bella del suo viso si accese, compì la metamorfosi, «faremo di più. Non dico l’impossibile, ma molto di più.»

Lo sguardo da lei rivolto ai muri aveva un significato.

«Sentite,» Fabio credette d’aver captato l’intenzione, «non vogliamo che vi mettiate nei pasticci per colpa nostra.»

Michela aderì alle sue parole.

«Michela viene a stare con noi fintanto che la bufera non sia passata,» disse Mary. «È la cosa giusta per lei, per il suo stato e perché coinvolta in una disgrazia… »

 

«Ci sono coinvolta comunque,» le diede sulla voce. «Sei generosa, lo apprezzo e te ne sono grata, ma io da Fabio non mi separo.»

«Perfetto, non ti do torto. Venite qui entrambi,» la determinazione le aveva ridato l’usuale compostezza, «il posto c’è. Facciamo una favolosa compagnia. Che ne dici amor mio? Non ti alletta l’avventura?… Fermi! Non fraintendete, non prendetemi per una stravagante, per un’esaltata. A te Guido, dico: non vuoi uscire dal pantano con un bel gesto controcorrente, andando alla guerra per l’amico? Un gesto anche patriottico, oserei dire. Volontario in guerra non guardi ai pericoli; e in questo caso è difficile che rischi la pelle.»

Nel silenzio palpabile era palpabile lo stupore.

«Abbiamo una figlia,» Guido eccepì.

«Credi che non ci abbia pensato? Non vanno in guerra uomini e donne – un tempo le ausiliarie – che hanno famiglia?»

«Sei ammirevole… » Fabio sinceramente cominciò.

Lei non gli permise di continuare:

«Ah! ah! non voglio sentire altro! Siamo tutti ammirevoli. Voi due la vostra parte l’avete fatta. Ora spetta a noi essere solidali, disinteressati. Fattivamente.»

«Alla guerra disarmati… » Guido fece notare.

«In casa ho una pistola, so adoperarla» Mary rivelò. «Non si va mica all’assalto.»

Fabio aveva la rivoltella nella tasca interna del giaccone, ora appeso nel guardaroba di quella casa.

Lo teneva nascosto a Michela, benché fosse differente da mamma Celeste, che si era impaurita quando lui aveva preso l’arma e purtroppo non l’aveva usata.

«Sei una strana donna,» stava dicendo Guido, «non avrò mai finito di conoscerti.»

Mary colse lo sguardo di Michela caduto sulla menomazione del geometra.

«Sarà un nuovo Enrico Toti,» Mary sussurrò all’orecchio dell’amica con un risolino. «Però mi approvi e abbracci la causa,» ribatté ad alta voce, rivolta al suo compagno. «Non sia detto che attraversiamo questo bordello d’epoca da succubi, da imbelli.»

Spettava agli sfortunati amici accettare l’offerta.

«Ci sto,» Fabio si decise, «lo faccio per Michela. Non me lo perdonerei, se dovesse andarci di mezzo, avendo potuto in qualche modo evitarlo.»

Lei stava a capo chino: «E io lo faccio per te.»

«Grande!» l’intrepida esclamò. «Domattina fate le valigie, mandate uno squillo e ci accordiamo sull’ora del vostro arrivo.»

«Naturalmente io andrò in giro per i miei affari, che ho trascurato.»

 

«Neanche Michela sarà in prigione. Si regola secondo il suo criterio. Ci mancherebbe altro,» disse la padrona di casa.

«Per le spese… »

«Per i dettagli ne riparliamo,» Guido lo fermò, «Adesso… »

«Adesso vi ringraziamo, ma non ci sono parole… E leviamo le tende,» Fabio si mosse.

«Mi raccomando: riporta le tende per piantarle qui,» disse Mary.

La compagnia si apprestò a dividersi.

 

L’indomani non fecero le valigie. Uscì prima Fabio, portando con sé una borsa e un pacco, e Michela, venti minuti dopo, avendo lasciato accesa la lampada del soggiorno. Raggiunse il supermercato per fare acquisti che supplissero a ciò che mancava nel loro minimo bagaglio. Il marito l’aspettava nel posteggio dei clienti.

 

I tre giorni seguenti scorsero pacifici. Le coppie conciliarono le loro abitudini. I rifugiati fecero esercizio di discrezione e di penitenza, giacché la personalità di Mary un po’ lo richiedeva. La recente educazione religiosa alleviò i sacrifici. La fede ascriveva a merito quelli assunti con accettazione e consapevolezza. Per il resto, le sventure colpivano col beneplacito di Dio, il che non implicava né ribellione né fatalismo. Le circostanze impedivano di ricorrere all’ausilio del direttore spirituale, tuttavia un discreto bagaglio dottrinale stava a disposizione della buona volontà.

Fabio avrebbe desiderato trasmettere a Guido e specialmente a Mary il cattolico significato della vita e della morte, l’idea degli uomini viatori sulla terra, per cui era molto più importante il Cielo e il destino in Cielo. Sarebbe stato magnifico far loro intendere che lo sprezzo, di colore eroico, del quieto vivere e della vita, il suo trascendimento spogliato dell’amor proprio trovava collocazione e conforto nella fede. Un accenno alla realtà portentosa della santa Sfera, attestata dai Santi miracolosi, era naufragato sulle secche dell’incredulità. Sperò nella Provvidenza , accontentandosi del rispetto tributato da Mary ai credenti.

Compiute le visite e le consegne alla clientela, conveniva cominciare con la potatura, avvantaggiarsi, valendosi del tempo asciutto, e scongiurare l’evenienza che le gemme, germogliando sui tralci inutili lo redarguissero e l’intralciassero.

Michela ebbe rare necessità di oltrepassare il cancello. La cittadina le era quasi sconosciuta e quasi indifferente. Si fece vedere di rado nel giardino. Mary provvedeva alle quotidiane provviste e alle pulizie per mezzo di Lucia, la giovane che la sostituiva in negozio quando occorreva. Michela coadiuvava anche accudendo la piccola Ester. Le due donne rappresentavano l’incredibile disparità esistente tra i tipi femminili, sovente pregiudizievole nei loro rapporti, salvo una provvidenziale e congrua condivisione. Le peculiarità di entrambe furono oggetto di reciproco apprezzamento, fungevano sovente da compensazione. L’esattezza dell’una risarciva le incuranze dell’altra, la modestia dell’ex tossicomane moderava la vanità della scampata alla schiavitù della droga. Un soprammobile artistico ma aggressivo, venne riposizionato.

«Che te ne sembra, su questo piedistallo? Il mobile rende di più e l’uccello prende più luce»

«La mia aquila!» era insorta la donna aquilina, «sbattuta su un trespolo come un pappagallo?»

«Ma no, cara,» si era ricreduta, «va bene così. Prendeva troppo spazio sul canterano. Lo specchio, duplicandola, la svalutava.»

Michela aveva ripensato alla sua dama né aristocratica né borghese, che le sarebbe piaciuto mostrare all’amica. Ripensava all’appartamento inaugurato al ritorno dal viaggio di nozze. La dama d’immutabile eccellenza in confronto a Mary aveva il difetto d’avere carne ed ossa di legno, da cui non uscivano qualità insospettate né pecche.

Di giorno, Guido si faceva vedere al massimo un paio di volte, di sfuggita: il tempo di prendere un caffè e fumare una sigaretta. Invariabilmente garbato, signorile. Le serate, dalla cena alla mezzanotte, furono piacevoli, inframmezzate da una partita di pinnacolo.

 

«Le telefono perché abbiamo tolto il sorvegliante al vostro alloggio,» Argeri disse glaciale. «Dalle note degli agenti si evince che vi siete trasferiti altrove… »

«È così,» Fabio non fece a meno di pensare che la sorveglianza era stata carente.

«Gentili, lei deve essere collaborativo. Le astuzie con me non attaccano.»

«Mia moglie era ossessionata, abbiamo preferito prendere il volo.»

«E dove vi siete posati?»

«Qua e là. Attualmente siamo senza fissa dimora.»

«Gentili, non mi va di scherzare, sia preciso… »

«Ma è così. Glielo ripeto: mia moglie non cela fa a stare ferma in un luogo.»

«Allora, lei ogni sera mi chiama e mi segnala dove siete. In questo momento… »

«In questo momento siamo alla cascina,» mentì, «ma stiamo per andarcene. Le dirò in quale albergo saremo scesi.»

«Stia bene attento a quello che le dico: sono sulle tracce di Kassel. Ho scoperto il suo covo. Si è dato alla macchia, ma circola in zona. Alla battuta sono interessati i Carabinieri. Di conseguenza, state all’erta.»

«Ricevuto, dottore. Le faccio sapere l’albergo dove prenoto una stanza.»

Era a pochi metri dal termine del filare. Mosse la gamba per sentire sulla coscia la rivoltella nella tasca dei pantaloni da lavoro. Non era il caso di mettere in ansia Michela. Infilò i forbicioni della potatura nella tasca posteriore. Per prima cosa tornava su a vestirsi. Si vedeva già sull’itinerario più breve per arrivare alla villa di Mary. Lì, avrebbero atteso la sospirata cattura. Argeri poteva avere il numero di Michela e telefonarle, poteva rintracciare il loro rifugio tramite i rilevamenti delle chiamate. Scrisse il messaggio: Non telefonare e non rispondere al telefono per nessun motivo. Tra breve parto dal Greppo. Ti spiegherò.

Risalì l’erta di terra pestata dai cingoli e dalle pedate dei vendemmiatori, in superficie sfarinata dal gelo, cosparsa di rade erbette precoci. La selva bigia dei tralci aderenti ai fili d’acciaio si diradò. In cima, ascese la scorciatoia che sormontava il ciglio dell’aia.

 

Sull’aia un uomo, un nero, piegato sopra il sedile dell’auto, stava armeggiando sotto il volante.

Chiaro, lo scopo di far partire il motore. Lo scricchiolio di sassolini sotto la scarpa, e l’altro si voltò.

Era lui, Amir! imbrattato, lucido di sudore. Fabio estrasse il revolver. Amir balzò fuori dalla portiera aperta. Non fece in tempo a intimargli di alzare le mani. Corso dietro la carrozzeria, acquattato, il nero fece spuntare la testa e la canna della sua arma. Si ritrasse prevenendo lo sparo diretto a colpirlo. Fabio era allo scoperto. Si buttò a terra, retrocedette su gomiti e ginocchi per ripararsi dietro il margine della ripa. Un proiettile sibilò sfiorandogli la tempia, ma fece in tempo a scivolare giù, a correre a rotta di collo sul sentiero. Un altro colpo lo inseguì. Fu all’angolo della ripa dal lato del portico, avendo evitato di darsi alla fuga nella vigna. Respinse un senso d’irrealtà che voleva ghermirlo: la sensazione, ritardante, di guardarsi agire. Rientrò in sé accanito, arrampicandosi lungo il muro della cantina e del portico. Aveva più cartucce dell’avversario, da sparare. Ma quello era favorito dalla posizione. Salendo, lo vide comparire, avvicinarsi quatto. Lo puntò, premette il grilletto. «Ah!» fece il colpito, piegando l’omero. Nel medesimo istante Fabio sentì lo scoppio secco della pistola e un singolare dolore allo stomaco. Subito dopo crebbe la sagoma del nemico, sentì due scoppi uguali e una fitta nel fianco, quand’era ormai ripiegato e stava cadendo. Poi Amir gli fu sopra, a rivoltarlo, a frugargli nelle tasche, ansante e di mogano. Gli si chiusero gli occhi. Le chiavi di casa diedero un tintinnio. Fu l’ultimo rumore che udì.

Il criminale entrò dal portoncino blindato, s’impadronì delle chiavi della macchina posate su una mensola. In bagno prese dallo stipetto una manciata di cotone idrofilo, tamponò il foro sotto la spalla sinistra, fermò l’impacco con garza e cerotti. Si tenne pronto per partire a tutta velocità.

Al rombo del motore Fabio era rinvenuto e non riusciva a muoversi. Socchiuse le palpebre pesanti.

La vista annebbiata lo preoccupò. Pensava a Michela. Le mani, le braccia rispondevano. La vista si snebbiava un poco sotto lo sforzo della volontà. Tastando, percepì il sangue che, colato dalla cintola in giù, inzuppava i calzoni. Usciva dal ventre e dal fianco. Il dolore delle ferite lo penetrava diffusamente, sopportabile. Tastò la tasca interna del giubbotto, prese il telefonino. Nella furia, Amir, strappate le chiavi, aveva raccolto la rivoltella lasciandogli il cellulare. Aprì gli occhi appannati, schiacciò il tasto, compose lentamente sulla tastiera il 112. Rispose alla voce impersonale dando l’indirizzo, dicendosi ferito. Dovendo ripetere, divenne afono, stremato. Prese fiato, rilasciandosi. Con un filo di voce disse: «Michela… Dio…» Sprofondò nell’incoscienza.

 

Michela, sorretta da Mary, fu ammessa alla stanza di rianimazione. Fabio giaceva nel posto accanto a quello dove era spirata sua madre. Il volto illeso, inavvicinabile, s’intravedeva doloroso e fermo dietro la mascherina per l’ossigeno. Il medico di guardia, scossa la testa, si era pronunciato dicendo che potevano sperare soltanto in un miracolo. Lei, impietrita, senza più lacrime, ingobbita, aveva manifestato una grande rassegnazione, nella quale una folla di immagini care, una grazia di pensieri alti, la raffermavano. I secondi scorsero insensibili, indefiniti. Le sussurrarono inviti sensati, incoraggiamenti; non riusciva a staccarsi da lui. Venne meno.

Si svegliò su una barella di corridoio. Mary l’accarezzava dicendole consolazioni. Dolcezze inimmaginabili comparivano sul suo viso. Il medico, lo stetoscopio al collo, ritirandosi di due metri con lei la rassicurò:

«Cuore e respirazione vanno bene. Con quello che le è capitato non le parlo… non intervengo. Bastate voi. Ma faccio chiamare lo psicologo.»

La faccia bionda e contrita di Guido salì alle spalle piegate della sua compagna.

«Come sta?» chiese.

«Si riprende.»

«Dammi il cellulare,» chiese Michela.

Mary non capì. Evitò di contrariarla e frugò nella borsa posata vicino ai piedi, sul lettino.

«Devo cercarti un numero?» aveva acceso lo strumento, «posso chiamare io?»

«Don Antonio.»

Mary compì adagio l’operazione, disse: «Reverendo, le passo la signora Gentili.»

Michela fu mirabilmente sintetica nel domandare l’urgente presenza del sacerdote.

«Ho fatto la sua volontà,» sospirò. Quindi, corrugando la fronte: «Ma, sia fatta la Tua volontà.»

Aveva l’idea di raccogliersi e di pregare. Non riuscendoci, si sollevò sul fianco e mosse le gambe per scendere.

«Aspetta qualche minuto,» Mary la trattenne, «il dottore consiglia che tu resti distesa.»

Lei aveva dimenticato il preciso intento dell’impulso, ma aveva di mira lui, il rivederlo.

«Gradisci di sentire lo psicologo?»

«No.»

In quella, si fece agitazione nell’ambiente. Armando ed Elisa, tesi verso la figlia, si diedero a placare la loro ansia. Gli amici, scostati, contribuirono a calmarli. Poi i genitori erano in balia degli interrogativi, combattuti tra le recriminazioni per essere stati dimenticati e le sollecitudini verso la figlia e il genero. La pietà s’impose, e l’affetto. Finirono di mettersi al corrente sulle condizioni di Fabio. Proposero a Michela di venire a casa almeno per riaversi e dormire. La figlia fu buona con loro, stupendo se stessa per la capacità del proprio cruore.

«Devo rivederlo,» sostenne. Scese a terra reggendosi in piedi senza tentennamenti. Si rassettò aiutata da Mary.

Si spostarono nella saletta d’attesa. La coppia amica ragguagliò i genitori sul soggiorno di Michela e Fabio alla villa. Carabinieri, Polizia, tivù avevano dilagato nelle vite private mettendovi il subbuglio. Forzando un blocco dei militi dell’Arma, Abdul Kassel era stato ucciso sull’auto rubata.

Per calmare l’impazienza e i nervi dolenti della più provata, papà Armando si introdusse nella postazione del medico; in qualità di padre e suocero domandò che si esaudisse la povera sposa.

«Spiacente, non è più in Rianimazione,» disse il brav’uomo, «l’abbiamo trasferito nel Reparto di Medicina Critica.»

«Ma il suo stato… »

«Non c’è nulla da fare. Ha il fegato e l’intestino trapassati dai proiettili, una lesione alle vertebre. L’emorragia è stata micidiale.»

Lei non capitolò. Nello scomparto della camerata compreso fra cortine laterali, Fabio era in coma, composto, gli occhi chiusi, cereo e bello nel virile stampo dei lineamenti. Un’infermiera accompagnava i congiunti.

«E non gli fate niente?» Elisa volle sapere. «Lo lasciate… così?»

«Ne avrà ancora per poco,» la donna bisbigliò. «Se vuole più soddisfazione, si rivolga al primario.»

Lei aveva capito. Si accostò al capezzale. Baciando l’adorato sulla fronte, sulle labbra, farfugliava, a ciglia asciutte, a occhi spersi nei tesori passati e non perduti, immutabili. Niente e nessuno glieli avrebbe mai tolti. Di lui custodiva in grembo un pegno, un essere in nuce.

Il moribondo ebbe un tremito delle labbra, del corpo, e rese l’anima. Michela gli diede un bacio di addio, gli tenne la mano sul capo, si fece il segno della croce. Bisognò accettare il distacco. Lasciò fare al babbo, all’infermiera, al medico sopraggiunto.

Don Antonio, alto e robusto, arrivato con un ritardo di minuti, incontrò madre e figlia nella sala d’aspetto. Non poté far altro che offrire le condoglianze e la speranza cristiana, nient’altro che entrare nel Reparto e ottenere di dare la benedizione alla salma, mettendo Fabio nelle mani del Signore. Custodiva nella borsa l’Olio Santo, il Rituale Romanum per somministrare l’Estrema Unzione. In una scatoletta indorata appesa al collo, sotto la zimarra, c’era il Viatico. Soleva affidare al Cielo gli esiti favorevoli e i contrari.

 

Ripassò dalle donne col suo aspetto austero e comprensivo. Armando era di ritorno dall’aver appreso la procedura concernente i defunti in Ospedale, dall’aver disposto, interpretando i sentimenti di sua figlia, ciò che spettava ai parenti di provvedere. Michela incaricò il sacerdote di officiare il rito funebre.

A poco a poco si elevò intorno a lei un tempio ideale, un universo sacro, sopra il mondo degli ignari confinati nella vita che passa. Nella vita eterna, aveva detto Nostro Signore, non esistevano marito e moglie, ma chi andava in Paradiso godeva dell’indicibile Comunione dei beati. Frattanto lei aveva il fiore di questa vita vissuta con Fabio, che l’avrebbe accompagnata sino alla fine.

 

Quando si recò alla Messa pomeridiana dell’Istituto, dopo la celebrazione don Antonio, che l’aveva confessata, all’atto del commiato la prese in disparte e le disse:

«Cara signora, abbia sempre in mente che tutto quel che succede, in fondo è sempre giusto. Dio permette le tribolazioni, da noi meritate, perché sono prove da superare per salvarci, perdonando gli offensori. Sono prove che saggiano l’indispensabile virtù della carità, consentono di correggerci, di vedere la nostra miseria, di debellare la nostra presunzione, gli attaccamenti umani, e inducono a pregare. Invece gli inganni del mondo non si accettano, vanno contrastati conforme alla carità, in quanto inducono l’uomo a reagire malamente al male che lo colpisce. Gesù diede l’esempio contrastando errori ed erranti per la protezione del suo gregge.»

 

F I N E

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